Author Archives: drdedalo

Ciò nonostante la bellezza perdura

“ Nel gioco a somma zero dell’invidia,
 c’è il mito che, se qualcuno ha qualcosa
di buono l’altro è sminuito”
G.O.Gabbard

Nell’introduzione al suo libro Mente e Natura Gregory  Bateson diceva: “Pare che esista una sorta di legge di Gresham dell’evoluzione culturale, secondo la quale le idee ultra-semplificate finiscono sempre con lo spodestare quelle più elaborate, e ciò che è volgare e spregevole finisce sempre con lo spodestare al bellezza. Ciò nonostante la bellezza perdura.” 

La legge di Gresham, che era un mercante e banchiere inglese del XVI secolo, afferma che la moneta cattiva scaccia quella buona. Ai tempi circolavano monete il cui valore nominale era pari al loro contenuto in oro o in altri metalli preziosi e gli operatori di cambio, ma anche i privati cittadini, tendevano a tenere per sé quelle non danneggiate e a mettere in circolazione quelle più usurate o a cui erano state limate via piccole quantità di metallo. Succedeva così che, a lungo andare, le monete che restavano in circolazione avessero un valore intrinseco più basso di quello nominale. 

Chi è interessato ad approfondire l’aspetto economico e sociale di questo fenomeno trova qui altri dettagli.

Di banchieri e del loro cuore e di economia e di valori in questi giorni si fa un gran parlare e il fatto che mi sia venuta in mente e che condivida con voi l’affermazione di Bateson sulle idee ultra semplificate e sul pericolo che per la bellezza possono rappresentare, dice un po’ di cosa penso su ciò che sta accadendo. Ma rimango nel mio ambito  e credo che il mio compito sia più quello di riflettere su cosa accade nella psiche di tutti noi: cosa accade alla bellezza? Quali forze fanno pendere la bilancia dalla parte della semplificazione? Cosa fa scomparire la bellezza  (temporaneamente?) nello sfondo?

Secondo la psicoanalisi l’invidia è un sentimento universale. Nasce o si manifesta molto presto nell’infante che sente di essere esposto e senza risorse in un mondo di adulti che invece, nella visione primitiva che può avere un neonato, sembrano possedere tutto: tutto il cibo, tutto il contenimento e l’affetto di cui lei/lui hanno bisogno. Un cucciolo di homo sapiens nasce incredibilmente prematuro e a differenza dei piccoli di altre specie per anni ha bisogno dell’assistenza dei propri caregiver. Ho letto resoconti di esperimenti piuttosto crudeli che “dimostrano” la reazione di invidia in un bambino molto piccolo sottoposto alla scena di un adulto che dà un dolcetto o un giocattolo ad un suo coetaneo senza controbilanciare con qualcosa anche per lui. Ma, lasciando perdere le dimostrazioni di comportamentisti sadici, credo che ognuno di noi possa trovare nella propria memoria un momento in cui ha provato il morso dell’invidia. Quel sentimento che Melanie Klein definì  l’odio per l’oggetto precedentemente erotizzato: quell’insieme di emozioni che accompagnano il senso di vuoto e quella protesta rabbiosa che suona come un “e io? Perché lui sì e io no? Cos’ha lui che io non non ho per meritare il dono, l’oggetto, l’amore…?”

Ce l’avete presente, vero? 

L’invidia è un sentimento universale che contiene quelli che la psicologia buddista definisce i tre veleni: l’avidità, l’avversione, l’ignoranza. Credo che sia uno dei sentimenti maggiormente responsabili della scomparsa della bellezza!

Uno dei modi per aiutare una persona a riflettere su un sintomo è quello di chiederle in che modo potrebbe costruirlo. Prendete l’invidia e provate a pensare agli ingredienti che servono per soffrirne. Oppure immaginate una platea che vorreste rendere invidiosa. Vi servirà un pò di avidità: potreste convincerli del bisogno assoluto di qualcosa, della sua irrinunciabilità… Poi dovrete aggiungere dell’avversione ed evidenziare quanto quella cosa che scarseggia è già nelle mani di qualcun’altro o, meglio ancora, quanto qualcuno che manco conoscono potrebbe rubare quel poco di risorsa che scarseggia e di cui loro hanno estremo bisogno. Infine sarà importante condire il tutto con un bel po’ di ignoranza. Per farlo davvero bene sarà importante costruire un modo di pensare che privilegi le idee ultra semplificate, quelle che arrivano direttamente alla pancia della gente: qualcosa che indigni o una bella generalizzazione che divide il mondo in buoni e cattivi, amici e nemici, vittime e carnefici. A quel punto per verificare il livello di invidia raggiunto potrete testarli chiedendo loro quanto è bello o brutto il mondo in cui vivono. Se la bellezza comincia a scomparire potrete vendere una ricetta facile che se applicata alla lettera li aiuterà a far scomparire i nemici, assicurare loro buon accesso alle risorse e farli sentire davvero intelligenti ad avervi dato ascolto. 

