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Collera: predatori e dèi

“Tempo e attenzione… molto meglio del sangue di un agnello”
American Gods

Negli animali e negli uomini la collera può essere un’importante risorsa. Serve ad allineare gli altri ai propri desideri impliciti perché l’impeto dell’animale dominante dà un chiaro segnale, un messaggio che convince a sottomettersi, a seguire, ad attivarsi senza fare troppe storie. È appropriata in un combattimento, potrebbe esserlo in una caccia e funziona perfettamente se, in certi contesti, è indossata da un capo branco o da un sergente. Nella sua forma più primitiva può essere una reazione di irritazione innescata da squilibri omeostatici come la fame o la sete e finisce non appena il bisogno viene soddisfatto. Capita addirittura che, nell’istante in cui si intravede la possibilità di riempire il vuoto e di “sfamarsi”, la rabbia venga sostituita da una sorta di entusiasmo: il sistema emotivo della collera si disattiva  per lasciare spazio a quello della ricerca/ricompensa che prepara il corpo e la mente alla soddisfazione (è il meccanismo che sta sotto all’idea che l’attesa del piacere possa essere, essa stessa,  un piacere).

Negli esseri umani la ricompensa è spesso la soddisfazione di un bisogno più complesso della fame o della sete: siamo animali sofisticati, aspiriamo a piaceri sottili e siamo disposti ad attendere a lungo e a posticipare il godimento pur di ottenere ciò a cui miriamo. Questo attendere è, secondo Freud, una delle caratteristiche del Principio di Realtà, quello stato di coscienza che ci permette di trattenere l’impulso alla soddisfazione immediata e che ci rende molto più “civili”, riflessivi e in grado di lavorare: fare cose che possono sembrare insensate ma che, in futuro, daranno frutti. (Cose tipo accettare un lavoro infame pur di avere una garanzia di sopravvivenza)

Coltiviamo aspettative e la delusione delle aspirazioni del sistema delle ricerca genera collera: ci arrabbiamo perché, nonostante i nostri sforzi, non siamo stati premiati.

Credo che un modo fruttuoso di osservare la collera sia quello di posizionarla su un continuum delle aspettative con, da una parte, un predatore primitivo, una sorta di animale che si avventa sull’oggetto del proprio desiderio per saziarsi subito e, dall’altra, all’estremo opposto ed altrettanto radicale, un bambino capriccioso, un dio moderno che monta su tutte le furie se ciò che pensa non accade e se ciò che gli spetta non gli viene consegnato in sacrificio.

Due estremi con due diverse patologie e con, in mezzo, da qualche parte, un equilibrio sano, un luogo in cui, per dirla con Aristotele, esiste una saggezza pragmatica che ci permetta di modulare l’emozione. “Chiunque può arrabbiarsi: questo è facile; ma arrabbiarsi con la persona giusta, e nel grado giusto, e al momento giusto, e per lo scopo giusto, e nel modo giusto: questo non è nella possibilità di chiunque e non è facile” (Aristotele).

Nell’incipit ho messo una frase tratta da una serie televisiva basata sul libro di Neil Gaiman “American Gods”. La pronuncia Media, una dei nuovi dèi, quelli moderni che, nel romanzo, sono in lotta con altri dèi più antichi e meno sofisticati.

Entrambi lottano per il potere, per la visibilità e per uno specifico nutrimento, diverso a seconda del carattere e della nicchia in cui ogni dio si colloca. Così Odino, uno dei vecchi dèi, si sostiene con l’arte dell’imbroglio di cui è maestro e confessa il suo timore più profondo, quello di essere dimenticato, mentre Media usa le immagini di personaggi famosi per manifestarsi e dice di preferire il tempo e l’attenzione dei suoi fedeli al sangue di una vittima sacrificale. È una vecchia storia e, al contempo, un’ottima metafora: i vecchi dèi (le parti più antiche, indifferenziate e primitive del cervello/mente) si accontentano di “cibi semplici”; quelli nuovi e più evoluti (le parti più recenti della mente/cervello, quelle che sono venute dopo e che sono responsabili delle funzioni superiori) vogliono cose più complesse, si cibano di piatti che vanno masticati più a lungo, che si stagionano, che devono essere raffinati e che, a volte, marciscono.

