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Confini dell’Io

“Se sei triste quando sei da solo probabilmente sei in cattiva compagnia”
J.P.Sartre

C’è un passaggio di Infinite Jest  che racconta di un vecchio allenatore che passeggia con un ragazzo nei campi dell’Accademia del Tennis. Il primo sta in parte rispondendo ad una domanda del secondo e in parte riflettendo tra sé e sé sull’agonismo e sul gioco del tennis come metafora. Dice: “Il vero avversario, la frontiera che include, è il giocatore stesso. C’è sempre e solo l’io là fuori, sul campo, da incontrare, combattere, costringere a venire a patti. Il ragazzo dall’altro lato della rete: lui non è il nemico: è piú il partner nella danza. Lui è il pretesto o l’occasione per incontrare l’io. E tu sei la sua occasione”.

Tanti dei racconti di lotta che mi capita di sentire mentre ascolto i miei pazienti sono solo in apparenza partite contro l’altro o contro un qualche tipo di ostacolo esterno. Certo c’è sempre un antagonista: un capo tiranno sul lavoro; un possibile partner perfetto che non la vuole capire di tirare fuori le caratteristiche che, finalmente, soddisferebbero i desideri del soggetto; un alleato che ha tradito; una scalata in cui gli appigli scompaiono; un deserto in cui non si fanno incontri significativi; selve più o meno oscure.

In terapia l’oggettività di ognuno di questi ostacoli viene messa in discussione. Non per negarne l’esistenza ma per distinguere: per togliere all’oggetto un po’ del suo potere e per mettere in evidenza il soggetto, l’Io. Poi, siccome l’oggetto di studio della Psicoterapia è proprio (e necessariamente) l’Io, anche questo va messo in discussione. Diceva Bateson che il primo atto epistemologico (il primo “gesto” che permette di indagare qualcosa per conoscerlo) è la creazione di una differenza. Differenziando posso cominciare a distinguere e a separare, posso catalogare, creare degli insiemi, combinare elementi, distribuirli, ecc.

In seduta questo gesto quasi violento che permette di fare a pezzi l’oggetto di studio viene compiuto seguendo l’invito di Freud che in Introduzione alla Psicoanalisi diceva: “Nostro desiderio è fare oggetto di indagine l’Io, il nostro Io più intimo; ma è possibile? L’Io è il soggetto per eccellenza, come può diventare oggetto? Ora, non vi è alcun dubbio che questo è possibile: l’io può prendere come oggetto sé medesimo, trattarsi come altri oggetti, osservarsi, criticarsi e fare di se stesso Dio sa quante altre cose ancora…”

Inizia così, con questa scissione tra una parte che osserva e una che viene osservata, quello che in una sfida agonistica avviene stabilendo che dall’altra parte c’è un avversario. Invece di scendere in campo per sfidarci potremmo stare seduti e bere qualcosa mentre chiacchieriamo amabilmente, potremmo semplicemente confermare ciò che siamo così come si fa quando si scambiano dei convenevoli: “Tutto bene? E la famiglia? Tutto a posto, e tu?”

E invece, invece si decide di giocare e mettendosi in gioco si evidenziano dei limiti, si comprendono dei punti di forza, si scoprono delle debolezze. Su di sé e sull’avversario, sull’avversario e su quel soggetto intermedio che è “un po’ l’altro e un po’ me”. Nel gioco si alternano gli sforzi per essere una forza irresistibile o un oggetto inamovibile, una da una parte e l’altro dall’altra. Succede ai cuccioli che lottano, ai lottatori che si sfidano e, con gradi progressivi di serietà e di rischio, ai contendenti e ai nemici.

Se si chiede a un giocatore “chi o cosa c’è dall’altra parte?” la risposta naturale sarà: “l’altro, la persona o la cosa con cui mi sto misurando”.  È ovvio che sia così perché la scissione/separazione è ciò che rende possibile il gioco.

In terapia le cose sono un po’ diverse perché appena ci si astrae e si pensa al gioco, appena ci si tira fuori dal conflitto e, smettendo di essere una delle parti, si dà inizio alla riflessione, la risposta diventa più complessa. Le due parti, il soggetto e l’oggetto si confondono e diventa evidente che la sfida è, innanzitutto, con se stessi.

