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Evitamenti

“Porto con me le ferite di tutte le battaglie che non ho combattuto”
Fernando Pessoa

In psicologia clinica con il termine Evitamento si intende un modo di pensare e di comportarsi che non consente alla persona di affrontare una situazione di cui ha paura.

Di per sé il gesto di evitare qualcosa che ci spaventa non è patologico: è del tutto naturale allontanarsi da ciò che si ritiene possa essere doloroso, così come è naturale protendersi verso un oggetto che sembra piacevole. È grazie a questa sorta di saggezza (quasi) istintiva che non ci siamo estinti. Nei momenti di pericolo i nostri antenati si sono lasciati guidare da una parte arcaica del cervello: il tronco encefalico che contiene i nuclei addetti a tre risposte istintive fondamentali, le cosiddette tre F: fight (combatti), flee (scappa), freeze (congelati/fingiti morto).

In genere davanti a un pericolo un animale può scappare-nascondersi o, se vale la pena (se l’oggetto pericoloso può diventare una preda) o se valuta che non riuscirà a fuggire, può attaccare. Se le prime due opzioni falliscono lo stesso animale può  cadere in uno stato simile alla morte, una sorta di svenimento in cui le funzioni vitali sono ridotte al minimo, gli organi interni (il cervello in particolare) corrono meno rischi e… magari il predatore se ne va, magari il pericolo scompare.

Gli esseri umani possono usare le stesse reazioni istintive degli animali. Possono inoltre contare su altri meccanismi più evoluti e tipici di parti del cervello più recenti e complesse. Nella corteccia cerebrale (che si trova spazialmente qualche centimetro sopra al tronco encefalico ma moralmente in un altro universo) il fight può trasformarsi in lavoro e progettualità, in capacità di accettare la sfida è trovare strategie per superare l’ostacolo; il flee diventa un ripiegamento/ri-flessione, una capacità, cioè, di trattenersi e ritirarsi quel tanto che basta per pensare prima di agire; il freeze… beh il freeze sublimato credo sia difficile da descrivere ma penso abbia a che fare con una capacità di mantenere una posizione nello spazio nonostante tutto, come quella  che caratterizza i gesti paradossali e sovrumani messi in atto da Gandhi che digiuna per quaranta giorni o da quelli che riescono a porgere l’altra guancia, ecc.

L’evitamento è un meccanismo di difesa alla cui base, negli strati più profondi e antichi, giacciono sia il flee che il freeze e, più in superficie, sopra alle reazioni primordiali, un intero stile di pensiero che gira intorno all’idea di sicurezza.

La persona evitante crede di poter stare al sicuro: è convinta di essere in grado di schivare il pericolo e considera che non esponendosi non dovrà affrontare stimoli che le mettono ansia. Non sa che più evita uno stimolo ansiogeno più la sua percezione di pericolosità dello stimolo evitato aumenta. L’idea, per esempio, che evitando i luoghi aperti e affollati si possa non soffrire di agorafobia, fa sì che più si sta al chiuso e in un luogo protetto più si diventa sensibili a qualsiasi esposizione. Ci sono pazienti fobici che cominciano a non frequentare luoghi sconosciuti e finiscono con il non uscire di casa. Ne ho conosciuto uno che non esce mai da solo e “preferisce non andare sul balcone”.  

L’evitamento si fonda sul presupposto che esistano luoghi perfettamente sicuri (la tana-casa) e che quelli che non lo sono possano essere bonificati dal pericolo (sterminiamo tutti i lupi, cacciamo gli stranieri, ecc.). Ma è un ragionamento primitivo che non tiene conto della mente. Infatti, mentre per un animale la paura è qualcosa di essenzialmente esterno e il rifugio è “un luogo protetto e distante dal pericolo”, per l’uomo la paura è prima di tutto interna e si manifesta come ansia (previsione e preoccupazione per possibili pericoli). L’essere umano è fisiologicamente poco adatto a predare e a fuggire. Per lui rifugio è principalmente relazione: apertura, alleanza, partecipazione. Anche i gesti apparentemente più difensivi sono, per gli uomini, gesti che presuppongono una condivisione e un’intesa, un accordo e una collaborazione. Costruire una casa o un castello  per proteggersi implica prima di tutto un’alleanza con altri che ci aiutino a farlo.

