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Luce nel pozzo

“Non dobbiamo dunque chiederci se percepiamo veramente il mondo,dobbiamo invece dire: il mondo è ciò che noi percepiamo”
M. Merleau-Ponty

Ci sono cose che sappiamo di sapere e cose che sappiamo di non sapere. Come l’ubriaco di cui parlavo nell’ultimo post cerchiamo le chiavi che abbiamo perso sotto  al più vicino lampione acceso perché lì c’è la luce. 

Le luci a cui ci affidiamo sono quelle che speriamo illumineranno meglio il nostro cammino, quelle che crediamo ci renderanno più coscienti, più vigili e sicuri, più consapevoli e forti. 

Ciò che a volte ci sfugge è che queste “luci” sono punti di vista: ottiche sulla vita, angolazioni dalle quali guardiamo il mondo e, allo stesso tempo, filtri che escludono certi stimoli e ne lasciano passare altri. 

Le metafore che usiamo o a cui, più o meno consapevolmente, aderiamo, costruiscono mondi. E, siccome il mondo è ciò che noi percepiamo, ciò che troviamo è ciò che il filtro che abbiamo usato ha lasciato passare. 

Dire che l’attività in cui siamo collettivamente impegnati da un paio di mesi a questa parte è una guerra al virus crea un contesto in cui: la malattia è il nemico, chi la combatte è un eroe, chi non si allinea è un disertore che va sanzionato, si spera in farmaci che come un’arma finale sbaraglino il virus, si vince o si perde.

Il presupposto della “metafora della guerra” implica che gli argomenti di chi la pensa diversamente dalla linea di comando debbano essere distrutti, che occorra andare a caccia di colpevoli e di untori e che, visto che una guerra giustifica una legge marziale, non sia il caso di mettere in dubbio le scelte di chi comanda. Se è una guerra alla fine ci saranno dei vincitori, si potrà festeggiare, si inizierà a ricostruire, torneremo ad abbracciarci, ci lasceremo alle spalle i brutti momenti, ecc. 

É un punto di vista, un modo di raccontarla e non dico che sia il peggiore. Di sicuro è persuasivo. Ma cosa perdiamo quando questa metafora ci persuade?

Sembra che la guerra che il nostro sistema immunitario ingaggia contro il virus sia, in certi casi, parte del problema: una risposta troppo bellicosa della parte innata delle difese immunitarie scatena un’infiammazione che può risultare letale. Potete leggere qui il motivo per cui potenziare il sistema immunitario può essere una pessima idea.

Il vaccino non rende il sistema immunitario più forte ma più intelligente: più bravo ad identificare e neutralizzare il nemico con una guerra mirata invece che con una reazione scomposta e sconsiderata.

Questo tipo di ragionamento somiglia più a quello di un domatore che a quello di un guerriero. La metafora cambia. Non si tratta più di combattere ma di controllare e di modellare/educare delle risorse già presenti per renderle più adatte al lavoro che deve essere fatto. Certo un domatore ha bisogno di tempo e, nel frattempo i guerrieri devono fare la loro parte. Ma chi sono i guerrieri? È davvero il caso di schierarci e, mentre i medici fanno del loro meglio per far fronte al pericolo, dare la caccia a qualche colpevole dell’epidemia? Non sarebbe meglio cambiare metafora/lampione e cercare qualcos’altro? 

Forse le chiavi che abbiamo perso non sono quelle per rientrare in casa ma quelle che ci servono per uscire nuovamente

Cominciamo dalla paura di uscire! Non stiamo uscendo a guerra finita, non ci sono liberatori da festeggiare e dicono che per un bel po’ non dovremo abbracciarci. Ci sentiremo spaesati? Saremo molto diversi da come eravamo prima di… tutto questo? 

Ricordate la fasi del lutto? La Negazione, la Collera, la Contrattazione, la Disperazione e l’Accettazione. Le ritroveremo tutte perché il lutto è appena iniziato.

Il lutto è un lavoro: un impegno per adattarci a una perdita.

Io credo che la domanda debba essere cosa abbiamo perso e penso che questa sia una delle cose che non sappiamo, che dobbiamo accettare di non sapere e su cui dobbiamo continuare a interrogarci. 

L’altro giorno un mio paziente, una persona che spesso mi stupisce per la profondità di analisi e per la capacità di cogliere il punto della situazione mi diceva: “Non so, proprio non ho parole… non riesco a descrivere ciò che stiamo vivendo”.  Insieme abbiamo concordato che questo è un buon punto di partenza e che la famosa proposizione di Wittgenstein “di ciò di cui non si può parlare bisognerebbe tacere”è, in questo momento, molto appropriata. 

Tacere non significa essere muti ma stare fuori dalle chiacchiere, cercare il segnale all’interno del rumore, uscire dal blaterare collettivo. È quella che definisco una Posizione: un tipo di postura della mente (una Forma Vitale, se volete) che determina un modo di fare attenzione. Come quando si ascolta molto attentamente o come quando si ricercano con cura le parole e, per questo, si tace. 

In un vecchio film “L’uomo che sussurrava ai cavalli” c’è una scena in cui il protagonista sta a lungo immobile nell’erba davanti a un cavallo traumatizzato per ristabilire un contatto, per aiutare il cavallo/il suo paziente a riparare il lutto di una relazione con il mondo che era andata perduta. In psicologia diremmo “per aiutarlo a pensare nuovamente qualcosa che era diventato impensabile”. 

Il cavallo ha subito un trauma ed è terrorizzato. La paura del paziente traumatizzato diventa il punto da cui partire e l’attenzione di chi è determinato ad aiutarlo è un primo antidoto. Lo spavento acuisce la sensibilità e dare attenzione a chi è spaventato contribuisce a farlo rilassare come se il nostro essere all’erta insieme a lui gli permettesse di riprendere i sensi che il trauma ha sequestrato.
Così dovremo fare con la nostra paura e con quella dei nostri simili in una fase in cui l’attenzione non potrà essere come quella di prima.
Un po’ come spegnere il lampione per cercare in un modo diverso. 

Se ogni giorno cade
dentro ogni notte
c’è un pozzo
dove la chiarità sta rinchiusa.
Bisogna sedersi sul bordo
del pozzo dell’ombra
e pescare luce caduta
con pazienza.
Pablo Neruda 

Dentro, fuori… dove siamo?

“L’ansia è un sottile rivolo di paura che si insinua nella mente.
Se incoraggiata scava un canale nel quale tutti gli altri pensieri vengono attirati”
Robert Bloch

Nel 1980 J.Lakoff e M.Johnson, un Linguista e un Filosofo, scrissero un lavoro fondamentale  sull’uso delle metafore nella vita di tutti i giorni. In esso sostennero che la metafora influenza non solo il linguaggio ma anche il nostro funzionamento cognitivo. “L’essenza di una metafora è vivere un tipo di cosa in termini di un altro”. Quando ad esempio descriviamo la situazione collettiva che stiamo vivendo in termini di qualcosa da cui uscire/uno stato transitorio che ci lasceremo alle spalle non appena potremo… stiamo, secondo questi autori, usando una metafora di orientamento. Immaginiamo un dentro e un fuori e ci chiediamo quanto manca per “uscire dal tunnel; tornare a vedere la luce; venir fuori da questo brutto momento” ecc. 