Possiamo osservare l’Io su un continuum che va dal sonno profondo a uno stato di massima allerta. Sono gradi diversi di attenzione e di consapevolezza e ad entrambi gli estremi l’Io scompare: nel sonno profondo non c’è nessun osservatore e negli stati di lucida attenzione, quelli in cui ci si perde nel flusso dell’azione e della percezione, non c’è distanza tra sé e l’oggetto. Tra questi due confini incontriamo cose e persone che vengono percepite diversamente, a seconda della qualità della nostra attenzione.

Pensateci: vicino al sonno profondo si incontrano oggetti e personaggi che popolano i sogni, figure di mezzo con forme mutevoli, che possono continuamente trasformarsi; man mano che ci si sveglia e si esce dal torpore, compaiono le persone, gli altri in carne ed ossa con il loro  determinismo e con cui è necessario relazionarsi: è il luogo in cui l’attenzione segue le regole dell’affinità (vicinanza/distanza, protendersi/ritirarsi), della comunicazione (aperto/chiuso, esprimersi/celarsi), della realtà  (condivisione/separazione, accordarsi/dissentire) e così via fino all’altro estremo in cui l’Io scompare in una trance agonistica, in un’estasi amorosa o in un momento di intensa creatività.

Il motivo per cui è piacevole andare verso i bordi di questo continuum è perché lì l’io tende a scomparire e, spesso, è un sollievo essere nessuno!

Nel mezzo c’è la valle dell’Io che è il luogo in cui i giochi possono svolgersi e in cui si sperimentano emozioni e modi di essere. È anche il posto in cui ci si può annoiare: meno c’è gioco più aumenta la noia, più il gioco diventa interessante più si sente che l’io può essere in qualche modo trasceso. Nel sonno profondo e nella sfida più intensa anche la noia e il gioco stesso tendono a scomparire. E l’Io con loro.

Si può riflettere sulla propria posizione con la vecchia domanda psicologica: “Dove sono?”.
Quanto sto dormendo? Quanto sono sveglio? Quanto sono vicino ai bordi?

Immagine tratta dal Libro Rosso di C.G. Jung (particolare)

L’ego e l’arte del Monopoly

“Se si insegnasse la bellezza alla gente,
la si fornirebbe di un’arma
contro la rassegnazione, la paura e l’omertà”
Peppino Impastato

E invece della bellezza una delle cose che viene più insegnata è l’arte di giocare a Monopoly: quel misto di aggressività, avidità e furbizia che serve a prevalere, ad accumulare e a confrontarsi con gli altri su un piano che contempla solo la logica del più forte, del più bravo ad approfittare della situazione e a ricavarne di più.

Non mi riferisco al gioco da tavolo. In quello almeno si parte tutti con le stesse risorse, il lancio dei dadi garantisce una certa dose di incertezza e, quando si inizia a giocare, si sa che… “questo è un gioco”.

Ciò di cui parlo è una modalità di relazione che accentua la distanza e che appiattisce il rapporto con l’altro, favorendo solo tre posizioni: sopra, contro, sotto.

Sono gli unici tre modi di relazionarsi che l’ego conosca: “sto sopra e domino; combatto per vincere o per non soccombere; sono sotto e provo invidia/gelosia”. Nessuno spazio per la collaborazione a meno che non implichi un’alleanza in una delle tre posizioni: stiamo insieme per dominare, per combattere, per rivendicare.

Questo fa l’ego perché questo viene insegnato, principalmente. Freud parlando dell’Io lo definiva un servo al servizio di due padroni: c’è l’Es la parte istintuale che ordina fai ciò che ti piace, e il Super-Io che insiste su fai la cosa giusta, e c’è questa sorta di arlecchino che si barcamena, che fa aspettare un po’ l’uno e un po’ l’altro e che, se chiede consiglio su come cavarsela fra Scilla e Cariddi, viene istruito prima di tutto sulla legge della giungla così che, come disse Dryden: “Il prete continua ciò che iniziò la balia, e in tal modo il bambino inganna l’uomo”.

Ci vengono, insomma, insegnate queste tre posizioni fondamentali e siccome queste conosciamo, andiamo avanti in automatico in un gioco che, essendo il gioco più giocato, lascia poco spazio a tutto il resto.

E’ così che l’Io si riduce ad una sorta di ingranaggio talmente preso dal compito da dimenticare la bellezza!