Purtroppo chi decide di soccombere all’ansia evitando ciò che spaventa è invece certo della soluzione quasi animale che mette in pratica. Non mette mai in dubbio che il chiudersi e il  ritirarsi scongiureranno il pericolo.

Come dice Phillips: “Per il fobico l’oggetto o la situazione che ispirano terrore sono al di là di un atteggiamento scettico: costui agirà come se conoscesse queste cose alla perfezione, per quanto assurda la cosa possa apparire ai suoi occhi o a quelli della gente. Lo scetticismo si riversa invece sugli interpreti del suo comportamento.”

Insomma il fobico si protegge dall’ansia evitando anche chi cerca di convincerlo dell’inutilità della propria difesa. Così facendo contribuisce alla propria nevrosi e la consolida: si allontana da chi prova a portare il discorso su un livello meno primitivo e  ripete: insiste nella propria soluzione.

Eppure, come scrisse il poeta Robert Frost: “la via per uscirne è passarci attraverso” (the only way out is through). Il passaggio, il viaggio attraverso, la decisione di affrontare una terra incognita, sono l’inizio della cura delle fobie e della loro soluzione nevrotica. È una cura che inizia con un gesto che, paradossalmente, sembra un evitamento: il rifiuto di lasciarsi andare all’istinto e alla reazione, la scelta di pensare e di rispondere tenendo conto della complessità. Una cura che è un invito alla riflessione e allo scetticismo nei confronti della prima antica reazione.

Default mode network

Libertà = vedere nella foresta dei vincoli gli alberi delle scelte
Heinz von Foerster

In neurofisiologia con il termine default mode network (DMN) si intende una rete di aree della corteccia e delle aree sottocorticali che viene attivata durante le ore di riposo vigile o di rilassamento. Non è attiva quando dormiamo ma lo diventa non appena terminiamo un compito in cui eravamo impegnati e cominciamo a fantasticare o a “sognare ad occhi aperti” o quando semplicemente ce ne stiamo tranquilli a riflettere sui nostri stati mentali o su quelli di qualcun altro. E’ una parte del cervello-mente che sembra essere alla base dell’autoreferenzialità e molti studiosi del sistema nervoso “ipotizzano che l’elevato metabolismo richiesto da tale circuito neurale faccia sì che si possa essere in contatto e possedere un senso di ciò che sta accadendo internamente ed esternamente” (Neuropsicologia dell’Inconscio).

Se vi facessero una risonanza magnetica funzionale mentre siete in poltrona e guardate il soffitto, un po’ prima che cominciate ad annoiarvi e a mettervi in moto per fare qualcosa, se cogliessero il punto in cui state pensando a come è andata la scorsa settimana, a cosa farete la prossima e a a quanto era meglio quando  eravate in vacanza, se facessero una foto del vostro cervello mentre si uniscono ricordi, emozioni, qualche riflessione, un pizzico di rimuginio con qualche rimpianto e magari un po’ di astio verso qualcuno che amate ma che non vi capisce… ecc. Ecco, avremmo un’istantanea del DMN, tradotto in italiano con Connettività Funzionale Intrinseca che è proprio brutto ma che sta a significare che è grazie a queste connessioni che sono sempre pronte ad accendersi quando non siamo impegnati e che svolgono una funzione specifica e ripetitiva e costante, che noi manteniamo un senso del sé, un’idea di continuità e di familiarità.

Come dire, stando più sul clinico/soggettivo che sullo scientifico/anatomico, che c’è una stanza in cui torniamo quando passiamo dal fare al riflettere e quando la riflessione non è orientata alla risoluzione di un problema esterno ma, piuttosto, ad un rispecchiamento: guardarci e fare il punto per intuire dove siamo, dare un’occhiata all’orizzonte, valutare a spanne come stiamo e cosa emerge di irrisolto, aperto, conflittuale, da aggiustare.