Se invece dicono che c’è ancora della bellezza in giro e che si potrebbe provare a lavorare con ciò che c’è per evidenziarla e per condividerla, beh, allora dovrete di nuovo insistere sul mito che “se qualcuno ha qualcosa di buono l’altro è sminuito”. Dovrete mettere in circolo un altro bel po’ di avidità, avversione e ignoranza.

Naturalmente potreste anche lavorare per far circolare idee più elaborate. Ma quello è un lavoraccio, chi ve lo fa fare? 

Versatilità

“Dovrebbe sempre star socchiusa l’anima”
Emily Dickinson 

Secondo l’antica filosofia Cinese la primavera corrisponde al periodo dell’anno dominato dal Tuono: la forza che in questa stagione dà una sorta di scossa alla natura determinando un risveglio, un rimettersi in movimento, un nuovo inizio. 

Osservando il cielo, la terra, gli elementi e il susseguirsi delle stagioni i saggi del tempo, un po’ come i primi filosofi greci, cercavano di leggere il mondo e trovare dei principi che aiutassero l’uomo ad armonizzarsi con lo scorrere delle cose. 

L’I Ching, il Libro Dei Mutamenti, è insieme al Tao Te Ching uno dei testi fondamentali del pensiero filosofico cinese. In occidente la sua prima diffusione al pubblico è stata resa possibile solo grazie alla traduzione in tedesco di Richard Wilhelm, un missionario che, dopo anni di soggiorno in Cina e dopo aver profondamente assimilato la filosofia neo-confuciana, ci offre un testo leggibile, in grado di trasmettere le profonde idee filosofiche contenute nel libro.
Poi, nel 1950 con la traduzione dal tedesco in Inglese, curata da Baynes e fortemente incoraggiata da C.G. Jung, l’I Ching diventa davvero popolare. 

La prefazione di Jung all’edizione Inglese è un vero saggio di Psicologia e un tentativo (molto Junghiano) di far capire come un testo oracolare non sia solo un cumulo di superstizioni ma un modo profondo di parlare alla psiche e di usare certe immagini per permetterci di sopravvivere e di cavarcela in un mondo che non è mai ordinato o, quando lo è, è comunque in movimento verso un nuovo momento di caos, verso un nuovo mutamento. 

Ho visto usare l’I Ching in molti modi, alcuni molto stupidi. Io stesso a volte ho preteso di aprirlo per trovare una risposta in un momento d’ansia come se stessi interrogando una qualche entità superiore ma senza aver nemmeno posto una vera domanda, senza essermi prima davvero chiesto “cosa cerco?”.

Il mutamento a cui il termine I (o Yi) di I Ching si riferisce “… non è l’ordinato avvicendarsi delle stagioni o la crescita di un organismo o i cambiamenti che avvengono in una persona con il passare del tempo”. Per quel tipo di cambiamenti nessun oracolo andrebbe scomodato perché possono essere visti come un naturale progredire: “quando negli anni, mesi e giorni, la stagione non ha yi, i cereali maturano in abbondanza, il governo è illuminato, le persone di talento occupano posti di responsabilità e la casa è in pace e prospera.” Ma non sempre (o quasi mai) è così: “quando negli anni, mesi e giorni la stagione ha yi, i cereali non maturano in abbondanza, il governo è inefficiente e corrotto, le persone di talento sono relegate in posizioni marginali e la casa non è in pace.” (The Book of Documents, Stoccolma 1950)

Lo yi corrisponde insomma al movimento caotico, al precipitare delle cose al tuono che scuote ma non in modo armonico come dovrebbe succedere in questa stagione, o all’acqua che invece di scorrere e fluire scroscia e travolge. “Stagione” sta per momento con una certa qualità, periodo caratterizzato da un particolare movimento. Ciò che l’I Ching tenta è una descrizione del momento e allo stesso tempo la creazione di una cornice che permetta a chi chiede di riflettere e di sintonizzarsi. I e yi indicano il movimento caotico ma anche l’atteggiamento necessario ad affrontarlo. Possono essere tradotti con il termine versatilità e l’I Ching è il Libro della Versatilità.

Sarebbe bello se in questo tremendo momento, in questa folle stagione, solo il tuono che spinge le cose a germogliare fosse all’opera. Non occorrerebbero particolari oracoli se non quelli che ognuno di noi potrebbe interrogare per le piccole cose o per i drammi personali che comunque possono scuotere le nostre vite. Ma c’è un caos ben più vasto in cui siamo immersi. 

Riflettevo in questi giorni sulla fortuna mia e di tante persone che conosco che, pur con i nostri dolori personali e con le dissonanze che accompagnano la vita di ognuno di noi, possiamo fermarci a riflettere sui nostri guai. E riflettevo sul rimbombo che qua è per ora e per fortuna solo inquietudine e sottofondo; su quanto sia in grado di perturbare la psiche di noi che tutto sommato siamo ai margini della tragedia e fuori dal temporale. A quanto intollerabile caos sono sottoposte persone come noi che si ritrovano in un mondo di colpo inospitale e pericoloso? Quanta versatilità è chiesta a chi deve affrontare un simile dramma? 

