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Titani: un commento

Se un’idea è più moderna di un’altra è segno
che non sono immortali né l’una né l’altra”
Carlo Emilio Gadda

Enrico Marani, @SamoraSOUND ha scritto un interessante post su “Titani e Titanismo” e, in un tweet successivo, si è detto alla ricerca di uno “junghiano” che lo commentasse.

Ho messo tra virgolette il termine junghiano perché, fedele alla massima di Jung che disse che non conosceva altri junghiani al di fuori di se stesso, mi astengo dal definirmi tale e perché non so se il mio commento sarà in qualche modo sintonico con ciò che Jung avrebbe detto se le domande che vengono poste nell’articolo gli fossero state rivolte.

Certo ne seguirà, in piccolo, il metodo: l’amplificazione. Girerò un po’ attorno all’idea e all’immagine del Titano e, partendo dalla descrizione di Enrico, che vede questa figura in termini più politici che psicologici, mi sposterò sul mio piano (altrettanto inclinato) che, invece, si concentra sulla soggettività, sulle sindromi e sulle resistenze e sintomi che ai “Titani” si accompagnano.

Si chiede Enrico: “Dove si nasconde ora la ribellione dei Titani contro tutte le forze superiori (divinità, destino, natura, potere dispotico ecc.) che dominano e opprimono gli slanci vitali e la libertà stessa? Nella postmoderna erosione di senso, in un capitalismo ridotto a monarchia di banche centrali e oligopolio di multinazionali, nel comunismo Cinese o nel dispotico postcomunismo Putiniano c’è ancora posto per i Titani? Dov’è la loro ribellione che frantuma muri, sradica eserciti e blocca miniere? Dov’è quel combustibile per combattere ed inveire contro il cielo e gli elementi?[…] Dove pulsa l’urlo di un’epoca nuova che incanali la furia dei Titani nell’alveo di un nuovo orizzonte?” Continua a leggere

Cronaca 22 – Persuasione II Parte: Alberi

Non smetteremo di esplorare.
E alla fine di tutto il nostro andare ritorneremo
al punto di partenza per conoscerlo per la prima volta”
T.S.Eliot

Riferendosi alla Cronaca precedente, la I parte sulla Persuasione, in cui usavo l’immagine di Ulisse e delle Sirene, un’amica mi ha scritto chiedendomi se l’albero della barca a cui Ulisse si fa legare non sia una metafora della “Realtà”, un punto àncora a cui restare saldamente attaccati per non lasciarsi trascinare dai canti suadenti che ci porterebbero lontano, troppo distanti dal terreno su cui poggia il nostro io.
Scrive Elena: “… E’ quell’albero che accompagna e, insieme, sostiene Ulisse dalle sue stesse paure, spingendolo sempre più dentro di sé ad “aderire a sé stesso”. Solo allora potrà arrivare ad Itaca. Riflettendo mi chiedo e ti chiedo se esista una differenza psicologica tra quell’albero e Itaca e se tra loro ci fosse un nesso, come tra i soggetti e i luoghi…”.

E’ una buona domanda, mi dà l’occasione di portare avanti un discorso che mi sta a cuore e che fa da cornice a tutta una parte del mio lavoro: quella in cui, ascoltando e persuadendo, osservando e fornendo chiavi di lettura, co-costruisco insieme al paziente un pezzo di realtà, un contesto in cui esprimerci. Mi dà, inoltre, lo spunto per riflettere sulle metafore: potenti immagini che, più che descriverla, costruiscono la realtà.

Il termine stesso “albero della barca/nave” è già una metafora (come gamba-del-tavolo o piedi-della-montagna). Sarebbe un palo, quello della barca, ma dicendo albero diciamo molto di più. È stato un albero e “lo è ancora” nella misura in cui, metaforicamente, ha radici, si erge, punta verso il cielo, evoca e conduce a terra. E’ da quell’albero che si può scorgere la terra, è su di esso, l’albero maestro, che si fa conto per la tenuta della nave e la capacità di prendere il vento, sull’albero si issa la bandiera, ecc. Dicendo albero significhiamo qualcosa di diverso e di “di più” rispetto a ciò che un più prosaico “palo centrale e più alto della nave” comunicherebbe. Continua a leggere

Cronaca 21 – Persuasione I Parte: Sirene

La persuasione, specie nelle sue forme più alte,
non può essere raggiunta senza il senso della bellezza”
Sir A. Quiller-Couch

Peitho era, secondo gli antichi greci, la divinità della persuasione. I Romani la chiamavano Suada (da cui persuadere, appunto) ed era spesso rappresentata insieme ad altre divinità, al seguito di Venere/Afrodite, la dea della bellezza e dell’amore.