Una stanza che è una sorta di pensatoio in cui c’è spazio per la ruminazione e in cui, purtroppo, capita di farsi del male: tornare a riaprire le stesse ferite, coltivare specifiche ossessioni che sembrano fatte apposta per catturare l’attenzione e per attivare emozioni che affliggono, spaventano, rinforzano il senso di impotenza. Un posto perfetto per la Coazione a Ripetere con i soliti pensieri che diventano masturbazioni interminabili senza una risoluzione, uno sbocco, uno sfogo.

Pare che ci sia un prezzo da pagare per il “senso di sé”. Sembra che, come aveva già intuito Freud, l’io sia una specie di spazio ristretto tra coscienza e inconscio, tra pulsioni-istinti e regole del mondo ed è evidente che il nostro sforzo per proiettarci nel futuro e per non perdere la nostra identità non sia indolore: costa fatica e continuamente si scontra con una serie di vincoli. Molti di questi non sono “esterni”. Ce li portiamo dentro e compaiono quando il pensiero per un po’ indugia, quando non siamo distratti dal vivere ed entriamo in modalità “adesso penso a me e alla mia vita”.

Arrivano dalle regioni sottostanti a quelle adibite alla soluzione di problemi. Crediamo di starcene in una stanza linda e conosciuta, una sorta di laboratorio in cui dovremmo poter impostare le equazioni che risolveranno i problemi che ci separano da una vita perfetta e, invece, questo spazio interno è… tutt’altro.

La stanza ha pareti e soffitto e pavimento  permeabili. Come potrebbero non entrare le emozioni e i desideri non esauditi? Come pensare che ciò che è irrisolto non si ripresenti e non insista? Perchè i fantasmi non dovrebbero essere attirati dal loro pasto preferito: il pensiero ricorsivo, ruminante, maniaco?

“Le ruminazioni autoreferenziali e il modo in cui gli eventi emotivi e interpersonali vengono giudicati e interpretati potrebbero essere elementi chiave per capire come molte false interpretazioni e convinzioni siano correlate a stati emotivamente disregolati”. (Lo so anche emotivamente disregolati non si può sentire ma il tentativo di trovare parole che rendano bene l’idea di “cosa succede” e il bisogno di avere termini poco ambigui e condivisibili riflette lo sforzo immane di mettere ordine nella stanza).

Ci sono delle emozioni irrisolte, cose che ci affliggono e da cui non riusciamo a liberarci, stati che vorremmo fossero diversi e che avvertiamo come dei disagi, dei sintomi, dei pesi da cui ci vorremmo alleggerire; cominciamo a pensare e, come spettri, si presentano e il pensiero diventa rimuginio, lo sforzo di farsi largo tra i vincoli diventa, spesso, un ulteriore invischiamento. Avete tutti chiari esempi di come succede e di come, dopo un po’, venga voglia di smettere di pensare e mettersi a fare altro e di quanto, a volte, non sia facile staccare la testa e capiti di restare intrappolati nelle rete di pensieri e affetti dolorosi.

Diventa difficile vedere nella foresta dei vincoli gli alberi delle scelte.

Ma non è impossibile. Sono stati “inventati” molti modi per non entrare nella stanza, per evitare di guardare in certi punti o per imbonire i fantasmi. Molte di queste soluzioni (alcool, droghe, iperattività, farmaci psicotropi) funzionano (in parte) ma portano con sé una quantità di effetti collaterali. Altri metodi puntano sulla capacità di abitare la stanza in un modo diverso e affinare lo sguardo così da diventare più bravi a non cadere nella trappola dei vincoli. Si può diventare abili osservatori e si può fare un lavoro diverso sulla considerazione di sé.

Nei prossimi post parlerò di questi metodi e di altre cose che ogni studentello dovrebbe sapere.