Certe cose sono difficili anche da pensare e si sentono così tanti giudizi sparati con malcelata presunzione e con la pretesa di sapere cosa andrebbe fatto. Credo che, qua, ai margini del temporale e per il momento al sicuro ci sia spazio per chiederci cosa dovremmo chiederci. La versatilità, per chi può permettersela, è la capacità di soffermarsi a percepire il mondo e pensare a fondo prima di agire considerando il contesto e la quantità di ordine e di caos presenti nel sistema in cui si è immersi. Chi deve scappare o attaccare o stare immobile e nascosto non può permettersi questo lusso.
Noi ancora sì! Cosa dobbiamo chiederci? 

Una delle caratteristiche che più contraddistingue le personalità antisociali è proprio la mancanza di versatilità: sono sempre pronti a rispondere e si pongono pochissime domande, sembrano molto sicuri e si comportano come se lo fossero perché credono che il mondo sia leggibile e facile da dominare. 

Noi che possiamo permettercelo dovremmo coltivare l’opposto.

Rifugio dalla tempesta

“Il mondo non chiede che si creda in esso;
chiede che ci si accorga di esso, che lo si
apprezzi e che si abbia per esso attenzione e cura”
James Hillman

Mi imbatto in molte tempeste mentre svolgo il mio lavoro. Ci sono le intemperie in cui i pazienti incappano: le avversità della vita, i dolori e le offese che costellano i rapporti umani, i lutti, gli abbandoni… E ci sono le tempeste interne: i disturbi, i sintomi, gli scompensi della psiche e della chimica del cervello, quelli per cui, a fianco della psicoterapia, occorre a volte aggiungere un farmaco. Provo con loro a costruire un rifugio, a trovare uno spazio che sia un riparo dal mondo quando è troppo ostile o dall’interno quando l’ordine diventa disordine e la mente sembra “lavorare contro”.
Poco più di un mese fa ho scattato questa foto:

Raffigura Dioniso tenuto in braccio da Sileno, un personaggio della mitologia greca a cui, si narra, Hermes diede in custodia il giovane dio.

La statua è una copia Romana del secondo secolo di un originale greco di Lisippo di circa 500 anni prima. Ciò che mi ha colpito, oltre alla bellezza dell’opera, sono la tenerezza dell’abbraccio e dello sguardo, l’attenzione che il satiro pone nel gesto e  la prossimità tra le figure, la vicinanza più che fisica tra due archetipi: il vecchio selvatico e il bambino/dio.
Dioniso è davvero uno strano dio. In lui sono presenti innumerevoli contraddizioni: è maschile e femminile allo stesso tempo, può generare ebbrezza e liberare i sensi ed è così pieno di energia da essere collegato al principio che fa scorrere la linfa negli alberi; è comico e tragico, caotico e portatore di un ordine diverso. 

In questa statua  se ne sta in braccio a Sileno che rappresenta un po’ il suo terzo grembo. Il piccolo Dioniso è passato attraverso più di una tempesta: la madre biologica, Semele, ha la sfortuna di accoppiarsi con Zeus e di rivederlo in tutta la sua potenza quando la gravidanza è al sesto mese, non sopportando l’esposizione al dio muore e Zeus decide di portare avanti la gestazione facendosi impiantare il feto in una coscia. Al parto il padre degli dei lo chiama Dioniso che significa nato due volte o il bambino della doppia porta

Proprio come certi pazienti Dioniso è sopravvissuto alla tempesta ed egli stesso è una tempesta. Incontenibile. Come un istinto, una pulsione, un vizio. Come una passione, come una mania.  O come la palude della depressione in cui può finire chi rischia di soccombere di fronte alle difficoltà o chi prova come lui a curarsi con una delle tante droghe che promettono un sollievo. Incontenibile finché non trova rifugio dalla tempesta.
Proprio come Dioniso i pazienti (e chi non lo è o non lo è stato) hanno bisogno di più di una nascita. È più somigliano a Dioniso, più sono “portatori di tempesta”, di disordine e di profonda e caotica energia più chi prova ad accoglierli deve chiedersi cosa dà rifugio? Come si fa a darlo quando la tempesta è più dentro che fuori? Basta essere accoglienti? 

Ci sono varie teorie. Varie ipotesi su come sia meglio aiutare chi soffre per qualcosa che lo pervade e che non sa controllare. Visioni del mondo che passano dal “all you need is love” alla camicia di forza, idee di contenimento che ragionano sul setting: quante volte alla settimana Dioniso può accettare di sedersi di fronte ad un terapeuta? Basta la stanza di seduta o serve una struttura, una comunità, un reparto? 

Ogni caso è a sé e con ogni persona si può riflettere su come si possa contenere l’incontenibile.