Pensare in questo modo serve per orientarci, per darci un orizzonte e una direzione. Ma è una metafora: uno dei tanti modi di pensare e di far luce sulla realtà. Rischia di diventare come il lampione sotto cui l’ubriaco della storiella sta cercando le chiavi di casa che ha perduto. Un poliziotto si ferma ad aiutarlo e, dopo un po’ che cercano insieme, gli chiede “ma è sicuro di averle perse qui?” e lui risponde “ no, ma le cerco qua perché qua c’è la luce”. Una metafora mette in evidenza delle cose ma, facendolo, ne nasconde delle altre. Tornerò nei prossimi post su questo concetto. In questo vi propongo, invece, una riflessione su uno stato d’animo collettivo che prima di poter essere lasciato alle spalle va osservato con cura. 

Ho letto qualche giorno fa un articolo scritto da Scott Berinato sulla Harvard Business Review intitolato That Discomfort You’re Feeling is Grief. Al suo interno c’è un’intervista a David Kessler che è uno dei maggiori esperti mondiali sul tema del lutto. L’ho tradotta e ve la propongo. La parola inglese grief può essere resa in italiano sia con il termine lutto che con il termine afflizione. Nella traduzione uso l’uno o l’altro a seconda delle diverse sfumature del discorso. Chi vuole leggere l’articolo completo in inglese lo trova qui. Buona lettura!

Intervistatore: Le persone stanno provando molti stati d’animo diversi in questo momento. È corretto chiamare afflizione parte di ciò che provano?

Kessler: Sì, e stiamo sperimentando vari tipi di afflizione. Sentiamo che il mondo è cambiato, e lo è. Razionalmente sappiamo che è uno stato temporaneo, ma di pancia sentiamo che non è così e che le cose saranno diverse. Proprio come andare all’aeroporto non è più stata la stessa cosa dopo l’11 settembre, allo stesso modo le cose cambieranno e questo è il momento in cui sono cambiate. La perdita della normalità; la paura per il bilancio economico; la perdita dei legami. Tutto questo ci sta colpendo e ne siamo afflitti. Collettivamente. Non siamo abituati a questo senso di lutto collettivo nell’aria.

Quindi dice che stiamo provando più di un tipo di afflizione?

Sì, stiamo anche provando un senso di lutto anticipatorio. Il lutto anticipatorio è ciò che sentiamo per quello che ci riserva il futuro quando proviamo incertezza. Di solito questo stato d’animo accompagna l’idea di morte. Lo proviamo quando qualcuno a cui teniamo riceve una diagnosi infausta o quando ci viene in mente che un giorno perderemo un genitore. Più in generale il lutto anticipatorio è connesso ai possibili futuri immaginati: sta arrivando una tempesta, qualcosa di cattivo si aggira là fuori. Quando si ha a che fare con un virus questo tipo di afflizione crea ancora più confusione nelle persone. La nostra mente primitiva sa che qualcosa di brutto sta succedendo, ma è qualcosa che non si può vedere e questo fa a pezzi il nostro senso di sicurezza. Sentiamo questa perdita di sicurezza. Non penso sia mai accaduto di perdere il senso di sicurezza tutti insieme come ora; è successo a singoli individui o a gruppi più ristretti, ma la novità è che stavolta è successo a tutti quanti. Siamo in lutto a livello personale e generale.

Cosa possono fare le persone per gestire tutta questa afflizione?

Comprendere gli stadi del lutto è un buon inizio. Ogni volta che parlo degli stadi del lutto devo ricordare alle persone che questi stadi non sono lineari e possono non succedersi in quest’ordine. Non è una mappa quanto piuttosto un’impalcatura per comprendere questo mondo sconosciuto. C’è la negazione, in cui all’inizio diciamo un sacco di: Il virus non ci colpirà. C’è la rabbia: Mi stai costringendo a stare a casa, lontano dalle mie attività. C’è la fase della trattativa: Ok, se tengo la distanza sociale per un paio di settimane tutto andrà meglio, giusto? C’è la tristezza: Non so quando questo finirà. E infine c’è l’accettazione: Sta succedendo; devo capire come andare avanti.

Come avrete immaginato il potere e la forza risiedono nell’accettazione. È nell’accettazione che troviamo il controllo: Posso lavarmi le mani, Posso tenere la distanza di sicurezza, Posso imparare a lavorare on-line.

Quando siamo afflitti sentiamo anche una sorta di dolore fisico e la mente diventa frenetica. Ci sono delle tecniche per trattare questi sintomi e renderli meno intensi?

Torniamo al lutto anticipatorio. L’afflizione anticipatoria non sana corrisponde a uno stato d’ansia, questa è la sensazione di cui stai parlando. La nostra mente inizia a mostrarci immagini: i nostri genitori che si ammalano, gli scenari più cupi. Questo processo è un modo in cui la mente cerca di proteggerci. Dobbiamo porci lo scopo di non ignorare queste immagini, né di cercare di allontanarle. La mente non ce lo lascerebbe fare e lo sforzo per farlo potrebbe essere doloroso. L’obiettivo è quello di trovare un equilibrio nelle cose che stai pensando. Se senti che lo scenario peggiore prende forma, immagina quello migliore. Tutti possiamo ammalarci un po’ ma il mondo va avanti. Non tutti coloro che ami muoiono. E probabilmente la maggior parte si salverà perché stiamo facendo i passi giusti. Nessuno dei due scenari dovrebbe essere ignorato ma nessuno dovrebbe diventare dominante sull’altro.

Il lutto anticipatorio è il risultato della mente che si proietta nel futuro e che immagina il peggio. Per calmarti devi voler entrare nel presente. Questo consiglio è ben noto a chi ha meditato o praticato mindfulness, ma molti si stupiscono di quanto semplice possa essere. Puoi individuare cinque cose nella stanza. C’è un computer, una sedia, una foto del cane, un vecchio tappeto e una tazzina da caffè. È semplice. Mentre lo fai respira. Renditi conto che nel momento presente niente di ciò che hai anticipato è successo. In questo momento stai bene, hai del cibo, non sei malato. Usa i tuoi sensi e pensa a ciò che essi stanno sentendo. Il tavolo è duro, la coperta è morbida. Posso sentire il respiro che entra nel naso. Questo semplice esercizio aiuterà a mitigare un po’ del dolore.

Puoi anche pensare a come lasciar andare quello che non puoi controllare. Ciò che fa il tuo vicino è fuori dal tuo controllo, mentre stargli a un metro e mezzo di distanza e lavarti le mani sono sotto il tuo controllo. Concentrati su quello.

Infine, questo è il momento giusto per fare provvista di compassione. Ognuno avrà un diverso grado di paura e lo manifesterà a modo suo. Un collega è stato molto brusco con me l’altro giorno e ho pensato: Non è da lui, è più la conseguenza del modo in cui cerca di gestire tutto questo; quello che vedo sono la sua paura e la sua ansia. Quindi sii paziente. Pensa a come uno è di solito, non a come sembra in questo momento.

Un aspetto particolarmente preoccupante di questa pandemia è che non ne vediamo la fine.

Questa condizione è temporanea e dirlo aiuta. Ho lavorato per dieci anni nel sistema ospedaliero e sono stato addestrato per situazioni come questa. Ho studiato la pandemia influenzale del 1918. Le precauzioni che stiamo prendendo sono quelle giuste. La storia ce lo insegna. Si può sopravvivere e sopravviveremo. È il momento di essere iperprotettivi, ma non per reagire in maniera eccessiva.