Prendete la collera: gli aspetti inferiori e più antichi del sistema della collera provvedono a generare reazioni emotive che durino giusto il tempo di un combattimento o di una caccia. Un animale attiva il proprio sistema di ricerca per tendere un agguato ad una preda e scatena tutta la propria aggressività nel momento dell’attacco e fino alla cattura della vittima. Usa il sistema della collera per poco tempo, non coltiva astio o rancore, non elabora modi sofisticati per vendicarsi di un nemico. La collera di un “dio semplice” si placa con il sangue dell’agnello e, così come l’irritazione, finisce non appena scompare lo stimolo doloroso. Quella di un “dio più evoluto” può durare anni, può andare alla ricerca di stimoli avversi che la alimentino e può dare energia ad altri sistemi così che sia possibile fare cose come vendicarsi a freddo, fondare un partito che diffonda l’odio, progettare una guerra.

Anche nella mitologia greca i vecchi dèi erano simili a forze primigenie: Chaos (la Voragine da cui iniziano le cose), Gea e Urano (il Cielo e la Terra), Ponto (il Mare Fluttuante) e, poi, i Titani, Amore e Discordia… forze con cui è difficile negoziare, con cui non si può dialogare e a cui si possono sacrificare semplici cose sperando che la loro collera si plachi. I nuovi dèi erano altrettanto terribili ma più complessi e più accessibili, più rappresentabili in forma umana. Afrodite e Zeus potevano innamorarsi degli uomini, prendersela con loro, proteggerli o perseguitarli, il ché, uscendo ancora dalla metafora, significa che più un’emozione grezza diventa rappresentabile più si può venire a patti con essa; più possiamo pensare a ciò che stiamo provando più possiamo, nel bene e nel male, modularne l’intensità. E, visto che l’evoluzione non torna indietro e che, tolti alcuni pietosi casi, gran parte degli esseri umani è più sofisticata e pensante degli altri animali, questa rappresentabilità sembra essere un bene. Ci permette di contenere le emozioni e di porci domande intelligenti. Quesiti come: ha senso che mi arrabbi? Davvero voglio continuare ad avercela con questa persona? Come mai non ho ancora smesso di pensare a quell’offesa? Chi o cosa divento se continuo ad odiare e quanto l’odio mi lega al nemico più di altri sentimenti? Chi sta provando questa collera?

Negli animali le emozioni sono coerenti: durano il tempo necessario alla loro funzione e per una bestia non ha senso restare arrabbiata oltre il momento della lotta fisica, provare paura dopo aver raggiunto la tana, cercare incessantemente anche oltre la sazietà.

Per gli umani, invece, resta valida la frase di Nietzsche: “Poveretto l’uomo che non è il giardiniere ma solo il suolo delle piante che crescono in lui”! (Nietzsche adorava i punti esclamativi).

American Gods, Media

Storytelling: la terra di mezzo

La vita è ciò che facciamo di essa.
I viaggi sono i viaggiatori.
Ciò che vediamo non è ciò che vediamo
ma ciò che siamo”
F.Pessoa

L’idea che la mente non sia che il prodotto dell’attività del cervello è un osso duro da masticare.

E’ formalmente vera: per tanto che si cerchi non si riuscirà a trovare-misurare-riprodurre una “mente disincarnata”, un software senza hardware, qualcosa che prescinda da un substrato fisico. Ad oggi non si è riusciti e le disquisizioni su anima e spirito rimangono questione di fede o di opinione non certo materia di indagine scientifica.

E’ inutile negare la necessità di un organo per pensare, sentire e percepire ma, quando ci si ferma al corpo, quando si perpetua la distinzione fra il mondo e chi lo abita, si compie il solito sbaglio. Si traccia un confine che serve per spiegare qualcosa ma che, facendolo, oscura l’altra faccia della medaglia. Non mi ci addentro, non sul piano filosofico, almeno (e non qui). Vi rimando, per questo aspetto, ai libri di Antonio Damasio, in particolare a L’errore di Cartesio mentre, con questo post, mi limito a girare intorno alla frase dell’incipit e a ribadire un sintomo di cui anch’io soffro e in cui mi imbatto, più volte al giorno, seguendo i miei pazienti: l’idea di una separazione concreta, la convinzione di un fuori oggettivo e di un Io soggetto che… viene al mondo.