La statua dell’immagine è stata più volte restaurata. In 2500 anni sono andate perse le dita di Sileno, i nasi, una coscia… ma, proprio come la Nave di Teseo, nonostante le perdite e le aggiunte, nonostante gli insulti del tempo i passaggi da un luogo ad un altro, l’anima dell’opera è rimasta.
Guardate come Sileno, non esattamente un dio, più una forza della natura, forse un figlio di Pan, più selvatico che domestico, uno a cui non credo vorremmo dare un figlio da accudire, guarda il bambino.

Lo sguardo è rimasto intatto nel tempo ed è ciò che la statua comunica. Credo che tutti cerchiamo uno sguardo così! È quando lo troviamo e quando riusciamo a darlo che la tempesta almeno un po’ si placa!

Ascolto Predatorio

“Knowledge is not free. You have to pay attention”
R.Feynman

Ho lasciato in lingua originale la frase dell’incipit perché, anche se in italiano tradurremmo correttamente con “la conoscenza non è gratuita, occorre prestare attenzione”, l’inglese “pay attention” dà davvero l’idea del prezzo da pagare e della moneta di scambio che bisogna mettere sul tavolo se si vuole ottenere qualcosa nello studio di un materiale o nello scambio/comunicazione tra persone.

Paghiamo con l’attenzione: ci impegniamo per comprendere e per uscire con qualcosa di buono dal lavoro di apertura che compiamo ogni volta che ci confrontiamo con un altro, ogni volta che entriamo in relazione. 

Tranne quando ascoltiamo solo per vincere, per prevalere, per avere ragione. 

Ascolto predatorio è il nome che è stato dato a questa modalità di relazione che sembra una partita di tennis in cui l’obiettivo è quello di segnare un punto il prima possibile e scoprire il punto debole dell’altro per metterlo alle strette e sconfiggerlo velocemente.

Ho letto qualche giorno fa un breve articolo che ne parla e l’ho tradotto per voi. Sapete che uno degli argomenti su cui più insisto nei miei post è proprio quello che riguarda il buon uso dell’attenzione: l’essere consapevoli-stare attenti al modo in cui ci si protende o ci si allontana da ciò con cui si entra in relazione. Per chi fa il mio lavoro è ovvio (dovrebbe esserlo!). Credo che molto dolore possa essere alleviato da un ascolto diverso da quello predatorio che troverete definito in questo articolo e penso che alcuni dei rimedi di cui l’autore parla andrebbero adottati come dei veri antidoti a molti dei veleni che circolano nel sistema in cui siamo immersi.

Chi preferisce l’inglese lo trova qui.

Difendersi dall’Ascolto Predatorio
di Oren Jay Sofer, 18 Febbraio 2021

È stato come pestare la parte sbagliata del rastrello.

Un mio parente mi ha chiesto un’opinione ma appena gliel’ho data si è lanciato in quello che sembrava un discorso fatto apposta per dissentire su ogni cosa che avevo detto e per criticare il mio carattere. Mi sentivo come se fossi caduto in una trappola.

Vi è mai capitata un’esperienza simile? State conversando ed è come se il vostro interlocutore stesse aspettando il più piccolo pretesto per saltarvi addosso, dimostrare che avete torto, sostenere il suo punto di vista o asserire la propria convinzione.

O magari siete stati voi “quel tipo di interlocutore”. Di sicuro io lo sono stato. Se sono arrabbiato, turbato o addolorato, mi viene la tentazione di ascoltare con un focus ipercritico invece che con curiosità. Se non sto attento la mia mente passa in modalità offensiva, pronta a costruire un caso selezionando solo le cose che convalidano la mia narrazione.

Questo fenomeno è noto come “ascolto predatorio” e nella modalità discorsiva odierna, tesa e frammentata, è diventato molto comune sia a sinistra che a destra e un po’ ovunque. L’ascolto predatorio può avere molte forme: ascoltare focalizzandosi sul trovare l’errore o il pretesto per litigare; stare in attesa di qualcosa per cui sentirsi offesi; cercare deliberatamente di beccare qualcuno in fallo; ascoltare solo per raccogliere elementi per obiettare o contestare.

I costi di questo modo di relazionarsi possono essere molto alti. L’ho visto fare a pezzi famiglie e trasformare sedi di attivisti in plotoni di esecuzione circolari. E non importa se viene da sinistra o da destra. Che si tratti di teorie di cospirazione, dogmatismo o moralismo le dinamiche sono le stesse: una miscela di fissazione mentale e volatilità emotiva, un’intensa pressione interiore che spinge ad asserire i propri punti di vista in modo conflittuale e il profondo desiderio di avere ragione. I bisogni dell’“ascoltatore” mettono in ombra valori relazionali quali la comprensione, la connessione, la cura o la mutualità. Nessuno vince.

Come possiamo gestire al meglio questo comportamento quando si presenta?