E penso che troveremo un significato in tutto questo. Ho l’onore di avere avuto il permesso dalla famiglia di Elisabeth Kübler-Ross di aggiungere un sesto stadio del lutto: il Significato. Ho parlato per un bel po’ con Elisabeth su cosa venga dopo l’accettazione. Non ho voluto fermarmi all’accettazione quando ho sperimentato dei lutti personali. Volevo un significato per quei momenti bui. E credo fermamente che possiamo trovare luce anche in quei momenti. In questo momento le persone si rendono conto che possono stare in contatto grazie alla tecnologia e che non sono distanti quanto pensavano. Capiscono che i loro telefoni possono essere usati per lunghe conversazioni. Apprezzano la possibilità di fare una passeggiata e credo che continueremo ad aggiungere significato alle cose ora e anche quando tutto questo sarà finito.

Cosa direbbe a qualcuno che anche leggendo queste cose si sente comunque sopraffatto dal lutto?

Continua a provarci! E’ importante chiamare questa condizione con il suo nome: lutto. Ci aiuta a sentire cosa abbiamo dentro. La settimana scorsa ho sentito frasi come: “Sto dicendo ai miei colleghi quanto sia dura per me”, o “Ho pianto la notte scorsa”. Quando gli dai un nome lo senti e ti passa attraverso. Le emozioni hanno bisogno di movimento. E’ importante che riconosciamo ciò che stiamo attraversando. Uno sfortunato effetto collaterale del Movimento di Auto-Aiuto è che siamo diventati la prima generazione che ha dei sentimenti riguardo ai propri sentimenti. Ci diciamo cose tipo: Sono triste ma non dovrei sentirmi così; ci sono persone che stanno peggio di me. Possiamo e dovremmo fermarci al primo sentimento: Mi sento triste. Mi prendo cinque minuti per esserlo. Il compito è quello di sentire la propria tristezza o paura o collera sia che qualcun altro la provi o meno. Opporsi non aiuta perché è il tuo corpo che sta generando queste emozioni. Se lasciamo che i sentimenti succedano si presenteranno in modo ordinato e questo ci darà forza e non saremo vittime.

In modo ordinato?

Sì. A volte tentiamo di non sentire ciò che stiamo sentendo perché siamo preda di questa immagine di “un’orda di sentimenti”. Penso che se sono triste e non mi impedisco di esserlo, la tristezza non passerà mai e l’orda di sentimenti negativi mi schiaccerà. La verità è che un sentimento ci passa attraverso. Lo sentiamo e se ne va e possiamo passare a quello successivo. Non c’è un’orda là fuori che ci insegue. E’ assurdo pensare che in questo momento non dovremmo provare afflizione. Permettiamoci di sentirla e andiamo avanti.

Foto di Orna Wachman da Pixabay

 

Sui sentimenti: omeostasi

“Non saprai mai cosa sia abbastanza, se non saprai cos’è più che abbastanza”
William Blake

L’omeostasi è la capacità di un organismo di mantenere un equilibrio interno pur nel variare delle condizioni dell’ambiente esterno. Sudare quando fa molto caldo e avere i brividi (e arruffare il pelo o vestirsi) quando fa freddo; bere quando si ha sete e mangiare per placare la fame; questi e molti altri gesti sono modi per sopravvivere, risposte a stimoli esterni o interni che indicano una perdita di equilibrio e a cui il corpo e i comportamenti pongono rimedio per ricreare uno stato ottimale.

Antonio Damasio nel suo ultimo libro Lo strano ordine delle cose, dice: “L’omeostasi è un potente imperativo, inconsapevole e inespresso, il cui assolvimento implica per ogni organismo vivente, piccolo o grande che sia, il semplice perdurare e prevalere”.

I termini “inconsapevole e inespresso” sono, per me che faccio lo psicologo (e per una mia particolare predilezione), le parole chiave della frase, quelle su cui vale la pena riflettere. È ovvio che non abbiamo bisogno di metterci a pensare per cominciare a sudare quando fa molto caldo ed è evidente che non ci siano gesti consapevoli che regolano la pressione arteriosa o la secrezione di insulina dopo un pasto abbondandante. Sono  processi che avvengono indipendentemente dalla volontà e, come ebbe a dire Bateson, per fortuna la mano sinistra non sa cosa fa la destra: ci sono rimedi che il corpo applica senza che “l’io” faccia niente, senza che occorra un intervento consapevole da parte di un soggetto che, in genere è impegnato in… altro.

Possiamo leggere, interagire con i nostri simili, litigarci o giocare a carte mentre tutta una serie di processi opera per mantenere un equilibrio senza il quale non potremmo né perdurare né prevalere. Mentre tutto questo accade qualcosa dall’interno ci tiene informati su come vanno le cose. Questo qualcosa è ciò che chiamiamo sentimento.

“I sentimenti sono informazioni: essi rivelano a ciascuna mente la condizione di vita all’interno dell’organismo, una condizione espressa lungo un intervallo che va da valori positivi a valori negativi. Un’omeostasi insufficiente è espressa da sentimenti ampiamente negativi; i sentimenti positivi esprimono invece livelli appropriati di omeostasi e schiudono agli organismi opportunità vantaggiose. Sentimenti e omeostasi sono legati in modo stretto e coerente” (Damasio). Insomma, stando molto sul semplice (per ora): se non ho niente sullo stomaco, se ho riposato abbastanza e se mi sento in forze, parto per la prossima azione che ho deciso di intraprendere, che sia il prossimo capitolo del libro che sto leggendo o una giornata di lavoro, con un sentimento positivo: una rappresentazione mentale di come sto che giudico sufficiente o buona.

Il sentimento è una risonanza interna. Qualcosa che sta a metà tra passione e emozione. Se la passione è intensa e duratura e l’emozione è immediata e acuta, il sentimento è… lì in mezzo. Il termine risonanza rende bene l’idea perché se, ad esempio, vedo una persona per la prima volta e provo un’emozione che mi muove verso di lei (questo fanno le e-mozioni: muovono verso o via-da) se sto un po’ con l’emozione e lascio che risuoni dentro di me e giudico che mi sta simpatica, la voglio conoscere, so che la mia omeostasi migliorerà grandemente se avrò a che fare con lei… ecco un sentimento. Se lo coltivo per un po’ può diventare una passione, un innamoramento (o un’ossessione).

Credo che questo stare nel mezzo dei sentimenti sia ciò che li rende “sia fisici che mentali” o, come dice Damasio, dei rappresentanti mentali dell’omeostasi. Credo anche che proprio questa caratteristica di essere degli ibridi corpo/mente sia ciò che fa sì che le persone diventino suscettibili non appena si cerca di definire sentimenti complessi come l’amore o la gelosia in termini puramente fisici/ormonali o romantico/mentali. In quanto “esperienze soggettive dello stato vitale” i sentimenti sono, appunto soggettivi, personali, intimi.

Così, mentre l’omeostasi procede in modo inconsapevole e inespresso a regolare le funzioni vitali, qualcosa negli esseri provvisti di coscienza rivendica la libertà di spostare un po’ le soglie all’interno del continuum che va da  valori positivi a valori negativi di omeostasi. Ci specializziamo in limiti: possiamo mangiare ben oltre al livello di sazietà, superare l’iniziale disgusto verso sostanze tossiche fino a renderne piacevole l’uso e l’abuso, sforzarci di trasformare il dolore in piacere.