Intanto, una poesia di Wislawa Szymborska:

Lode della cattiva considerazione di sé

La poiana non ha nulla da rimproverarsi.
Gli scrupoli sono estranei alla pantera nera.
I piranha non dubitano della bontà delle proprie azioni.
Il serpente a sonagli si accetta senza riserve.
Uno sciacallo autocritico non esiste.
La locusta, l’alligatore, la trichina e il tafano vivono come vivono e ne sono contenti.
Non c’è nulla di più animale della coscienza pulita, sul terzo pianeta del sole.

‘Interno #10’ di Matteo Massagrande

Sistemi emotivi: un incipit

“Se l’unico strumento che hai in
mano è un martello, ogni cosa
inizierà a sembrarti un chiodo”
A.Maslow

Sto leggendo “Neuropsicologia dell’inconscio” un libro che non consiglierei ai non addetti ai lavori ma che trovo illuminante. L’approccio teorico che permea l’intero libro fa capolino nelle prime due frasi della quarta di copertina: “Per effetto dei costanti progressi nell’ambito della clinica e della ricerca scientifica, il costrutto teorico di inconscio sta subendo oggi una riformulazione e, indubbiamente, una trasformazione. I processi inconsci non sono più ritenuti espressione della mente soltanto, bensì di mente, cervello e corpo.”

L’inconscio è, prima di tutto, un costrutto teorico: una terra incognita che, proprio perché tale, si è prestata ad ogni tipo di interpretazione, di ipotesi e di proiezione. Molti di coloro che lo hanno studiato o che si sono ingegnati a porre rimedio ai sintomi che da esso derivano, hanno perpetrato l’errore di Cartesio: hanno cioè continuato a distinguere fra corpo e mente mettendo così sullo sfondo la natura incarnata della mente e la nostra  “tendenza naturale” ad agire, a mettere in atto risposte al mondo che ci circonda.

Per gli animali e per l’uomo rispondere è, innanzitutto, agire. Molto prima di essere creature riflessive siamo stati e siamo “attori che inter-agiscono”: esseri emotivi che sentono il mondo e reagiscono in base a ciò che sentono. La riflessione arriva dopo. E’ arrivata-dopo a livello evolutivo perché i nostri antenati erano molto più simili/vicini agli animali di quanto lo siamo noi oggi e arriva-dopo nelle circostanze di tutti i giorni, tutte quelle volte in cui… troppo tardi, ormai l’ho fatto.

Ci sono almeno due cervelli-mente: uno veloce ed emotivo che non perde tempo e agisce e uno che valuta più lentamente prendendo in considerazione un contesto più ampio, decidendo a volte di trattenersi o posticipando o spiegando l’azione che compie.

“… al cuore dell’emozione e dei processi cognitivi c’è l’attribuzione di un significato all’ambiente”: cammino su un sentiero in montagna e vedo qualcosa di allungato e contorto poco più in là, per terra; qualcosa in me si spaventa, mi immobilizzo come davanti a un serpente, il cuore si mette a battere velocemente e l’adrenalina attiva i muscoli, mi immobilizzo ma sono anche pronto a fuggire; mi accorgo poi che è una corda, avrei dovuto capirlo subito, non ci sono serpenti blu e verdi e così sottili, non su queste montagne, perlomeno.

Ho “agito” in base a un’emozione, immobilizzandomi, e poi ho “deciso di non dare seguito all’azione” riflettendo. Due cervelli diversi hanno attribuito significati diversi al mondo. Il primo ha reagito nel modo in cui funzionano le parti più primitive che rispondono in modo veloce e sporco (quick and dirty), il secondo ha guardato meglio collegando anche una quantità di altre conoscenze e estraendo un significato più articolato.

Entrambi i sistemi funzionano e il primo lo fa prima e a prescindere dalla coscienza.

Questo agire d’impulso ha sicuramente salvato molte vite ma, in seduta, arrivano quelli che, per sfuggire alla corda scambiandola per una biscia, sono finiti nel burrone o hanno rischiato un infarto.  