E’ l’idea di un eroe che se ne va in giro in una terra in cui è di passaggio e che può usare a piacimento e che gli deve qualcosa perché è in qualche modo solo una valle da attraversare, solo un viaggio verso. Un mito che esige una lotta e un raggiungimento, un percorso ad ostacoli e una meta al di là, un protagonista con degli antagonisti… Questa storia, insomma, in cui siamo immersi che è un modo di raccontarsela e che porta con sé certi dolori e che, descrivendo così le cose… Continua a leggere

Sul vuoto: “Absolute beginners”

Nel vuoto del vaso sta il senso dell’uso”
Tao Te Ching

Avere un titolo è già un inizio. Aiuta a rompere il tabù del foglio bianco, impedisce quel risucchio che avviene quando ci si appresta ad iniziare e offre qualcosa a cui attenersi, attorno a cui girare senza troppo allontanarsi dalla base.

L’altro ieri un’amica mi ha chiesto di scrivere un post su David Bowie. Ci pensavo da qualche giorno e mi trattenevo perché ho già scorso un po’ di articoli e in alcuni ho letto cose che anch’io avrei detto, in altri ho riconosciuto la solita sperticata lode del mito che mi irrita e nella quale cerco di non cadere anche se, insomma, Bowie mi piaceva molto, la sua morte mi ha colpito e non ci credo tanto che sia morto. O, meglio: ovvio che lo so! Era un alieno ma non era immortale. Eppure, era uno di quelli che non ci pensi che morirà. L’incarnazione di un archetipo: quel puer aeternus che soggiorna in tutti noi e che sembra non invecchiare mai, anche quando il corpo si logora, anche quando sarebbe ora di diventare saggi. Uno che inizia cose qualche giorno prima di andarsene e che mette Lazarus fra i suoi ultimi brani.

Il puer rappresenta una delle spinte più dinamiche della psiche: crea quasi per il gusto di creare, gioca con i propri artefatti e continuamente dà inizio; fin dalla più tenera età mostra una sorta di dono, un talento che… spreca, dandolo a piene mani, elargendolo così come si fa quando si considera che, tanto, la fonte non può esaurirsi.

E’ un principiante (ma non un dilettante) perché adora provare cose non ancora provate o impegnarsi nel compito di fare come se fosse la prima volta. Lo è per natura e lo è perché è come se del suo dono non sapesse che farsene (lo dice, la canzone: I’ve nothing much to offer/there is nothing much to take/I am an absolute beginner/and I am absolutely sane). Continua a leggere

Mandala

“Mentre restaurava i mobili e li disponeva nella stanza,
era se stesso che lentamente ridisegnava,
era se stesso che rimetteva in ordine,
era a se stesso che dava una possibilità”
J.E.Williams

La frase dell’incipit è tratta dal romanzo Stoner.
Il protagonista sta preparando una stanza della nuova casa per farla diventare il proprio studio. Lavora in un luogo che vuole rendere bello e confortevole e… si rende conto!

L’autore, che sembra vivere insieme a Stoner la trasformazione in atto, dice: “Mentre sistemava la stanza, che lentamente cominciava a prendere forma, si rese conto che per molti anni, senza neanche accorgersene, come un segreto di cui vergognarsi, aveva nascosto un’immagine dentro di sé. Un’immagine che sembrava alludere a un luogo, ma che in realtà rappresentava lui. Era dunque se stesso che cercava di definire, via via che sistemava lo studio”.

È un momento di consapevolezza, uno di quegli istanti in cui ci si trova davanti ad uno specchio, ci si accorge di averlo costruito, di riflettercisi dentro e di vedere qualcosa che, prima, sfuggiva.

Il luogo diventa un riflesso dell’identità e in quel momento abitare ed essere coincidono: stare diventa sostare in se stessi, sentirsi e individuarsi.

Può accadere in uno spazio tridimensionale e, in quel caso, è il luogo fisico che ci circonda a diventare l’ambito del nostro esserci. Ma la stessa cosa cosa può accadere con altri oggetti e possiamo sentirci a casa in un quadro, in un libro, in un piatto appena cucinato.

Mettiamo una parte di noi in qualcosa che sta fuori e al quale aggiungiamo… vita.