Capita così di affezionarci alle nostre dipendenze e di sperimentare stati rischiosi e piacevoli mentre qualcosa nel corpo cerca di far fronte allo squilibrio e di recuperare dopo una scorpacciata, una sbronza, un eccesso. Non sappia la tua destra…

In seduta lavoro molto sull’idea di risonanza. Non ci sono emozioni sbagliate: collera, paura, disgusto, tristezza, entusiasmo, gioia, tenerezza, sono più o meno appropriate a certi contesti, più o meno accettate o censurate. Una domanda interessante sulle emozioni è quanto a lungo vengono fatte risuonare? In cosa si trasforma una collera macerata a lungo? Perché l’entusiasmo “non dura”? Cosa rende cronica la paura?

Lasciar risuonare “dentro”, non lasciar andare, respingere, espellere, custodire; mischiare, diluire, saturare… Ognuna di queste azioni è un tipo di contenimento, un modo di non lasciare andare. Quanto basta? E perché non eccedere?

Collera: predatori e dèi

“Tempo e attenzione… molto meglio del sangue di un agnello”
American Gods

Negli animali e negli uomini la collera può essere un’importante risorsa. Serve ad allineare gli altri ai propri desideri impliciti perché l’impeto dell’animale dominante dà un chiaro segnale, un messaggio che convince a sottomettersi, a seguire, ad attivarsi senza fare troppe storie. È appropriata in un combattimento, potrebbe esserlo in una caccia e funziona perfettamente se, in certi contesti, è indossata da un capo branco o da un sergente. Nella sua forma più primitiva può essere una reazione di irritazione innescata da squilibri omeostatici come la fame o la sete e finisce non appena il bisogno viene soddisfatto. Capita addirittura che, nell’istante in cui si intravede la possibilità di riempire il vuoto e di “sfamarsi”, la rabbia venga sostituita da una sorta di entusiasmo: il sistema emotivo della collera si disattiva  per lasciare spazio a quello della ricerca/ricompensa che prepara il corpo e la mente alla soddisfazione (è il meccanismo che sta sotto all’idea che l’attesa del piacere possa essere, essa stessa,  un piacere).

Negli esseri umani la ricompensa è spesso la soddisfazione di un bisogno più complesso della fame o della sete: siamo animali sofisticati, aspiriamo a piaceri sottili e siamo disposti ad attendere a lungo e a posticipare il godimento pur di ottenere ciò a cui miriamo. Questo attendere è, secondo Freud, una delle caratteristiche del Principio di Realtà, quello stato di coscienza che ci permette di trattenere l’impulso alla soddisfazione immediata e che ci rende molto più “civili”, riflessivi e in grado di lavorare: fare cose che possono sembrare insensate ma che, in futuro, daranno frutti. (Cose tipo accettare un lavoro infame pur di avere una garanzia di sopravvivenza)

Coltiviamo aspettative e la delusione delle aspirazioni del sistema delle ricerca genera collera: ci arrabbiamo perché, nonostante i nostri sforzi, non siamo stati premiati.

Credo che un modo fruttuoso di osservare la collera sia quello di posizionarla su un continuum delle aspettative con, da una parte, un predatore primitivo, una sorta di animale che si avventa sull’oggetto del proprio desiderio per saziarsi subito e, dall’altra, all’estremo opposto ed altrettanto radicale, un bambino capriccioso, un dio moderno che monta su tutte le furie se ciò che pensa non accade e se ciò che gli spetta non gli viene consegnato in sacrificio.

Due estremi con due diverse patologie e con, in mezzo, da qualche parte, un equilibrio sano, un luogo in cui, per dirla con Aristotele, esiste una saggezza pragmatica che ci permetta di modulare l’emozione. “Chiunque può arrabbiarsi: questo è facile; ma arrabbiarsi con la persona giusta, e nel grado giusto, e al momento giusto, e per lo scopo giusto, e nel modo giusto: questo non è nella possibilità di chiunque e non è facile” (Aristotele).

Nell’incipit ho messo una frase tratta da una serie televisiva basata sul libro di Neil Gaiman “American Gods”. La pronuncia Media, una dei nuovi dèi, quelli moderni che, nel romanzo, sono in lotta con altri dèi più antichi e meno sofisticati.

Entrambi lottano per il potere, per la visibilità e per uno specifico nutrimento, diverso a seconda del carattere e della nicchia in cui ogni dio si colloca. Così Odino, uno dei vecchi dèi, si sostiene con l’arte dell’imbroglio di cui è maestro e confessa il suo timore più profondo, quello di essere dimenticato, mentre Media usa le immagini di personaggi famosi per manifestarsi e dice di preferire il tempo e l’attenzione dei suoi fedeli al sangue di una vittima sacrificale. È una vecchia storia e, al contempo, un’ottima metafora: i vecchi dèi (le parti più antiche, indifferenziate e primitive del cervello/mente) si accontentano di “cibi semplici”; quelli nuovi e più evoluti (le parti più recenti della mente/cervello, quelle che sono venute dopo e che sono responsabili delle funzioni superiori) vogliono cose più complesse, si cibano di piatti che vanno masticati più a lungo, che si stagionano, che devono essere raffinati e che, a volte, marciscono.

Prendete la collera: gli aspetti inferiori e più antichi del sistema della collera provvedono a generare reazioni emotive che durino giusto il tempo di un combattimento o di una caccia. Un animale attiva il proprio sistema di ricerca per tendere un agguato ad una preda e scatena tutta la propria aggressività nel momento dell’attacco e fino alla cattura della vittima. Usa il sistema della collera per poco tempo, non coltiva astio o rancore, non elabora modi sofisticati per vendicarsi di un nemico. La collera di un “dio semplice” si placa con il sangue dell’agnello e, così come l’irritazione, finisce non appena scompare lo stimolo doloroso. Quella di un “dio più evoluto” può durare anni, può andare alla ricerca di stimoli avversi che la alimentino e può dare energia ad altri sistemi così che sia possibile fare cose come vendicarsi a freddo, fondare un partito che diffonda l’odio, progettare una guerra.

Anche nella mitologia greca i vecchi dèi erano simili a forze primigenie: Chaos (la Voragine da cui iniziano le cose), Gea e Urano (il Cielo e la Terra), Ponto (il Mare Fluttuante) e, poi, i Titani, Amore e Discordia… forze con cui è difficile negoziare, con cui non si può dialogare e a cui si possono sacrificare semplici cose sperando che la loro collera si plachi. I nuovi dèi erano altrettanto terribili ma più complessi e più accessibili, più rappresentabili in forma umana. Afrodite e Zeus potevano innamorarsi degli uomini, prendersela con loro, proteggerli o perseguitarli, il ché, uscendo ancora dalla metafora, significa che più un’emozione grezza diventa rappresentabile più si può venire a patti con essa; più possiamo pensare a ciò che stiamo provando più possiamo, nel bene e nel male, modularne l’intensità. E, visto che l’evoluzione non torna indietro e che, tolti alcuni pietosi casi, gran parte degli esseri umani è più sofisticata e pensante degli altri animali, questa rappresentabilità sembra essere un bene. Ci permette di contenere le emozioni e di porci domande intelligenti. Quesiti come: ha senso che mi arrabbi? Davvero voglio continuare ad avercela con questa persona? Come mai non ho ancora smesso di pensare a quell’offesa? Chi o cosa divento se continuo ad odiare e quanto l’odio mi lega al nemico più di altri sentimenti? Chi sta provando questa collera?