Quando sento crescere in me la tendenza a comportarmi in questo modo riconosco che ci vuole molta consapevolezza e controllo per sopportare il disagio della pressione interna a parlare senza sfogarla. Ma se riesco a fermarmi abbastanza a lungo da considerare il mio scopo, le cose cominciano a cambiare. A cosa sto davvero mirando? Voglio che questa persona consideri un altro punto di vista? Che cambi il suo comportamento? Se quello che sto cercando è un qualche tipo di comprensione o trasformazione è spesso più efficace uscire dalla modalità offensiva di predazione e passare ad un atteggiamento di curiosità e connessione.

Quando l’ascolto predatorio compare negli altri, suggerisco le seguenti strategie.

La prima cosa da sapere è che demonizzare questo comportamento o sfidarlo apertamente non risolverà il problema. Non si può combattere l’ascolto predatorio argomentando. È come buttare benzina sul fuoco: brucerà solo più furiosamente.

Quindi per aggirare questo modo di relazionarsi abbiamo bisogno di uscire dal gioco di chi ha ragione e chi ha torto e mettere l’attenzione su cosa sta succedendo a livello umano.

Molti modelli culturali e psicologici ci insegnano che ogni comportamento umano può essere ricondotto a più profondi e universali desideri radicati nel bene. E se sotto a tutto quel vetriolo ci fossero valori e vulnerabilità di cui la persona non è magari del tutto consapevole? Per esempio potrebbe esserci un bisogno di essere visti o un desiderio di essere considerati e di avere voce. Potremmo scorgere un forte impegno ad essere onesti, giusti, dediti alla comunità o alla famiglia. O potrebbero esserci dolorose cicatrici di ferite emotive, personali o collettive, che reclamano empatia.

Allora, invece di discutere, invitiamo l’altra persona a condividere di più. Se ciò di cui ha veramente bisogno è esprimersi e sentirsi ascoltato, dategli l’opportunità di farlo (a meno che questo non danneggi voi o qualcun altro). Ascoltate ciò che è importante per lei. Cosa le interessa? Cosa la appassiona? Riconoscete le intenzioni positive, i valori o i bisogni che scorgete in ciò che dice.

Potete anche chiedere direttamente qual è il suo obiettivo. Io direi una cosa tipo: “Ho l’impressione che tu ci abbia pensato molto e che tu abbia delle opinioni molto chiare. Cos’è che vorresti che io sapessi o capissi? Dove vogliamo arrivare?” Oppure: “Cosa posso fare che sia d’aiuto in questo momento?” A volte una domanda diretta e onesta può smascherare la finzione che si tratti di un dibattito, rivelare cosa sta accadendo e porre fine alla discussione o aprire spazio per nuove possibilità.

Naturalmente ci vuole consapevolezza (mindfulness), forza e presenza per resistere alla tentazione di buttarsi nella mischia, di fare a pezzi il ragionamento dell’altra persona o fargli notare quanto possa essere dannoso il suo approccio. E, se il discorso diventa pericoloso, può essere che sia il caso di togliersi dalla situazione. Soprattutto se siete i destinatari di questo tipo di comportamento cercate di non prenderla sul personale, prendetevi cura di voi stessi e ricordatevi che rendere l’altro un nemico non serve a nulla e non fa bene al vostro cuore.

Oren Jay Sofer è uno stimato insegnante di meditazione, di mindfulness e di Comunicazione Non Violenta. Collabora attivamente con l’App Ten Percent Happier. È un membro del corpo insegnanti dello Spirit Rock, tiene un corso in Religioni Comparate alla Columbia University ed è l’autore di “Say What You Mean: A Mindful Approach to Nonviolent Communication” e coautore di “Teaching Mindfulness to Empower Adolescents”. Inoltre insegna online nei corsi di Mindful Communication.
Social: @Orenjaysofer

Broken Hallelujah

“C’è una crepa in ogni cosa. È così che entra la luce”
Leonard Cohen 

Foto di Harry Smith da Pexels

Se dovessi dedicare una canzone al 2020 che pezzo sceglieresti? Lo chiedeva non ricordo chi recentemente su Twitter. Non ho dovuto pensarci molto perché da giorni pensando a questo assurdo, per certi versi terribile e di certo insolito anno, mi viene in mente l’“Hallelujah” di Leonard Cohen. È una canzone del 1984. Ai tempi, non si poteva semplicemente googlare “lyrics…” per trovare il testo di un brano e ricordo i miei sforzi per capire cosa Cohen dicesse e per dare un senso a ciò che sentivo e che, anche  se non del tutto capito, toccava in me corde profonde. Ora è facile leggere ogni strofa e trovare anche molte di quelle che l’autore ha scritto ma non ha messo nella maggior parte delle versioni. E c’è un suo commento che dice molto sul significato di questa canzone: 

«Questo mondo è pieno di conflitti e pieno di cose che non possono essere unite ma ci sono momenti nei quali possiamo trascendere il sistema dualistico e riunirci e abbracciare tutto il disordine, questo è quello che io intendo per alleluia. La canzone spiega che diversi tipi di alleluia esistono, e tutte le alleluia perfette e infrante hanno lo stesso valore. È un desiderio di affermazione della vita, non in un qualche significato religioso formale, ma con entusiasmo, con emozione. So che c’è un occhio che ci sta guardando tutti. C’è un giudizio che valuta ogni cosa che facciamo.»