Scappare o immobilizzarsi di fronte a un serpente è una reazione sana ma farlo davanti a una corda o, peggio, vedere corde dappertutto, è un sintomo: il risultato di una difesa rigida che agisce anche quando non dovrebbe, in automatico.  

Un automatismo è una risposta che non sa di essere una delle tante risposte possibili. Siccome agisce “sotto e prima della coscienza”, non è facilmente raggiungibile: ci diciamo che la prossima volta agiremo in modo diverso ma, appena immersi in certi contesti, ci limitiamo a ripetere la solita risposta; a volte costruiamo complicati sistemi di pensiero che spiegano come mai agiamo così è perché non possiamo cambiare e queste visioni del mondo (a volte dei veri e propri deliri) non fanno che perpetrare l’automatismo. Certe regioni del cervello non vengono nemmeno sfiorate dal pensiero riflessivo, certi gesti e certe posture appaiono nel corpo emergendo da luoghi a cui la coscienza non ha accesso, ci ritroviamo con in mano il solito martello anche se servirebbero una forchetta, un pennello o  un violino.

Per fortuna tutti questi gesti sono accompagnati da un’emozione e l’emozione è la chiave: è partendo da ciò che sentiamo che possiamo tentare un accesso… a ciò che sta sotto. Cosa provo quando impugno il martello? Qual è l’emozione che mi pervade poco prima e durante l’azione? In quali altri contesti l’ho provata e cosa succede se comincio a guardarla e, invece di agire, sto fermo e osservo?

Quello che la ricerca neuropsicologica ha scoperto è che ci sono almeno 7 sistemi emotivi che regolano i principali aspetti della nostra vita modulando percezioni, espressioni e comportamenti relativi alla Ricerca, alla Rabbia, alla Paura, alla Sessualità, alla Cura, alla Tristezza e al Gioco.

Ci sono degli  accessi a questi sistemi e si può fare molto per intervenire anche su quelle parti che sembrano così consolidate da non permettere nessun cambiamento, nessuna possibilità di “insegnare un nuovo gioco a un vecchio cane”.

Ne parlerò nei prossimi post perché l’argomento mi entusiasma e perché continuo a credere che ci sono cose che ogni scolaretto dovrebbe sapere è perché … ci sono troppi martelli in giro.

Pink Floyd_The wall

Coazione a ripetere: la speranza e gli oggetti

“Forse tutti i nostri pezzi mancanti e le nostre sfortune sono in realtà delle
benedizioni che fanno di noi quelle persone particolari che siamo”
James Hillman

Anni fa un paziente che seguivo e che aveva alle spalle una lunga storia di tossicodipendenza mi disse che il motivo per cui per tanto tempo era andato avanti ad usare droghe e a rovinarsi la vita era che aveva sempre cercato “l’incredibile piacere che ho provato una delle prime volte che mi sono fatto”.

La sua ricerca di quel singolo momento di estasi gli era costata un’incredibile serie di sofferenze e di stenti finché, al fondo della spirale, si era accorto che la speranza era vana: non avrebbe mai più trovato il soggetto che aveva vissuto il momento e non sarebbe più stato (parole sue) l’oggetto di tanta grazia!

Ho incontrato la stessa brama e la stessa cocciutaggine in tanti pazienti e con loro mi sono ritrovato a fare il lavoro opposto di quello che si fa con chi soffre di depressione. Mentre con questi si cerca di riaccendere la speranza e di trovare qualcosa che possa attivare il desiderio, con gli altri il compito diventa quello di spegnere la speranza e togliere dall’orizzonte l’oggetto: ciò che disperatamente (nel senso di “con fin troppa speranza”) il soggetto va cercando.

E’ una sorta di lavoro contro natura perché la speranza è figlia dell’amor proprio e non è facile convincere la pancia di chi ha fame e la mente di chi cerca qualcosa che sa/crede che possa davvero cambiare la sua vita e riempire il buco una volta per tutte.