Negli animali le emozioni sono coerenti: durano il tempo necessario alla loro funzione e per una bestia non ha senso restare arrabbiata oltre il momento della lotta fisica, provare paura dopo aver raggiunto la tana, cercare incessantemente anche oltre la sazietà.

Per gli umani, invece, resta valida la frase di Nietzsche: “Poveretto l’uomo che non è il giardiniere ma solo il suolo delle piante che crescono in lui”! (Nietzsche adorava i punti esclamativi).

American Gods, Media

Sul rimuginare

“Un tipico sogno ad occhi aperti
dura circa quattordici secondi e ne
facciamo circa duemila ogni giorno”
Science Magazine

La breakfast interview è uno strumento ideato dallo psichiatra Daniel Stern per aiutare un soggetto a individuare i momenti presenti: piccole porzioni di tempo mentale in cui si intrecciano pensieri e affetti, attività cognitive ed emozioni che prendono spunto da uno stimolo che può essere colto nell’ambiente o da un’idea o uno stato d’animo da cui parte una micro-catena di associazioni. Serve inoltre a far sì che si colga l’incredibile densità di ogni momento presente, una densità creata dalla grande quantità di informazioni che si accumulano nella mente in pochi secondi e che normalmente non vengono osservate.

Se si applica questo metodo all’osservazione di cosa accade nella psiche intanto che non si sta svolgendo un compito particolare ma mentre si sta semplicemente pensando ad un argomento come in un sogno ad occhi aperti, si può avere una sorta di istantanea del Default Mode Network: lo stato mentale di cui ho parlato nell’ultimo post e sulla cui natura ho ricevuto un bel po’ di domande.

E’ stato proprio mentre pensavo a come parlarne che mi è venuta in mente la breakfast interview e, a quel punto, è stato ovvio applicarla al mio di stato mentale per raccogliere i pezzi che ora vi racconto a mo’ di esempio.

Pensavo alle domande e all’argomento e, mentre lo facevo mi è venuta in mente l’immagine di un quadro di Van Gogh: “un paio di scarpe”. Insieme all’immagine, ho pensato ad un pezzo scritto da Heidegger a commento del quadro e come spunto per descrivere la funzione dell’opera d’arte in generale. Ho pensato a quanto fosse bella ma barocca e per certi versi pretenziosa la riflessione del filosofo sul quadro e mi è venuta in mente una critica di Derrida che disse forse in modo provocatorio che quello di Heidegger era uno sproloquio e che lui nel quadro vedeva “… delle scarpe, punto e basta”. A quel punto, in modo più emotivo, ho pensato a come fosse possibile che un pensatore acuto come Heidegger, uno in grado di fare riflessioni così complesse, potesse rispondere all’amico Jasper che gli chiese come potesse sostenere una persona ignorante quanto Hitler: “La cultura è del tutto indifferente… basta guardare le sue meravigliose mani.”

Ecco, pensavo queste cose e provavo un po’ di vergogna pensando ad Heidegger e considerando, nello stesso tempo, quanto questa dissonanza fosse una conferma di come il pensiero anche se profondo può lasciare intatte le emozioni e i sentimenti e di quanto certi affetti, se non analizzati, possono obnubilare anche una mente molto sofisticata. Riflettevo su come e se ne avrei parlato in un post mentre spalmavo la marmellata sulle fette di pane per la colazione. Questo primo sogno ad occhi aperti  sarà durato una decina di secondi. Poi sono arrivati altri sprazzi di emozione: un po’ di ansia grezza all’inizio; una sensazione su cui si è aggiunto un pensiero tipo: “perché dovrebbe interessare a chi ti legge la tua pippa mentale… non è che tiri fuori ‘sta roba per dare tu uno sfoggio di cultura?”( pensavo anche a quanto mia moglie mi avrebbe preso in giro su questo punto). L’ansia ha iniziato a trasformarsi in una sorta di vergogna simile a quella che provavo “per Heidegger”; l’ho lasciata andare perché mi sembrava che, comunque, stavo osservando per bene l’intreccio di pensiero ed emozione e perché due altri affetti mi spingevano ad andare avanti: il mio spontaneo insistere appena trovo un pensiero che per me è gratificante (una conseguenza, credo, di un sistema emotivo di ricerca in me sempre molto attivo) e il senso del dovere con una considerazione tipo: “un post su questa cosa lo devo scrivere e da qualche parte devo cominciare”. Questa seconda pensata è durata un’altra decina di secondi.

Per un paio di volte durante questo processo mentale sono stato in bilico sull’orlo del rimuginio. Funziona così, ad esempio: ad un certo punto un’emozione sgradevole fa capolino ed è come se chiedesse al pensiero il permesso di invadere lo spazio; il pensiero si appiccica all’emozione e uno sprazzo di ansia diventa il terreno per una coltivazione di vergogna o di vincoli e successivi rimuginii.

Nel mio caso, prima che imparassi a tenere a bada l’ansia e la paura, il giro del pensiero era: “ecco, tutto questo sforzo per farti vedere e poi sembri uno sbruffone, meglio se stai nel tuo che almeno non rischi di essere frainteso o di non essere proprio visto”. Si chiama evitamento e all’inizio sembra una buona idea ma lascia intatto il rimuginio che, nel mio caso, a quel punto prendeva la china del: “bravo, non fare niente che così non combinerai niente” ecc.

Sotto, sotto al flusso di pensiero scorrono vene profonde di emozioni. A volte sembrano dei semplici rigagnoli ma è come se l’attività del pensiero potesse alimentarli e, quando inizia la ruminazione, l’emozione influenza il considerare e il pensiero rende più densa l’emozione. Ne nasce un circolo vizioso in cui i sogni ad occhi aperti diventano incubi appiccicosi: centinaia di spezzoni da dieci secondi in cui pensare diventa una tortura inutile e senza sbocco.

Siccome la persona con cui più abbiamo a che fare  mentre rimuginiamo siamo “noi stessi”,  la caratteristica fondamentale delle ruminazioni mentali è l’autoreferenzialità.

Spesso il Default Mode Network è imbottito di “…credenze automatiche e ripetitive e ruminazioni sul Sé che costituiscono una parte inseparabile delle emozioni disregolate. Tali narrazioni su di sé possono acquisire una vita autonoma, intrusiva; possono riaffiorare in maniera involontaria e manifestarsi come pensieri familiari, fantasie o immagini, finendo per dominare la nostra esperienza intrapsichica e interpersonale. […] Tali narrazioni o ruminazioni assumono la forma di pensieri negativi ricorrenti su di sé, convinzioni irrazionali, valutazioni denigranti della propria efficacia o del proprio valore, oppure la forma di un’esagerata preoccupazione rispetto al fatto di ricevere un giudizio negativo da parte degli altri.” (Neuropsicologia dell’Inconscio, Efrat Ginot).

Ci sono tanti antidoti per mantenersi al di qua del rimuginare. Quasi tutti hanno a che fare con l’attenzione e con il modo in cui ce la raccontiamo. Le narrazioni sono un ottimo modo per contenere le emozioni: osservarle, esprimerle, condividerle (anche se a volte falliscono). La breakfast interview è un buon esercizio per cominciare a scrutare l’intreccio fra pensiero e affetto, tra riflettere e sentire.