Le alleluia perfette e quelle infrante (broken)! Ecco: credo che “infranto/spezzato/ rotto” siano ottimi aggettivi per l’anno che sta finendo.

C’è sicuramente una crepa nel 2020 e non c’è nessun bisogno di spiegarla. Anzi, è stata spiegata fin troppo! Ho letto fiumi di parole e di commenti sui morti, sul vaccino, sul virus, sui “numeri”, ecc. Visti con gli occhi di uno che fa lo psicologo la maggior parte di queste opinioni e di questi giudizi non sono che una difesa: un modo per non guardare la crepa, un espediente comprensibile e a volte molto stupido per evitare l’angoscia. Davvero troppi giudizi. Affrettati e reattivi, non pensati, inconsistenti. Dice giusto Mafe de Baggis nel suo ultimo libro: “Il giudizio è il veleno che uccide la creatività. È un diserbante, un acido, una tossina. Avere una parola cattiva per tutti (gli altri) e tutto è il malcostume contemporaneo che, in cambio di una risata facile e di un senso di superiorità volatile, ci sottrae idee, soluzioni e un futuro migliore.”  E sottrarci idee, soluzioni e un futuro migliore è proprio ciò di cui non abbiamo bisogno. 

L’occhio che ci guarda tutti di cui parla Cohen, il giudizio che valuta ogni cosa che facciamo, non è un dio astratto e lontano che ci punirà o ci premierà. È, invece, la nostra capacità di cercare un senso e un rimedio, di sospendere il giudizio superficiale per giungere a una visione intelligente: quella che vede la crepa ma anche la luce che da essa entra.  

Non occorre credere che l’occhio che ci guarda sia esterno per sentire l’Imperativo Etico, quello che Heinz von Foerster definì come l’intento e la determinazione di agire sempre in modo da aumentare il numero delle possibilità. 

Quando state per sparare il prossimo giudizio (lo facciamo tutti in automatico, più volte al giorno), chiedetevi quanto quella sentenza allarga il numero delle possibilità. Apre verso qualcosa? Abbraccia il disordine per porvi rimedio o si limita a criticare e a “mettere in risalto la crepa”/indicare il difetto? 

Quanta luce trapela dall’anno che ci stiamo lasciando alle spalle? Può essere riconosciuta, raccolta, usata?

Buon 2021! DrDedalo

Perfezionismo malsano

Quando la tempesta sarà finita, non saprai
 neanche tu come hai fatto ad attraversarla e a uscirne vivo.
 Anzi, non sarai neanche sicuro se sia finita per davvero.
 Ma una cosa è certa.
Ed è che tu, uscito da quel vento,
non sarai lo stesso che vi è entrato.
Haruki Murakami

Ho letto recentemente un articolo di Margaret Rutherford sul Perfezionismo Malsano e su quella che questa autrice chiama Depressione perfettamente nascosta. L’ho trovato molto interessante perché penso che, anche a causa del momento storico che stiamo vivendo, la richiesta più o meno soggettiva di perfezione e il continuo sforzo di essere all’altezza delle aspettative nostre ed altrui, sia una delle trappole in cui gli adulti e ancor di più i ragazzi/e possono cadere.  

Qui di seguito troverete la traduzione che ho fatto per voi e per i miei pazienti dell’articolo integrale (chi preferisce l’inglese lo trova qua).

È abbastanza lungo (non da leggere tutto d’un fiato) e abbastanza “americano”: molto esplicativo, con tanto di elenco dei tratti necessari alla diagnosi della sindrome e di esercizi per prendere consapevolezza e cominciare a fare qualcosa a riguardo. Può darsi che lo troviate un po’ ridondante ma lo consiglio caldamente soprattutto a chi ha figli e ai caregiver in generale. Mi sono già state fatte delle domande sui contenuti che troverete da persone con cui ne ho parlato e che l’hanno letto e ho deciso che risponderò in un podcast nei prossimi giorni. Sarà una sorta di amplificazione di alcuni punti con l’aggiunta di qualche esempio e di una visione un po’ più psicodinamica: più incentrata sul versante psichico interno che sul comportamento esterno. Sapete che sono un sostenitore dell’idea Batesoniana che “due descrizioni sono meglio di una”, due vertici da cui guardare aiutano nella percezione di “profondità” di un argomento. 

Se leggendo l’articolo anche a voi vengono delle domande mettetele nei commenti.
Mi aiuteranno nella riflessione e cercherò di rispondere nel podcast.
Buona lettura! 