La maggioranza dei sintomi con cui chi svolge il mio lavoro si trova ad avere a che fare in fondo ripetono: “sono brutto, non mi sto piacendo, non trovo più il bello nella mia vita”. La depressione, il panico, l’ansia e l’ossessione sono, in questo senso, ricerche: tentativi storti, convulsi, insistenti, maldestri e a volte disperati di ritrovare un’armonia, uno spazio  libero dal sopra-contro-sotto.

Mi capita di incontrare pazienti che si descrivono come una macchina. Parlano di quanto bene stanno svolgendo il loro lavoro, degli impegni a cui fanno fronte e dei meriti che sentono più o meno riconosciuti e, poi, descrivono un sintomo: qualcosa che inspiegabilmente non va, una sorta di: “vedi, ho fatto per bene questo e quest’altro, lancio i dadi, passo dal via, ho comprato cose che dovevano garantire l’arrivo di altre cose, ho fatto del mio meglio per non stare sotto o per innalzarmi al di sopra e… non sto bene.” Spesso con loro cito una frase di Jung che dice che gli Dei sono diventati sintomi. Serve ad invitarli a riflettere sulla macchina e a cercare dentro al sintomo, per trovare una Forma Vitale, qualcosa che spinge per manifestarsi e che NON È uno sforzo per prevalere. Infatti il sintomo è un invito al pensiero e all’amplificazione: un’esortazione a smettere di ripetere e a fermarsi per scovare nella sofferenza una risposta. Il “dio” di cui parla Jung è qualcosa che va oltre al contingente, qualcosa che riguarda la profondità dell’individuo e che rimanda ad altro offrendo una via di uscita che passa per uno stile di pensiero, un’estetica diversa.    

Sotto agli ingranaggi e, a volte, direttamente dentro al sintomo, ci si imbatte in una pulsione che non lavora per il dominio ma per la risonanza: qualcosa che punta alla condivisione, all’affinità, alla sintonia.

Il problema non è la supremazia. Siamo animali sociali e sempre sentiremo una spinta per la visibilità, per il posto migliore, per la razione più succulenta. Il problema è l’ipertrofia dell’ego che oscura la consapevolezza del gioco. Prendiamo così sul serio le istruzioni che ci dimentichiamo della libertà di smettere di giocare.

E’ a questo che serve la bellezza: distrae dal compito, impedisce la rassegnazione e rompe con l’omertà. Spesso crea dei sintomi. Le macchine non soffrono e giocano sempre lo stesso gioco!

Pablo Picasso, Paulo vestito da Arlecchino

L’indomabile belva

Scuote l’anima mia Eros,
come vento sul monte
che irrompe entro le querce;
e scioglie le membra e le agita,
dolce amara indomabile belva.”
Saffo

La dolce, amara, indomabile belva in grado di scuotere l’anima e sciogliere le membra ha mobilitato e mobilita una grande quantità di resistenze: difese, perlopiù vane, che tentano di arginare gli influssi del desiderio e di creare una serenità tiepida che riduca gli alti e bassi evitando quelle “pene d’amore” che distraggono da… il lavoro, lo studio, il dovere, i risultati, ecc.

Riflettevo con una collega su quante ore di seduta vengano dedicate ai dolori connessi alla relazione. Pazienti che lamentano amori non corrisposti, abbandoni, tradimenti, storie difficili, idealizzazioni e delusioni. Pasticci in cui Eros ha scagliato le sue frecce senza equità: troppo desiderio da una parte, troppo poco dall’altra; bisogni non soddisfatti, grandi fuochi che si affievoliscono, promesse spese e non mantenute. Tanta sofferenza non direttamente classificabile fra i cosiddetti sintomi psichici o psichiatrici ma, tuttavia, dolore che affligge e che non si può certo liquidare come contingente: qualcosa che passa da solo e di cui è inutile parlare, un sintomo che, siccome non è catalogato fra le patologie del Manuale diagnostico e statistico dei Disturbi Mentali, si può lasciar perdere.

La sofferenza è sofferenza. Nel mio lavoro va ascoltata e compresa e questo tipo di sofferenza in particolare ha svelato ai terapeuti paesaggi della psiche in cui altri sintomi abitano, si formano, covano a lungo prima di manifestarsi. Continua a leggere

Sul “Sonno della ragione”

E’ la nostra conoscenza – le cose di cui siamo sicuri –
ciò che fa andare il mondo così male,
ciò che ci impedisce di vedere e di imparare”
Lincoln Steffens

In un acquaforte del 1797 il pittore spagnolo Francisco Goya rappresenta quello che lui stesso definisce il “sonno della ragione”. Nella didascalia sotto all’immagine un’iscrizione recita: ”Il sonno della ragione genera mostri”.