Un paio di scarpe – Vincent van Gogh

Default mode network

Libertà = vedere nella foresta dei vincoli gli alberi delle scelte
Heinz von Foerster

In neurofisiologia con il termine default mode network (DMN) si intende una rete di aree della corteccia e delle aree sottocorticali che viene attivata durante le ore di riposo vigile o di rilassamento. Non è attiva quando dormiamo ma lo diventa non appena terminiamo un compito in cui eravamo impegnati e cominciamo a fantasticare o a “sognare ad occhi aperti” o quando semplicemente ce ne stiamo tranquilli a riflettere sui nostri stati mentali o su quelli di qualcun altro. E’ una parte del cervello-mente che sembra essere alla base dell’autoreferenzialità e molti studiosi del sistema nervoso “ipotizzano che l’elevato metabolismo richiesto da tale circuito neurale faccia sì che si possa essere in contatto e possedere un senso di ciò che sta accadendo internamente ed esternamente” (Neuropsicologia dell’Inconscio).

Se vi facessero una risonanza magnetica funzionale mentre siete in poltrona e guardate il soffitto, un po’ prima che cominciate ad annoiarvi e a mettervi in moto per fare qualcosa, se cogliessero il punto in cui state pensando a come è andata la scorsa settimana, a cosa farete la prossima e a a quanto era meglio quando  eravate in vacanza, se facessero una foto del vostro cervello mentre si uniscono ricordi, emozioni, qualche riflessione, un pizzico di rimuginio con qualche rimpianto e magari un po’ di astio verso qualcuno che amate ma che non vi capisce… ecc. Ecco, avremmo un’istantanea del DMN, tradotto in italiano con Connettività Funzionale Intrinseca che è proprio brutto ma che sta a significare che è grazie a queste connessioni che sono sempre pronte ad accendersi quando non siamo impegnati e che svolgono una funzione specifica e ripetitiva e costante, che noi manteniamo un senso del sé, un’idea di continuità e di familiarità.

Come dire, stando più sul clinico/soggettivo che sullo scientifico/anatomico, che c’è una stanza in cui torniamo quando passiamo dal fare al riflettere e quando la riflessione non è orientata alla risoluzione di un problema esterno ma, piuttosto, ad un rispecchiamento: guardarci e fare il punto per intuire dove siamo, dare un’occhiata all’orizzonte, valutare a spanne come stiamo e cosa emerge di irrisolto, aperto, conflittuale, da aggiustare.

Una stanza che è una sorta di pensatoio in cui c’è spazio per la ruminazione e in cui, purtroppo, capita di farsi del male: tornare a riaprire le stesse ferite, coltivare specifiche ossessioni che sembrano fatte apposta per catturare l’attenzione e per attivare emozioni che affliggono, spaventano, rinforzano il senso di impotenza. Un posto perfetto per la Coazione a Ripetere con i soliti pensieri che diventano masturbazioni interminabili senza una risoluzione, uno sbocco, uno sfogo.

Pare che ci sia un prezzo da pagare per il “senso di sé”. Sembra che, come aveva già intuito Freud, l’io sia una specie di spazio ristretto tra coscienza e inconscio, tra pulsioni-istinti e regole del mondo ed è evidente che il nostro sforzo per proiettarci nel futuro e per non perdere la nostra identità non sia indolore: costa fatica e continuamente si scontra con una serie di vincoli. Molti di questi non sono “esterni”. Ce li portiamo dentro e compaiono quando il pensiero per un po’ indugia, quando non siamo distratti dal vivere ed entriamo in modalità “adesso penso a me e alla mia vita”.

Arrivano dalle regioni sottostanti a quelle adibite alla soluzione di problemi. Crediamo di starcene in una stanza linda e conosciuta, una sorta di laboratorio in cui dovremmo poter impostare le equazioni che risolveranno i problemi che ci separano da una vita perfetta e, invece, questo spazio interno è… tutt’altro.

La stanza ha pareti e soffitto e pavimento  permeabili. Come potrebbero non entrare le emozioni e i desideri non esauditi? Come pensare che ciò che è irrisolto non si ripresenti e non insista? Perchè i fantasmi non dovrebbero essere attirati dal loro pasto preferito: il pensiero ricorsivo, ruminante, maniaco?

“Le ruminazioni autoreferenziali e il modo in cui gli eventi emotivi e interpersonali vengono giudicati e interpretati potrebbero essere elementi chiave per capire come molte false interpretazioni e convinzioni siano correlate a stati emotivamente disregolati”. (Lo so anche emotivamente disregolati non si può sentire ma il tentativo di trovare parole che rendano bene l’idea di “cosa succede” e il bisogno di avere termini poco ambigui e condivisibili riflette lo sforzo immane di mettere ordine nella stanza).

Ci sono delle emozioni irrisolte, cose che ci affliggono e da cui non riusciamo a liberarci, stati che vorremmo fossero diversi e che avvertiamo come dei disagi, dei sintomi, dei pesi da cui ci vorremmo alleggerire; cominciamo a pensare e, come spettri, si presentano e il pensiero diventa rimuginio, lo sforzo di farsi largo tra i vincoli diventa, spesso, un ulteriore invischiamento. Avete tutti chiari esempi di come succede e di come, dopo un po’, venga voglia di smettere di pensare e mettersi a fare altro e di quanto, a volte, non sia facile staccare la testa e capiti di restare intrappolati nelle rete di pensieri e affetti dolorosi.

Diventa difficile vedere nella foresta dei vincoli gli alberi delle scelte.

Ma non è impossibile. Sono stati “inventati” molti modi per non entrare nella stanza, per evitare di guardare in certi punti o per imbonire i fantasmi. Molte di queste soluzioni (alcool, droghe, iperattività, farmaci psicotropi) funzionano (in parte) ma portano con sé una quantità di effetti collaterali. Altri metodi puntano sulla capacità di abitare la stanza in un modo diverso e affinare lo sguardo così da diventare più bravi a non cadere nella trappola dei vincoli. Si può diventare abili osservatori e si può fare un lavoro diverso sulla considerazione di sé.

Nei prossimi post parlerò di questi metodi e di altre cose che ogni studentello dovrebbe sapere.

Intanto, una poesia di Wislawa Szymborska:

Lode della cattiva considerazione di sé

La poiana non ha nulla da rimproverarsi.
Gli scrupoli sono estranei alla pantera nera.
I piranha non dubitano della bontà delle proprie azioni.
Il serpente a sonagli si accetta senza riserve.
Uno sciacallo autocritico non esiste.
La locusta, l’alligatore, la trichina e il tafano vivono come vivono e ne sono contenti.
Non c’è nulla di più animale della coscienza pulita, sul terzo pianeta del sole.

‘Interno #10’ di Matteo Massagrande

Sistemi emotivi: un incipit

“Se l’unico strumento che hai in
mano è un martello, ogni cosa
inizierà a sembrarti un chiodo”
A.Maslow

Sto leggendo “Neuropsicologia dell’inconscio” un libro che non consiglierei ai non addetti ai lavori ma che trovo illuminante. L’approccio teorico che permea l’intero libro fa capolino nelle prime due frasi della quarta di copertina: “Per effetto dei costanti progressi nell’ambito della clinica e della ricerca scientifica, il costrutto teorico di inconscio sta subendo oggi una riformulazione e, indubbiamente, una trasformazione. I processi inconsci non sono più ritenuti espressione della mente soltanto, bensì di mente, cervello e corpo.”

L’inconscio è, prima di tutto, un costrutto teorico: una terra incognita che, proprio perché tale, si è prestata ad ogni tipo di interpretazione, di ipotesi e di proiezione. Molti di coloro che lo hanno studiato o che si sono ingegnati a porre rimedio ai sintomi che da esso derivano, hanno perpetrato l’errore di Cartesio: hanno cioè continuato a distinguere fra corpo e mente mettendo così sullo sfondo la natura incarnata della mente e la nostra  “tendenza naturale” ad agire, a mettere in atto risposte al mondo che ci circonda.