Come superare il “non è mai abbastanza”

Imparare a riconoscere il perfezionismo malsano, capire le sue fonti emotive e trovare un modo per mettere a tacere la voce autocritica che ne deriva

di Margaret Rutherford

Cosa devi sapere

“Se vale la pena farlo, vale la pena farlo bene”. Quante volte l’ho sentito dire da piccola? I miei genitori cercavano di insegnarmi (nel caso in cui non l’avessi assorbito dalle loro azioni) l’importanza della ricerca dell’eccellenza. Incoraggiavano quello che alcuni psicologi chiamano “perfezionismo costruttivo” o “sano perfezionismo” – un tratto della personalità associato alla ricerca del piacere e all’idea di potersi realizzare nella vita facendo le cose al meglio. Con il “perfezionismo costruttivo” o “perfezionismo positivo” l’attenzione è orientata al processo; si impara dagli errori e addirittura dal fallimento. E’ generalmente considerato un tratto benefico della personalità legato all’essere coscienziosi e auto-disciplinati.

Tuttavia il perfezionismo può avere un lato oscuro. L’autrice americana Brené Brown nel suo primo libro “The Gifts of Imperfection” ha definito questo tipo di perfezionismo come “un sistema di credenze auto-distruttivo, che crea dipendenza e che alimenta una modalità di pensiero primario che dice: se sembro perfetto, vivo perfettamente e faccio tutto alla perfezione, posso eliminare i sentimenti dolorosi di vergogna, giudizio e colpa”. Questa forma di perfezionismo, nutrito da un sentimento di vergogna interiore che deve essere placato, ci costringe a tentare continuamente di soddisfare le aspettative connesse alla nostra idea di “cosa è perfetto”. Questo perfezionismo non è appagante ed è tutt’altro che piacevole. Eppure molte persone sentono l’obbligo di apparire come se tutto ciò che le riguarda fosse perfetto e considerano che non farlo mette in evidenza l’imperfezione.

Nella letteratura psicologica questo tratto è conosciuto come “perfezionismo malsano” o “perfezionismo distruttivo”. In questo tipo di perfezionismo ciò che conta non è il processo ma il risultato. Chi ne è affetto pensa solo all’obiettivo e da esso è guidato e ne subisce la pressione. Credo che stia contribuendo sempre più ai problemi di salute mentale.

Diciamo che i perfezionisti costruttivi, se sono nuotatori, vogliono battere il loro record personale. Questo intento porta con sé molte vibrazioni positive. E’ davvero fantastico vincere una gara!

Ma i perfezionisti distruttivi vogliono essere il nuotatore perfetto. E vincere ogni gara è l’obiettivo; se non lo fanno la vergogna li fa sentire di poco o nessun valore.

Molte persone perfezioniste si posizionano da qualche parte sullo spettro fra questi due poli. Ma nella mia pratica clinica ho notato un altro problema: per ironia della sorte i perfezionisti distruttivi non si riconoscono come perfezionisti perché non pensano che il loro meglio sia abbastanza. C’è sempre il prossimo traguardo da raggiungere. E poi il prossimo e il successivo.

Allora quali sono le radici del perfezionismo distruttivo? Credo che spesso le persone sviluppino questo modo di pensare e di essere quando crescono senza un senso di sostegno, di sicurezza e di nutrimento. Può essere anche una reazione a traumi infantili o ad aspettative culturali estreme dove la vulnerabilità è disprezzata e verso le quali apparire perfetti diventa una strategia obbligatoria per sopravvivere emotivamente.

Nell’ultimo decennio ho curato sempre più persone che non sapevano bene perché fossero venute in terapia. Avevano eretto enormi barriere contro la rivelazione di qualsiasi tipo di dolore emotivo; mi sono addirittura chiesta se avessero la capacità di esprimere certi sentimenti. All’esterno non sembravano affatto depressi; descrivevano i loro problemi più come il risultato di troppo lavoro, della stanchezza e di un’ansia moderata.

La mia interpretazione è che fossero dei perfezionisti distruttivi che stavano esaurendo le proprie forze ma che non capivano cosa ci fosse (e se ci fosse) qualcosa di sbagliato. Il loro dolore emotivo era sapientemente, e spesso inconsciamente, nascosto.

Se avessi chiesto loro se erano depressi avrei sentito una ferma negazione. “Ho troppe cose belle nella mia vita per essere depresso”. Se chiedevo se nella loro infanzia si erano sentiti sicuri e protetti ridevano e negavano o minimizzavano qualsiasi problema. A volte diventavano molto silenziosi e guardavano fuori dalla finestra come se avessero voluto essere ovunque tranne che nel mio studio.

Ma, se tornavano per un po’ di sedute, cominciavano pian piano a prendersi il rischio di condividere una serie di segreti pieni di vergogna. Il loro apparentemente impenetrabile mantello di silenzio scivolava lentamente via rivelando una tremenda solitudine e disperazione.

E in molti casi, mentre abbassavano la guardia, ho scoperto che erano in grado di capire che ciò che era “sbagliato” o malsano non rientrava nella descrizione della classica depressione. Ma era altrettanto reale e altrettanto dannosa.