Sia nella seduzione che nella retorica la capacità di persuadere è una risorsa irrinunciabile: solo se si riesce ad essere persuasivi si può, infatti, compiere quel gesto che ci permette di convincere l’altro e di portarlo dalla nostra parte , di renderlo partecipe di ciò che vogliamo comunicare o, a volte, di affascinarlo e… condurlo là dove vorremmo che fosse o dove ci piacerebbe essere insieme a lui.

Purtroppo, a forza di sentir parlare di “tecniche di persuasione-persuasori occulti-controllo della mente-plagio…”, capita che, appena si accenna a questo gesto, appena si considera la possibilità di far passare un messaggio e raccontare una storia che convinca, certe difese si alzino e certe resistenze si attivino come per delimitare bene i confini ed “evitare il contagio”.

Il muro di cui cantavano i Pink Floyd nel loro celeberrimo album (The Wall) con il coro di bambini che intona il ritornello che afferma quanto un bambino non abbia “bisogno di educazione e di controllo del cervello”, è come un manifesto di questa diffidenza nei confronti di una forza che, se non controllata o se usata disonestamente, potrebbe ridurci a marionette manovrate da chi è bravo nell’arte di persuadere.

Ma accade che la semplice diffidenza non funzioni. Continua a leggere

Psicologia e fantasia I

Tolkien

Tolkien’s drawing of Rivendell

 

Spesso quando parlo di miti, del loro potere esplicativo e della rilevanza di certe immagini antiche per la psiche moderna, sento la solita, comprensibile, obiezione: “Come possono queste storie influenzare veramente il mio pensare, il mio sentire e, addirittura, la mia salute mentale?”

I due brevi brani che ho tradotto e che potete leggere qui di seguito danno una parte di risposta e alcuni spunti di riflessione a quella parte di mente che fatica a cogliere l’importanza della fantasia e dell’istinto della mente per le storie.

Il primo brano è dello scrittore Jordan Jeffers e parla del celebre J.R.R.Tolkien, il secondo è di quest’ultimo che, prima di diventare il creatore della saga Il signore degli anelli era, innanzitutto, un filologo e uno studioso della lingua anglosassone. (Vi lascio per entrambi i pezzi i link agli articoli da cui li ho tratti)

“Tolkien è uno storyteller, un creatore di miti che ha creduto che i miti dimostrassero la verità e che la verità non potesse essere completamente compresa a prescindere dal mito. Non potremmo avere una piena visione delle stelle fin quando non potremmo vederle anche come “canti dell’argento vivo”; così come non avremo una piena comprensione della Terra finché non saremo in grado di concepirla come nostra madre. I nostri miti hanno un grande importanza e ciò che noi pensiamo degli Elfi aggiunge significato e intensità a ciò che noi pensiamo di noi stessi.”

Nel controbattere alle tesi di Max Muller che vedeva la mitologia come un “disturbo del linguaggio”, Tolkien ribadisce che: “La mitologia non è affatto una malattia, anche se, come tutto ciò che è umano, può diventarlo. Si potrebbe infatti dire che anche il pensiero è una malattia della mente. Sarebbe molto più vicino alla verità dire che le lingue, specialmente le moderne lingue europee, sono una malattia della mitologia. Ma naturalmente la Lingua non può certo essere squalificata in questo modo.