Per gli animali e per l’uomo rispondere è, innanzitutto, agire. Molto prima di essere creature riflessive siamo stati e siamo “attori che inter-agiscono”: esseri emotivi che sentono il mondo e reagiscono in base a ciò che sentono. La riflessione arriva dopo. E’ arrivata-dopo a livello evolutivo perché i nostri antenati erano molto più simili/vicini agli animali di quanto lo siamo noi oggi e arriva-dopo nelle circostanze di tutti i giorni, tutte quelle volte in cui… troppo tardi, ormai l’ho fatto.

Ci sono almeno due cervelli-mente: uno veloce ed emotivo che non perde tempo e agisce e uno che valuta più lentamente prendendo in considerazione un contesto più ampio, decidendo a volte di trattenersi o posticipando o spiegando l’azione che compie.

“… al cuore dell’emozione e dei processi cognitivi c’è l’attribuzione di un significato all’ambiente”: cammino su un sentiero in montagna e vedo qualcosa di allungato e contorto poco più in là, per terra; qualcosa in me si spaventa, mi immobilizzo come davanti a un serpente, il cuore si mette a battere velocemente e l’adrenalina attiva i muscoli, mi immobilizzo ma sono anche pronto a fuggire; mi accorgo poi che è una corda, avrei dovuto capirlo subito, non ci sono serpenti blu e verdi e così sottili, non su queste montagne, perlomeno.

Ho “agito” in base a un’emozione, immobilizzandomi, e poi ho “deciso di non dare seguito all’azione” riflettendo. Due cervelli diversi hanno attribuito significati diversi al mondo. Il primo ha reagito nel modo in cui funzionano le parti più primitive che rispondono in modo veloce e sporco (quick and dirty), il secondo ha guardato meglio collegando anche una quantità di altre conoscenze e estraendo un significato più articolato.

Entrambi i sistemi funzionano e il primo lo fa prima e a prescindere dalla coscienza.

Questo agire d’impulso ha sicuramente salvato molte vite ma, in seduta, arrivano quelli che, per sfuggire alla corda scambiandola per una biscia, sono finiti nel burrone o hanno rischiato un infarto.  

Scappare o immobilizzarsi di fronte a un serpente è una reazione sana ma farlo davanti a una corda o, peggio, vedere corde dappertutto, è un sintomo: il risultato di una difesa rigida che agisce anche quando non dovrebbe, in automatico.  

Un automatismo è una risposta che non sa di essere una delle tante risposte possibili. Siccome agisce “sotto e prima della coscienza”, non è facilmente raggiungibile: ci diciamo che la prossima volta agiremo in modo diverso ma, appena immersi in certi contesti, ci limitiamo a ripetere la solita risposta; a volte costruiamo complicati sistemi di pensiero che spiegano come mai agiamo così è perché non possiamo cambiare e queste visioni del mondo (a volte dei veri e propri deliri) non fanno che perpetrare l’automatismo. Certe regioni del cervello non vengono nemmeno sfiorate dal pensiero riflessivo, certi gesti e certe posture appaiono nel corpo emergendo da luoghi a cui la coscienza non ha accesso, ci ritroviamo con in mano il solito martello anche se servirebbero una forchetta, un pennello o  un violino.

Per fortuna tutti questi gesti sono accompagnati da un’emozione e l’emozione è la chiave: è partendo da ciò che sentiamo che possiamo tentare un accesso… a ciò che sta sotto. Cosa provo quando impugno il martello? Qual è l’emozione che mi pervade poco prima e durante l’azione? In quali altri contesti l’ho provata e cosa succede se comincio a guardarla e, invece di agire, sto fermo e osservo?

Quello che la ricerca neuropsicologica ha scoperto è che ci sono almeno 7 sistemi emotivi che regolano i principali aspetti della nostra vita modulando percezioni, espressioni e comportamenti relativi alla Ricerca, alla Rabbia, alla Paura, alla Sessualità, alla Cura, alla Tristezza e al Gioco.

Ci sono degli  accessi a questi sistemi e si può fare molto per intervenire anche su quelle parti che sembrano così consolidate da non permettere nessun cambiamento, nessuna possibilità di “insegnare un nuovo gioco a un vecchio cane”.

Ne parlerò nei prossimi post perché l’argomento mi entusiasma e perché continuo a credere che ci sono cose che ogni scolaretto dovrebbe sapere è perché … ci sono troppi martelli in giro.

Pink Floyd_The wall

Un po’ di pazienza…

“… le emozioni, anche le più anomale, vanno prese
terribilmente sul serio prima di
diagnosticarle come aberranti o immature”
James Hillman

Sono convinto che gran parte dell’ansia che si incontra in terapia, quella di cui i pazienti si lamentano, quella che perturba le loro vite e di cui non vedono l’ora di liberarsi, non sia che sforzo per liberarsi dall’ansia.

Il bisogno di sollievo immediato è tale che non appena un’emozione indesiderata si presenta si mettono in moto una serie di difese che mirano ad abbassare lo stato di attivazione e a ritrovare velocemente la quiete. Spesso queste stesse difese sono così piene di impazienza, così solerti nell’intraprendere la “lotta contro lo squilibrio” che il loro stesso attivarsi non fa che alzare il livello dell’ansia.

Come ebbe a dire Hillman: “Oggi ci si aspetterebbe quasi che gli amici di Giobbe o i compagni di Gesù nel Getsemani avessero pronta la loro brava confezione di tranquillanti”. Tranquillizzare, acquietare, spegnere l’ansia e, subito dopo, trovare un nuovo stimolo perché anche troppa quiete mette agitazione. La noia diventa la spia di nuove ansie all’orizzonte: quelle connesse al vuoto e all’assenza di qualcosa che lo riempia. Lo spazio fra troppo-agitato e troppo-quieto si stringe fino a diventare una sottile intercapedine e mi è capitato di lavorare con pazienti che stanno sempre tra Scilla e Cariddi, con l’ansia per il vuoto o con l’ansia per il pieno e che non si rendono conto di quanto l’agitazione che provano è data proprio dall’incapacità di tollerare: starsene lì per un po’ con la noia o con la fretta. Pazientare, insomma, visto che sono pazienti!

Ciò che sfugge in questa lotta per lo stato mentale perfetto è che è ciò che facciamo con le emozioni a renderle più o meno persistenti, più o meno intense, tollerabili, dolorose.

Prendiamo la collera, per esempio. La collera è di per sé una difesa: un’emozione primaria al servizio del nostro amor proprio. L’abbiamo usata per cacciare e per difenderci, per proteggere noi e i nostri cari da una minaccia, per reagire velocemente contro un pericolo attaccando o per sostenere la nostra parte in una causa che abbiamo ritenuto degna di essere impugnata. Serve per combattere e se ne sta, insieme alla paura, racchiusa nei nostri riflessi. Nel mondo in cui viviamo non c’è molto spazio per la sua espressione più manifesta: raramente si viene alle mani, non si può picchiare impunemente un proprio simile e non ci si sfida più a duello; rimane lo scarico verbale, un po’ di lotta dialettica o alcune lecite sublimazioni (lo sport, il tifo, la competizione “civile”). In questa parte del mondo la collera non ha quasi mai occasione di esplodere con tutta la sua violenza e così abbiamo imparato a trattenerla.