Ed è un lavoro sul confine tra Eros e Thanatos perché è difficile in questi casi distinguere la spinta verso la vita dal desiderio di estinzione: non è facile convincere chi in un gesto, in una sostanza o in una relazione cerca il piacere e la soddisfazione di un bisogno profondo, che lì, in quell’oggetto, c’è… un vuoto che ribadisce l’insoddisfazione e l’impossibilità della pienezza.

Ed è un confine così interessante: un posto in cui l’intensità rende piacevoli cose dolorose e attraenti certi stati da cui bisognerebbe scappare e che, invece, vengono ripetuti con un godimento che è… così vicino alla sofferenza. Continua a leggere

Intolleranza

Sono un uomo: nulla di ciò che
è umano mi è estraneo, io dico”
Terenzio

La frase dell’incipit, scritta nel primo secolo avanti Cristo, è tratta dalla commedia intitolata Heautontimorùmenos: il punitore di se stesso. E’ pronunciata da un certo Creméte, vicino di casa del protagonista Menedmo. Quest’ultimo ha deciso di punirsi per una cattiva azione che ha commesso e il primo pronuncia la frase per spiegargli la solidarietà con cui lo ascolta nonostante lo conosca da poco. Nel corso dei secoli spesso è stata usata, più o meno a sproposito, come esempio di quanto un essere umano possa, se solo si sforza un po’, mettersi nei panni di un suo simile.

Se niente di ciò che è umano mi è estraneo potrò capire comportamenti, giustificare azioni, comprendere punti di vista e scelte. Sarò in grado di tollerare prese di posizione diverse dalle mie ma che comunque, in quanto essere umano, conosco o posso immaginare.

E’ da quest’ottica che deriva il concetto di Humanitas: l’antica virtù che presuppone una concezione etica basata sull’idea che gli esseri umani possano avere gli uni nei confronti degli altri un atteggiamento benevolo che prescinda dalle distinzioni etniche, sessuali, sociali.

Con fraternità si intende, laicamente, non il fatto che siamo tutti figli dello stesso padre, quanto che, siccome siamo tutti umani, nessuno può chiamarsi fuori, nessuno può ergersi a giudice di altri visto che, nella sostanza, non è così diverso e nei fatti non può dirsi estraneo.

Non è facile, tuttavia, sentirsi simili al tizio che qualche giorno fa ad Orlando ha ammazzato 49 persone. Si fa fatica a immaginare che lui abbia fatto lo sforzo di comprendere le sue vittime e viene voglia di condannarlo e basta: è come se lui stesso si fosse già reso estraneo e viene spontaneo mettersi con (quasi) tutti gli altri esseri umani e giudicarlo un folle o un irrecuperabile fanatico. Continua a leggere

Sul cambiamento: la gabbia del diavolo

Prima di cercare la guarigione di qualcuno,
chiedigli se è disposto a rinunciare alle
cose che lo hanno fatto ammalare”
Ippocrate

Forse ricorderete la storiella del demonio che passeggia per la via con un amico; a un certo punto, davanti a loro, un uomo si china a raccogliere qualcosa per terra, lo guarda e se lo mette in tasca. L’amico chiede al demonio: ‘Che cosa può aver raccolto quell’uomo?’ ‘Ha trovato un pezzo di verità’, risponde il demonio. ‘Ah, è un brutto affare per te, allora!’ osserva l’amico. ‘Oh, niente affatto-replica il demonio- adesso farò in modo che la organizzi.”

Questa storiella fu raccontata dal 34enne Jiddu Krishnamurti di fronte ad una platea di 3000 seguaci dell’Ordine della Stella d’Oriente che, nel 1929, si erano radunati per ascoltare il discorso che egli, in quanto capo dell’ordine, averebbe dovuto tenere. Krishnamurti era stato scelto da uno dei massimi esponenti della Società Teosofica ed era considerato una sorta di illuminato che avrebbe dovuto condurre l’Ordine e preparare la venuta di un “maestro del mondo” e guidare il movimento verso una nuova era. Invece, dopo aver raccontato del demonio e dell’amico e dell’uomo con in tasca la verità, sciolse l’Ordine della Stella d’Oriente e, pur continuando ad insegnare e ad esprimere il proprio pensiero fino all’età di 90 anni, non fece mai più parte di organizzazioni né si sognò mai di fondarne una.