La mente incarnata, l’uso del linguaggio e il racconto, la storia, sono coevi, nati insieme, nel nostro mondo. La mente umana, dotata del potere della generalizzazione e dell’astrazione, non vede solo erba-verde, discriminandola da altre cose (e trovandola bella da vedere), ma vede che è verde oltre ad essere erba. Quanto potente e quanto stimolante fu, per la facoltà che l’aveva generato, l’invenzione dell’aggettivo: nessuna formula magica e nessun incantesimo del mondo fatato sono più potenti di esso. E questo non ci deve sorprendere: gli stessi incantesimi potrebbero in verità essere visti solo come una versione diversa dell’aggettivo, una parte del discorso nella grammatica mitica. La mente che pensò al leggero, al pesante, al grigio, al giallo, al fermo e al fulmineo, pensò anche alla magia che era in grado di rendere le cose pesanti leggere e in grado di volare, trasformare il grigio piombo in giallo oro e la ferma roccia in acqua che scorre. E se poteva fare una cosa, poteva naturalmente fare anche l’inverso. E inevitabilmente fece entrambe le cose. Se possiamo estrarre il verde dall’erba, il blu dal cielo e il rosso dal sangue abbiamo già, su un certo piano, il potere di uno stregone; e si desta nelle nostre menti il desiderio di esercitare quel potere nel mondo esterno. Non ne consegue che lo useremo nel modo corretto su tutti i piani. Potremmo mettere un verde mortale sulla faccia di un uomo e produrre un orrore; potremmo far splendere la rara e terribile luna blu; o potremmo far sì che i boschi si riempiano di foglie d’argento o che i montoni possiedano velli d’oro e immaginare che un freddo verme abbia un ventre pieno di fuoco. Ma in queste cosiddette “fantasie” nuove forme vengono alla luce; la Magia inizia e l’Uomo diventa una sorta di creatore.”

Quando immaginiamo usiamo un’intera collezione di aggettivi: attribuiamo caratteristiche agli “oggetti” che incontriamo, nel mondo e nel pensiero. Facendolo, li coloriamo e li rendiamo “potenti”. Ciò che, spesso inconsapevolmente, facciamo è un’aggiunta: sfumature e tratti che, determinando in larga misura la qualità degli oggetti con cui entriamo in contatto, determinano anche le nostre risposte, la nostra descrizione e il nostro umore.

 

Intelligenza: femminile, singolare

 

La prima di tutte le astuzie, sempre, sta nel velarsi.
Coprirsi il capo senza che questo sia un camuffamento…
Nessuna menzogna ma una falsità che racconta il vero”
M.Nucci

 

Parlerò, in questo post, di una capacità e di un antidoto. Due cose, racchiuse in un unico “farmaco” di cui, credo, occorra essere ben forniti e che tornano utili, di questi tempi; e che tento di stimolare, in seduta, come rimedi naturali: forze che sono già lì, nell’inconscio, e che, quando si attivano o quando vengono amplificate, cambiano un bel po’ di cose nel modo di fare e di pensare di chi può usarle.

Parlerò di prudenza e astuzia. E siccome sono due termini diventati ambigui e verso i quali scattano facilmente delle resistenze e, siccome ne parlerò come di due caratteristiche prevalentemente “femminili”, prendo un giro largo che passa dalle immagini della mitologia e da alcune metafore che, più che definire, richiamano idee e concetti, che sia con la capacità che con l’antidoto, hanno a che fare.

Nella terza delle sue Lezioni Americane Italo Calvino, parlando dell’Esattezza e dello sforzo che a volte gli capitava di compiere nell’accingersi a scrivere su un certo argomento, dice: “Alle volte cerco di concentrarmi sulla storia che vorrei scrivere e m’accorgo che quello che m’interessa è un’altra cosa, ossia, non una cosa precisa ma tutto ciò che resta escluso dalla cosa che dovrei scrivere; il rapporto tra quell’argomento determinato e tutte le sue possibili varianti e alternative, tutti gli avvenimenti che il tempo e lo spazio possono contenere. E’ un’ossessione divorante, distruggitrice, che basta a bloccarmi. Per combatterla, cerco di limitare il campo di quel che devo dire, poi a dividerlo in campi ancor più limitati, poi a suddividerli ancora, e così via. E allora mi prende un’altra vertigine, quella del dettaglio del dettaglio del dettaglio, vengo risucchiato dall’infinitesimo, dall’infinitamente piccolo, come prima mi disperdevo nell’infinitamente vasto.”

Naturalmente Calvino, vista la sua produzione letteraria, ha trovato degli ottimi modi per aggirare l’ostacolo e per non perdersi in nessuna delle due vertigini: né in quella del troppo grande, né in quella dell’incredibilmente piccolo.