Cosa usiamo per trattenerla? Cosa facciamo con la rabbia e cosa diventa quando invece di scaricarsi sul suo oggetto (preda, nemico, bersaglio) viene posticipata, repressa, rimossa? Dove va a finire, come si trasforma?

Dipende! Dipende dalla presa che si esercita su di essa: dentro a quale contenitore la mettiamo? Pensate alla differenza fra una rabbia desiderata o una rabbia inibita. La prima è come una risorsa: la grinta che mi serve per vincere una sfida, qualcosa che cerco e che diventa uno strumento da usare verso un fine; la seconda è qualcosa che non posso esprimere che devo “mandare giù” e che potrebbe intossicarmi. In origine sono la stessa energia, lo stesso livello di attivazione, lo stessa forza grezza che si presenta nel corpo come disponibilità all’azione e al movimento. Ma diventano diverse a seconda di come le tratto ed è probabile che la prima si trasformi in spinta agonistica e che la seconda diventi irritazione. Cosa faccio con l’emozione?

Pensate ad una collera completamente rifiutata. Come si sente un bambino furente che non viene accolto nella sua manifestazione di lotta contro ciò che lo sta facendo arrabbiare? Cosa succede se la madre invece di comprendere tutta quella rabbia rimane indifferente o reprime l’espressione dell’emozione? Cosa succederebbe se, invece di censurarla, fosse curiosa e se il bambino capisse che la mamma vuole combattere con lui? Cosa viene fatto sull’emozione? Quale gesto viene compiuto e cosa diventa la rabbia dopo il gesto?

Succede in questo modo: facciamo inconsciamente (automaticamente e implicitamente) un sacco di cose sulle emozioni e  andiamo avanti a credere che le emozioni siano grezze  e che occorra dare sollievo non appena disturbano. E va a finire che, nella smania di fare qualcosa, si fanno, con le emozioni, molte cose a casaccio senza accorgersene.

L’ansia, quella patologica, è il ronzio di tutto questo lavoro inconsapevole e spesso inutile: una reazione emotiva al presentarsi di un’emozione, un’azione inconsulta che assomiglia più a un dimenarsi che ad un prendere provvedimenti.

Le emozioni andrebbero, invece, prese terribilmente sul serio.

Vanno ascoltate con calma e non vanno razionalizzate. La razionalità sta alle emozioni come l’acqua all’olio, al più le fa galleggiare. Ciò che serve con le emozioni è un contenitore diverso, più vicino  alla loro forma vitale. Come hanno dimostrato secoli di poesia, di pittura e di musica il miglior contenitore per un’emozione è un’immagine.

Fate una prova: se state un po’ di tempo con un’emozione compare un’immagine che l’accompagna, qualcosa che la rappresenta e che in genere dà origine ad una storia. Stanno insieme come in un film o in un mito perché si evocano a vicenda. E se, come si fa in terapia, avete la pazienza di aspettare (se siete pazienti), quando esce l’immagine e quando inizia la storia, l’ansia se ne va, il sollievo arriva da solo, lo spazio si allarga.

Vi lascio con un’immagine proposta da Hillman che proprio di questo stare con le emozioni parla: “Dei centauri si diceva che fossero capaci di catturare tori selvaggi, esprimendo con ciò l’idea che un’emozione allo stato selvatico può essere addomesticata da un’emozione cosciente, ovvero ‘le emozioni possono essere curate solo attraverso le emozioni’. E fu un centauro, ci racconta la mitologia, a insegnare al genere umano i rudimenti delle arti, della musica e della medicina, come a dire che le origini della possibilità di guarire il nostro malessere emotivo si trovano nell’unione della mente con la carne, della saggezza con la passione.”

Risonanza limbica

Dove tu sei, là c’è un posto”
R. M. Rilke

Risonanza limbica è un termine usato raramente in psicologia. Normalmente si preferisce parlare di risonanza empatica o emozionale per definire quella capacità che gli individui (non tutti) sviluppano e che permette loro di mettersi nei panni dell’altro e sentire/intuire ciò che sente.

Anch’io di solito opto per il sostantivo empatia e, con quello, intendo l’atto con cui ci si sintonizza con le emozioni e con il sentire di qualcuno per con-fondersi un po’ con lui, per provare ciò che prova ed approssimare il suo modo di emozionarsi.

Mettere l’accento su “limbico” è un modo per evocare il luogo in cui i processi dell’empatia principalmente avvengono: il sistema limbico, quella parte profonda del cervello che, a spanne e per i nostri scopi circoscritti a questo post, possiamo dire che risponde al mondo distillando le percezioni e aggiungendo una tonalità emotiva, una sorta di risposta preventiva: un primo “mi è affine-lo prendo/che brutto-non lo voglio”.

E’ anche molte altre cose e vi basta andare su Wikipedia per avere un assaggio delle parti che lo compongono e delle svariate funzioni che vi si svolgono anche ora mentre leggete.

Qui mi interessa partire dall’idea di “posto”. Limbico deriva da limbo che in latino significa lembo, margine e che, in origine, era letteralmente un luogo di confine: un posto poco definito ai bordi dell’inferno né brutto né bello, qualcosa come una sala d’attesa in cui si aspetta stando sospesi.

Il confine è una terra di nessuno e se non lo si passa, se si sta troppo a lungo sul bordo, si smette di essere qualcuno/qualcosa di ben definito.

E’ una strana condizione con i suoi pro e i suoi contro. Continua a leggere

Mandala

“Mentre restaurava i mobili e li disponeva nella stanza,
era se stesso che lentamente ridisegnava,
era se stesso che rimetteva in ordine,
era a se stesso che dava una possibilità”
J.E.Williams

La frase dell’incipit è tratta dal romanzo Stoner.
Il protagonista sta preparando una stanza della nuova casa per farla diventare il proprio studio. Lavora in un luogo che vuole rendere bello e confortevole e… si rende conto!

L’autore, che sembra vivere insieme a Stoner la trasformazione in atto, dice: “Mentre sistemava la stanza, che lentamente cominciava a prendere forma, si rese conto che per molti anni, senza neanche accorgersene, come un segreto di cui vergognarsi, aveva nascosto un’immagine dentro di sé. Un’immagine che sembrava alludere a un luogo, ma che in realtà rappresentava lui. Era dunque se stesso che cercava di definire, via via che sistemava lo studio”.

È un momento di consapevolezza, uno di quegli istanti in cui ci si trova davanti ad uno specchio, ci si accorge di averlo costruito, di riflettercisi dentro e di vedere qualcosa che, prima, sfuggiva.

Il luogo diventa un riflesso dell’identità e in quel momento abitare ed essere coincidono: stare diventa sostare in se stessi, sentirsi e individuarsi.

Può accadere in uno spazio tridimensionale e, in quel caso, è il luogo fisico che ci circonda a diventare l’ambito del nostro esserci. Ma la stessa cosa cosa può accadere con altri oggetti e possiamo sentirci a casa in un quadro, in un libro, in un piatto appena cucinato.

Mettiamo una parte di noi in qualcosa che sta fuori e al quale aggiungiamo… vita.

Troviamo profondamente significative pagine che altri scorrono distrattamente o siamo catturati da immagini che in noi risuonano familiari perché evocano qualcosa che sentiamo nostro ed è come se ci completassero dandoci la possibilità di ri-conoscerci. Continua a leggere