Troviamo profondamente significative pagine che altri scorrono distrattamente o siamo catturati da immagini che in noi risuonano familiari perché evocano qualcosa che sentiamo nostro ed è come se ci completassero dandoci la possibilità di ri-conoscerci. Continua a leggere

Il tutto e le parti

Non mi fido di chi non ha un lato oscuro”
Iron Man

Nel suo libro Gli dei e gli eroi della Grecia Karoly Kerenyi parla dell’impossibilità di contenere in un’unica descrizione le figure che popolano i miti e i racconti della mitologia. Dice: “Il significato dei racconti era nella figura della divinità stessa; nessun singolo racconto poteva contenere la figura completa in tutti i suoi aspetti. Gli dei vivevano nell’anima dei nostri antenati e non si trasfondevano in alcun racconto interamente. In ogni storia però restava, e resta tuttora vivo, qualcosa di loro che apparteneva all’insieme della loro figura.”

Ogni racconto sugli dei è, insomma, parziale e mette in luce un aspetto tralasciandone molti altri.

Sapere che qualcosa resterà oscuro dà profondità alla narrazione e rinvia ad altre storie e ad altre gesta, trame e relazioni che, si sente, potranno intrecciarsi in momenti diversi o in contesti che renderanno espliciti altri tratti della persona di cui stiamo parlando. Continua a leggere

Sul “Sonno della ragione”

E’ la nostra conoscenza – le cose di cui siamo sicuri –
ciò che fa andare il mondo così male,
ciò che ci impedisce di vedere e di imparare”
Lincoln Steffens

In un acquaforte del 1797 il pittore spagnolo Francisco Goya rappresenta quello che lui stesso definisce il “sonno della ragione”. Nella didascalia sotto all’immagine un’iscrizione recita: ”Il sonno della ragione genera mostri”.

Il sonno della ragione genera mostri. (Goya)

Un’interpretazione semplicistica dell’opera considera la necessità di stare svegli, il dovere di contrastare quei prodotti della mente che, se lasciati liberi, turberebbero sia il sonno che la veglia del “soggetto sognante”.

Ma come si fa? Come potremmo stare sempre all’erta? Cos’è, poi, questa ragione che mai dovrebbe dormire?

Una sorta di postilla, attribuita allo stesso Goya, ci viene in aiuto suggerendo quella che mi sembra una lettura più fertile del messaggio. Dice l’autore: “La fantasia priva della ragione produce impossibili mostri. Unita alla ragione è madre delle arti e origine di meraviglie.”

Questa direzione mi piace di più perché introduce una delle mie passioni: la doppia descrizione. E’ uno degli strumenti del mio lavoro e la “mamma” dell’amplificazione: quel modo di procedere che ha come obiettivo la produzione di meraviglie, l’apertura a nuove interpretazioni e la promozione di un pensiero che dubita e va in cerca di altri punti di vista. Continua a leggere

Un’evocazione

Al quinto piano del Museo di Arte Asiatica di Parigi, dopo enormi stanze, ai piani inferiori, colme di statue, vasellame, quadri religiosi, maschere… ci si imbatte in un’installazione che occupa due sale vuote con il soffitto occupato da decine di “aquiloni”: rappresentazioni di carpe volanti, pesci ben auguranti che, per i giapponesi, rappresentano i bambini, la loro vitalità, la loro capacità di crescere e di superare le difficoltà.

Carpe volanti

Entrando nelle stanze dalle cui finestre si scorgono, fuori, i tetti di Parigi, si ha l’impressione di uno spazio silenzioso e circoscritto. Un luogo occupato da immagini, messe lì ad arte, che comunicano qualcosa di lieve e, al contempo, denso di significati. E, come spesso accade con l’arte orientale che (per noi occidentali, almeno) sembra priva di riferimenti chiari, non si riesce ad intrappolare facilmente in un concetto ciò che l’opera vuole esprimere; diventa difficile compiere quel gesto rassicurante che ci fa dire: “ah, ecco: una crocefissione, una annunciazione, una pietà…”.

Certe immagini rimangono immagini. Non si assoggettano al lavoro costante della mente che definisce, non entrano subito a far parte del conosciuto e rimangono sospese come sogni, come immaginazioni senza parole. Continua a leggere