Il sonno della ragione genera mostri. (Goya)

Un’interpretazione semplicistica dell’opera considera la necessità di stare svegli, il dovere di contrastare quei prodotti della mente che, se lasciati liberi, turberebbero sia il sonno che la veglia del “soggetto sognante”.

Ma come si fa? Come potremmo stare sempre all’erta? Cos’è, poi, questa ragione che mai dovrebbe dormire?

Una sorta di postilla, attribuita allo stesso Goya, ci viene in aiuto suggerendo quella che mi sembra una lettura più fertile del messaggio. Dice l’autore: “La fantasia priva della ragione produce impossibili mostri. Unita alla ragione è madre delle arti e origine di meraviglie.”

Questa direzione mi piace di più perché introduce una delle mie passioni: la doppia descrizione. E’ uno degli strumenti del mio lavoro e la “mamma” dell’amplificazione: quel modo di procedere che ha come obiettivo la produzione di meraviglie, l’apertura a nuove interpretazioni e la promozione di un pensiero che dubita e va in cerca di altri punti di vista. Continua a leggere

L’Io: una descrizione

…il reale è caotico e perciò inenarrabile”
D. Starnone

Se faccio la fatica di scrivere, è per trovare una storia. La verità dei fatti è importante, ma non è sufficiente. La verità è puro disordine, non rispetta uno straccio di regola, è tutto il contrario di un racconto.”. Così riflette Domenico Starnone nel suo romanzo Spavento, descrivendo quello che è forse lo sforzo principale e più istintivo, meno pensato, dell’io: dare un qualche tipo di coerenza al mondo.

Le narrazioni, come ho spesso scritto nei post sullo Storytelling, sono un modo per raccogliere percezioni, uno strumento irrinunciabile per cavarsela in una realtà che, senza di esse, risulterebbe priva di senso e non gestibile, sconnessa, impraticabile. Un bravo scrittore sa renderle avvincenti, sa catturare l’attenzione di chi legge e riesce ad accompagnarlo nel proprio flusso di coscienza, portarlo a seguire prima una, poi un’altra ed un’altra ancora delle “scene” che via via si svolgono nel mondo che il racconto descrive.

Ma tutti noi siamo impegnati nella costruzione di una storia e, anche se non ne usciranno libri, è su di essa che si basa la nostra lettura, la mappa che usiamo per orientarci nella vita. Continua a leggere

Cronaca 21 – Persuasione I Parte: Sirene

La persuasione, specie nelle sue forme più alte,
non può essere raggiunta senza il senso della bellezza”
Sir A. Quiller-Couch

Peitho era, secondo gli antichi greci, la divinità della persuasione. I Romani la chiamavano Suada (da cui persuadere, appunto) ed era spesso rappresentata insieme ad altre divinità, al seguito di Venere/Afrodite, la dea della bellezza e dell’amore.

Sia nella seduzione che nella retorica la capacità di persuadere è una risorsa irrinunciabile: solo se si riesce ad essere persuasivi si può, infatti, compiere quel gesto che ci permette di convincere l’altro e di portarlo dalla nostra parte , di renderlo partecipe di ciò che vogliamo comunicare o, a volte, di affascinarlo e… condurlo là dove vorremmo che fosse o dove ci piacerebbe essere insieme a lui.

Purtroppo, a forza di sentir parlare di “tecniche di persuasione-persuasori occulti-controllo della mente-plagio…”, capita che, appena si accenna a questo gesto, appena si considera la possibilità di far passare un messaggio e raccontare una storia che convinca, certe difese si alzino e certe resistenze si attivino come per delimitare bene i confini ed “evitare il contagio”.

Il muro di cui cantavano i Pink Floyd nel loro celeberrimo album (The Wall) con il coro di bambini che intona il ritornello che afferma quanto un bambino non abbia “bisogno di educazione e di controllo del cervello”, è come un manifesto di questa diffidenza nei confronti di una forza che, se non controllata o se usata disonestamente, potrebbe ridurci a marionette manovrate da chi è bravo nell’arte di persuadere.