Questa capacità di circoscrivere e di non entrare fino ad essere risucchiati nei dettagli, questo buon uso della misura che permette di dosare ciò che verrà detto e di filtrare ciò che, di un contesto, si coglie, corrisponde ad un tipo particolare di intelligenza: un modo di distinguere fra segnale e rumore; prendere o far passare certe cose, trattenerne/ritenerne altre che, magari, in quel momento vanno ignorate o velate o contenute ancora per un po’. Continua a leggere

Mnemosyne: la memoria e il pensiero

 

Per scrivere romanzi non c’è bisogno
d’immaginazione ma soltanto di memoria.
I romanzi si scrivono intrecciando ricordi”
R.Bolaño

Qualche giorno fa ho citato in un tweet una frase del romanzo La Pelle di Curzio Malaparte in cui un personaggio sostiene di essere contento di appartenere ad una generazione vinta perché “…Una generazione vinta è una cosa molto più seria di una generazione di vincitori.”

Chiosavo su questa frase aggiungendo che molto pensiero inizia da una sconfitta e un amico mi faceva notare che, sì, è vero, ma ci deve essere la disponibilità a pensar-si, altrimenti ogni sconfitta è solo vano sbatter la testa (sic).

Ha ragione: essere dalla parte dei vinti o essere dalla parte dei vincitori conta ben poco in termini di Pensiero a meno che non ci sia un intento vero, una disposizione a pensare.

Anch’io intendevo proprio questo e, nel farlo, mi appoggiavo (mi appoggio come si fa quando si sale sulle spalle dei giganti) su una teoria fra le più riconosciute nel mio campo: quella che, nella scia di Winnicott e di Melanie Klein, fa risalire la capacità di pensare a quei momenti in cui il bambino scopre la propria solitudine, quelle prime volte in cui la madre non è immediatamente pronta a soddisfare i suoi bisogni e non accorre subito, al suo primo vagito, per fornire cibo, conforto, contenimento.

Lì il piccolo essere umano si trova a dover gestire un bisogno senza la vicinanza di chi è geneticamente predisposto ad aspettar-si. A partire dal riflesso di suzione, presente quasi subito dopo la nascita, il bambino è pronto per essere soddisfatto da un seno che si aspetta. Come un piccolo consumatore vincente e come qualsiasi altro cucciolo di mammifero “sa” che ad un suo richiamo qualcuno arriverà e si prenderà cura di lui.

E’ questa predisposizione, osservabile e studiata a lungo, che fece dire a Winnicott “il bambino non esiste”: non possiamo osservare il bambino da solo perché ogni cucciolo umano è all’interno di una relazione e, quando quella relazione, dopo un periodo iniziale di presenza costante, comincia a mancare, la pensa! Continua a leggere

Sull’ironia: viaggiare leggeri

Come la melanconia è la tristezza diventata leggera,
così lo humor è il comico che ha perso la pesantezza
corporea e mette in dubbio l’io e il mondo e tutta la rete
di relazioni che li costituiscono.”
I.Calvino

Risponderò in questo post ad una serie di domande che mi sono state fatte dopo la pubblicazione dell’ultimo “Sull’ironia”, e lo farò prendendo spunto da un tweet di Gallizio, di oggi, che dice che “per far comprendere un concetto, per trasmettere un’idea a un bambino non serve semplificare, serve arricchire”.

Non perché creda di scrivere per dei bambini ma per “il fatto” che son convinto che anche gli adulti, adulterati, scafati, e disillusi, hanno/abbiamo bisogno di amplificare e di arricchire e di guardare da almeno (almeno) due punti di vista per non cadere nel letteralismo e nella monotonia della visione unica.

Diceva Calvino in Lezioni Americane, parlando di Kundera e del suo L’insostenibile leggerezza dell’essere, che: “Il suo romanzo ci dimostra come nella vita tutto quello che scegliamo e apprezziamo come leggero non tarda a rivelare il proprio peso insostenibile. Forse solo la vivacità e la mobilità dell’intelligenza sfuggono a questa condanna: le qualità con cui è scritto il romanzo, che appartengono a un altro universo da quello del vivere.”

Mentre descrivono, certi romanzi e certi saggi sembrano alleggerire: sembrano compiere una sorta di gesto contro natura. Come se potessero ringiovanire le cose mentre il tempo passa o semplificarcele mentre diventano più complesse o renderle belle e avvincenti anche nel dolore e nella fatica.

Ciò su cui ho insistito nell’ultimo post, ciò che mi preme evidenziare anche come psicoterapeuta, è proprio questa capacità che abbiamo di sciogliere o coagulare, alleggerire o appesantire un evento.