Sembra che l’idea che la verità renda liberi e che il conoscere possa alleviare il dolore e produrre cambiamenti che facilitano la vita debba sempre fare i conti con il diavolo e con la tendenza dell’uomo a riportare la scoperta dentro ad un sistema conosciuto, ad organizzarla, appunto.

E’ come una resistenza: qualcosa viene intuito, si intravede l’eventualità di un punto di vista diverso che apre la strada ad altri modi possibili di pensare, sentire, comportarsi e… qualcosa spinge contro. Continua a leggere

La ricerca dell’infelicità

Coltello e piaga, schiaffo e guancia, membra
e ruota sono, vittima e carnefice;
sono il vampiro del mio cuore, un grande
infelice, di quelli a un riso eterno
dannati, e che non possono più sorridere”
Charles Baudelaire

Nell’incipit l’ultima strofa dell’Héautontimoruménos (il punitore di se stesso) una poesia di Baudelaire del 1857 in cui il poeta, ben prima della psicoanalisi, descrive a suo modo la coazione a ripetere, quell’agire paradossale che ci costringe a persistere in comportamenti che invece di alleviare il dolore lo aumentano e che sembrano favorire più la spinta verso la morte che la tensione alla vita.

Freud era appena nato e passarono sessant’anni prima che teorizzasse in “Al di là del principio di piacere” l’esistenza di una pulsione di morte: qualcosa di oscuro, presente nelle viscere dell’inconscio che, inspiegabilmente, opera per fare quello che Baudelaire mette in luce così bene nella sua poesia.

Il contrasto fra riso e sorriso degli ultimi due versi rende l’idea della differenza fra questa sorta di devozione al dolore e quella che dovrebbe essere la naturale tensione verso un’esistenza serena in cui le piaghe andrebbero sanate più che inferte e le membra rilassate invece che sottoposte a tortura.

Eppure Baudelaire ci piace e anche il terapeuta dopo un primo “quest’uomo non stava bene; mi sa che Charles doveva cambiare spacciatore” riconosce la profondità dell’opera e la lucidità che lo sguardo portato all’estremo dona a chi scrive di sé sapendo di parlare per tutti.

Ha visto bene e non indulge, non se la racconta: vede quanta sofferenza siamo in grado di infliggerci e con quanta raffinatezza siamo capaci di farlo e con che determinazione. Continua a leggere

La forza e la grazia

Se gli uomini tenessero in conto
più la casa che l’oro,
il mondo sarebbe un posto migliore”
Thorin Scudodiquercia

L’autore della frase dell’incipit è un personaggio di fantasia, uno dei protagonisti del libro di J.R.R.Tolkien “Lo Hobbit”. L’ho scelta perché questo post parla di immaginazione e di metafore e perché ha la pretesa di commentare dei duri fatti usando una modalità che con i fatti e con la realtà ha apparentemente poco a che fare. Sono uno psicoterapeuta e tanti dei problemi che i miei pazienti portano in seduta sono, a confronto di eventi sconvolgenti come quelli accaduti in Francia in questi giorni, cosette, dolori effimeri che, nella battaglia, nel momento in cui la vita è davvero a repentaglio, spariscono, evaporano nello sfondo drammatico del pericolo e della fine incombente.

Ho, insomma, a che fare con pene che sembrano immaginate e con sintomi sfuggenti che possiamo permetterci: sofferenze che nel Triangolo di Maslow (quello che mette i bisogni primari alla base e quelli più “sottili” nel vertice alto) stanno tutte in cima… qualche abbandono, sì, alcuni disturbi gravi, sintomi come il panico o la depressione che non sono fardelli facili da portare ma niente fame né indigenza né, tanto meno, proiettili, torture, schiavitù.