Ma accade che la semplice diffidenza non funzioni. Continua a leggere

Formae Mentis

 

Io giro intorno a Dio, intorno all’antica torre,
e giro per millenni e ancora non so,
se sono un falco, una tempesta o un lungo canto”
R.M.Rilke

La forma e le forme della mente. Sembra chiaro ormai, anche alla luce di studi sempre più accurati sul cervello e sulla sua plasticità, che la mente è continuamente modellata dalle azioni che compiamo e dalle informazioni che raccogliamo. Lo stesso concetto di Io/sé che Cartesio postulava come un immutabile osservatore che pensa e dunque è, risulta con evidenza essere una funzione: “qualcosa” che pur mantenendo una sorta di permanenza, muta continuamente e, dall’esterno è influenzato, perturbato e formato, appunto.

Come il poeta giriamo intorno a qualcosa e nel nostro “errare” modifichiamo la forma del nostro cervello, tracciamo dei solchi che si approfondiscono in base all’esperienza che viviamo ma anche (e forse soprattutto) in base alla descrizione che ne diamo.

L’antico proverbio orientale che fa derivare il comportamento dall’azione e questa dal pensiero è vero sia in un verso che nell’altro: semina un pensiero e avrai un’azione ma, anche, ripeti a lungo un’azione e, da questa sgorgheranno pensieri e, poi, teorie e sistemi, modi di pensare e di leggere la realtà. Inutile insistere sull’idea di mondo liquido se poi popoliamo questo mondo, che riconosciamo non più stabile, sicuro, duraturo, di sé rigidi, solidi o solo apparentemente versatili. Continua a leggere

L’Io e il Mondo: una discutibile dicotomia

Il leone ruggisce al deserto esasperante”
Wallace Stevens

Con questa frase che cito nell’incipit James Hillman, in un suo breve saggio del 1989 “And Huge is Ugly”, invita il lettore ad osservare e sentire il mondo: rendersi conto di quanto le emozioni non siano tanto qualcosa di “chiuso dentro la nostra testa”, quanto una reazione al contesto in cui siamo immersi.

Tutto il saggio, breve in verità (sei intensissime pagine), è un’esortazione a smetterla di dividere: un invito a non cadere nella trappola di vedere il Sé e il Mondo come entità staccate e a non rispondere automaticamente a ciò che ci circonda ma, piuttosto, a riflettere e psicologizzare, tenere a mente Psiche e tralasciare L’Io e l’enfasi sull’individualità. Dice Hillman: “Da lungo tempo mi trovo in posizione critica nei confronti del disastroso polarizzarsi della terapia sul sé: quella malattia che è il narcisismo psicoanalitico, il narcisismo insito, cioè, nella nostra ossessione della soggettività. Il fascino per il sé, tuttavia, non potrà scomparire finché non riconosceremo che ciò di cui si occupa la psicoterapia non è il sé ma la psiche”. E siccome “Fin da Platone ‘psiche’ è stata riferita a un’anima avvolgente, esterna e al di là della nostra testa e della nostra pelle umani, al di là dei confini di ‘me’, al di là delle mie relazioni intra e interpersonali, perfino al di là del mondo in quanto mio ambiente ecologico e mio campo proiettivo”, mettere l’attenzione su psiche significa, necessariamente, smettere di dividere.

Significa smettere di credere che isolandoci dal mondo e combattendolo o reprimendolo si possa allentare la sua presa, si possa sfuggire al dolore che ci causa l’immersione nel deserto esasperante da cui, a volte, ci sentiamo circondati.

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L’Io: solo un memento?

“La presentificazione consiste nel
rendere presente uno stato della mente
e un gruppo di fenomeni”
P.Janet

A proposito di pandemoni: com’è che da tanto vociare interno, dalla scarica di milioni di neuroni e dall’accozzaglia di percezioni che arrivano (arrivano?) alla coscienza, si riesce a ricavare un senso, una qualche idea di soggetto/oggetto stabile che sta, si oppone, si allinea o si sovrappone al mondo? Che ne sarebbe di ognuno di noi senza memoria?

Cosa dobbiamo tatuare sul nostro corpo o nella mente per riconoscerci e riconoscere ciò che ci circonda?

L’idea stessa di ri-conoscere implica il processo della memoria e del “conoscere un’altra volta” e il ri-cordare è il portare nuovamente al cuore visto che cordis in latino è cuore, la sede, secondo gli antichi, della memoria. Insomma il ri-petere, il fare un’altra volta come se dall’uguale e dal noto fosse possibile far nascere la continuità.

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