Chagall La passeggiata

Chagall La passeggiata

Ci sono, credo, due tipi di ironia. C’è un’ironia inclusiva che chiude il mondo in una descrizione cinica e disillusa che include, appunto, appiattendo ciò che osserva e catalogandolo come un “già visto, già provato, niente di nuovo, niente da imparare”. E c’è un’ironia aperta che guarda oltre e che, alleggerendo, solleva un velo e fa vedere altro: mette in ridicolo, magari, ma non tanto per zavorrare e sminuire quanto per rendere volatile e, quindi, meno solido, in evoluzione, che può cambiare. Continua a leggere

Perfezionismo o maestria?

Non ho fallito, ho semplicemente
trovato i 10.000 modi in cui non funzionava”
T.Edison

Aidos è la dea greca della vergogna e della modestia. Se ne va in giro insieme a Nemesi, dea della vendetta, ed è in grado di incutere in chi la percepisce quella sensazione di riverenza e di pudore che dovrebbe trattenere gli esseri umani dal compiere il male.

Credo dovrebbe stare, inoltre, nello studio di ogni psicoterapeuta come un antidoto, un farmaco da somministrare a chi tenta di essere perfetto: gli ossessivi in particolare che intravedono la catastrofe in ogni imperfezione del comportamento, in ogni sbaglio che non deve esser scoperto e che va subito rimediato per evitare la vergogna appunto e la colpa e la vendetta di… chiunque scopra l’errore e, soprattutto, di quel giudice interiore che sempre misura la distanza fra l’io e l’ideale e, negli ossessivi, determina la fissazione che trasforma il pensiero in ruminazione e in coazione a ripetere/ritornare sui propri passi/ “rimediare”.

Questi comportamenti sono evidenti in chi soffre di DOC ma nessuno sfugge completamente allo sguardo di quella parte di noi che, imponendo uno standard irraggiungibile, ci tiene sotto scacco e ci paralizza con richieste soverchianti e con desideri inesaudibili. Continua a leggere

Cronaca 17 – Sul narcisismo I Parte

“Siamo sempre nell’abbraccio di un’idea”
J.Hillman

Scrivo questo post dopo aver letto un articolo di Roberto Cotroneo intitolato “Il narcisismo è la malattia del futuro”. Concordo in una certa misura con il punto di vista dell’autore e prendo come spunto il suo scritto per riflettere un po’ sulle immagini, sulle rappresentazioni e sull’idea di attaccamento all’immagine e di “tradimento di ciò che si è”.

Come altri miei post anche questo sarà un’amplificazione: un procedere, come faceva Jung, girando intorno all’immagine e al concetto di cui si vuole parlare e su cui si decide di mettere l’attenzione, un lasciare che le associazioni si liberino e che escano altre idee che stanno di fianco, vicino o in ombra rispetto all’argomento.

Ogni volta che parliamo di Narcisismo facciamo un discorso sull’Immagine: ogni volta che tiriamo in ballo lo smodato amore per l’apparenza, per la “bellezza superficiale” e per l’accento sulla cosmesi (il bisogno di nascondere le magagne e di stendere un velo su ciò che siamo per… sembrare meglio), ogni volta che ipotizziamo una distanza fra l’essere e l’apparire, evochiamo, come fece Freud, la figura mitica di chi nell’immagine si perse.

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Disturbo ossessivo compulsivo: quattro chiacchiere mitologiche

” L’uomo è l’animale non ancora stabilizzato”
F. Nietzsche

Più di un paziente mi ha chiesto di parlare del Disturbo Ossessivo Compulsivo.
Alcuni di coloro che me lo hanno chiesto ne soffrivano in forma più o meno grave e lo hanno fatto, quindi, con una certa insistenza, con la dovuta cautela e con i giusti intervalli di tempo fra una richiesta e l’altra e pregandomi di non rispondere subito ma, qualora avessi scritto qualcosa, avvisandoli per tempo in modo che si potessero preparare prima di leggere.

Scherzo, naturalmente, e scherzerò in questo post! Scherzerò su un argomento serio e su cui la correttezza e la serietà sono d’obbligo per chi ne soffre, soprattutto, ma anche per quelli che assistono ai rituali che chi è affetto da DOC (la sigla del disturbo ossessivo compulsivo) mette in pratica.

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