Cose da occidentali! Come può esserlo una vignetta che dovrebbe causare il dolore che causa una presa per il culo: una piccola ferita all’ego… “come ti permetti, stronzo… lascia stare i miei parenti, la mia squadra di calcio, il partito, il mio credo, dio…”. O più dolorosi, forse, perché una sindrome, una nevrosi, un’ossessione, è qualcosa di complesso che intrappola calamitando l’attenzione e costringendola come possono farlo un mal di denti o un’emicrania. Continua a leggere

Titani: un commento

Se un’idea è più moderna di un’altra è segno
che non sono immortali né l’una né l’altra”
Carlo Emilio Gadda

Enrico Marani, @SamoraSOUND ha scritto un interessante post su “Titani e Titanismo” e, in un tweet successivo, si è detto alla ricerca di uno “junghiano” che lo commentasse.

Ho messo tra virgolette il termine junghiano perché, fedele alla massima di Jung che disse che non conosceva altri junghiani al di fuori di se stesso, mi astengo dal definirmi tale e perché non so se il mio commento sarà in qualche modo sintonico con ciò che Jung avrebbe detto se le domande che vengono poste nell’articolo gli fossero state rivolte.

Certo ne seguirà, in piccolo, il metodo: l’amplificazione. Girerò un po’ attorno all’idea e all’immagine del Titano e, partendo dalla descrizione di Enrico, che vede questa figura in termini più politici che psicologici, mi sposterò sul mio piano (altrettanto inclinato) che, invece, si concentra sulla soggettività, sulle sindromi e sulle resistenze e sintomi che ai “Titani” si accompagnano.

Si chiede Enrico: “Dove si nasconde ora la ribellione dei Titani contro tutte le forze superiori (divinità, destino, natura, potere dispotico ecc.) che dominano e opprimono gli slanci vitali e la libertà stessa? Nella postmoderna erosione di senso, in un capitalismo ridotto a monarchia di banche centrali e oligopolio di multinazionali, nel comunismo Cinese o nel dispotico postcomunismo Putiniano c’è ancora posto per i Titani? Dov’è la loro ribellione che frantuma muri, sradica eserciti e blocca miniere? Dov’è quel combustibile per combattere ed inveire contro il cielo e gli elementi?[…] Dove pulsa l’urlo di un’epoca nuova che incanali la furia dei Titani nell’alveo di un nuovo orizzonte?” Continua a leggere

Storytelling: suffer vs endure

“Non  importa quello che hanno fatto di noi,
importa quello che  facciamo con quello che gli altri
hanno fatto di noi”
J.P. Sartre.

Gli accenni che, in questo post, farò alla psicoterapia sono solo pretesti: un espediente per parlare della vita quotidiana e della costruzione di realtà che, più o meno consapevolmente, sempre facciamo.

Sono convinto che, come diceva Hillman, la psiche è il giardino in cui ci troviamo, non solo “dentro la testa” ma dappertutto. Ci sono giardinieri? Le cose crescono spontaneamente? Quanto di ciò che “vediamo” è natura e quanto è cultura, lavoro dell’uomo? Che strumenti vengono usati per coltivare tutto questo?

J. S. Grotstein, uno psicoanalista, parlando di come, secondo Bion, bisognerebbe rapportarsi con una persona in cura, dice: “Il paziente deve essere contenuto analiticamente ed essere così in grado di patire (suffer) e non di sopportare con determinazione (endure), ma ciecamente, la sofferenza delle esperienze emozionali.”
E’, questo, un principio chiave non solo della psicoanalisi ma di ogni psicoterapia: è una delle chiavi di volta di ogni trattamento che miri a recuperare l’umanità e a diminuire il cieco ripetersi dei meccanismi di difesa, il mero rispondere colpo su colpo di cui, spesso, è fatta una nevrosi.

Endure

E’ anche uno dei motivi per cui fare della terapia è, spesso, “una faticaccia” e, fortunatamente, la ragione per cui vale la pena farla. Continua a leggere