Ho fatto delle ricerche nella letteratura su perfezionismo, vergogna e paura della vulnerabilità. Ho trovato un gran numero di ricerche e di scritti sull’importanza della vulnerabilità e sul costo della vergogna della già citata Brown, le vecchie riflessioni sulla “depressione nascosta” del terapista famigliare Terrence Real, e il libro Self-Compassion della psicologa Kristin Neff. Ma non ho trovato nulla per il grande pubblico sul rapporto tra perfezionismo e una forma potenzialmente grave di depressione.

Così, basandomi sull’esperienza e sulle storie cliniche dei molti clienti che ho visto nel mio studio in 25 anni, ho formulato le mie idee su questo specifico problema e su come possa essere affrontato nel modo più efficace ed empatico. Il mio lavoro – esposto nel libro Perfectly Hidden Depression (2019) – parla di come la pericolosa depressione alimentata dal perfezionismo può affliggere la vita di una persona; di quanto anche individui con un punteggio basso su un questionario che misura la depressione standard possano vivere portando con sé difficoltà emozionali profondamente radicate ed esperienze traumatiche irrisolte che sono in grado di minare la loro voglia di vivere. Ho chiamato questa sindrome “depressione perfettamente nascosta”.

Ho identificato dieci tratti che si manifestano nel comportamento e nel processo decisionale di persone che mostrano gli indicatori di questa sindrome:

  • Siete estremamente perfezionisti; spinti continuamente da una voce interiore critica che incute vergogna o paura.

  • Dimostrate un elevato o eccessivo senso di responsabilità e ricerca di soluzioni.

  • Avete difficoltà ad accettare o esprimere emozioni dolorose, cercate di rimanere analitici e “chiusi nella vostra testa”.

  • Minimizzate, cercate di ignorare o negate abusi subiti o traumi nel passato o del presente.

  • Vi preoccupate molto (ma nascondete questa abitudine) ed evitate situazioni in cui non siete in controllo.

  • Siete molto concentrati sui vostri compiti e sulle aspettative degli altri, usate il risultato come un modo per sentirvi apprezzati. Ma non appena l’ultimo risultato svanisce ritorna la pressione e tutti i successi diventano scontati.

  • Avete una solerte e sincera cura per il benessere degli altri, ma interiormente ve ne concedete poca, se non nessuna.

  • Siete profondamente convinti di “dover essere grati per quello che avete” e sentite che qualsiasi altro atteggiamento rifletta una mancanza di gratitudine.

  • Avete difficoltà emotive con l’intimità ma siete in grado di raggiungere un notevole successo professionale.

  • Possono associarsi a questi tratti dei disturbi mentali che comportano problemi d’ansia e di controllo come contemplati nel Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC) e nel Disturbo da Ansia Generalizzata (DAG), Panico e Disturbi Alimentari.

Se leggendo questi dieci tratti scoprite che molti o tutti vi corrispondono, sentitevi in qualche modo rassicurati: potrebbe illuminarvi sul perché vi sentite così, sul come mai non sapevate che cosa ci fosse di sbagliato e su perché vi vergognavate anche solo a considerare che ci fosse. Se vi si è accesa una luce – se riconoscete di non accettare di condividere nessuna vulnerabilità: o forse riconoscete questi tratti in qualcun altro, allora come prima cosa: respirate. E sappiate questo: ho scoperto che c’è un antidoto alla depressione perfettamente nascosta: l’accettazione di sé.

Che cosa fare

Se credete di essere un malsano perfezionista e che questa condizione potrebbe mascherare i vostri ben radicati problemi emotivi, vi propongo cinque fasi che potrebbero aiutarvi: consapevolezza, impegno, confronto, connessione e cambiamento.

La prima fase: consapevolezza

Questa fase si riferisce all’importanza di diventare consapevoli innanzitutto del fatto che il vostro perfezionismo è un problema. Anche se il riconoscere i propri problemi fa parte di ogni processo di guarigione emotivo/mentale, questa fase potrebbe essere particolarmente complicata per voi a causa del fatto che vi siete convinti che i vostri tratti perfezionisti sono normali e non sono un problema. Vi chiedereste: “Non siamo tutti così?”. La risposta è un clamoroso: “No”. Inoltre rinunciare o modificare una strategia che vi ha portato al successo esteriore è probabilmente molto difficile. Di fatto il procedimento che usate per evitare ricordi o sensazioni dolorose potrebbe essere diventato qualcosa che fate inconsciamente.

Ci sono vari modi per sviluppare una maggior comprensione del ruolo che il perfezionismo distruttivo sta giocando nella vostra vita. Uno di questi, che potete fare da soli è la mindfulness (attenzione consapevole). Molti autori che scrivono di mindfulness spiegano che non si tratta di una attività in cui bisogna essere sempre concentrati su qualcosa. Essere mindful ha più a che fare con il cambiare il come prestate attenzione. La mindfulness approfondisce la vostra esperienza del presente.

Ecco una semplice tecnica: sedetevi in un posto comodo e tranquillo e mettete un timer per tre o cinque minuti. Respirate profondamente e chiudete gli occhi. State il più focalizzati possibile sui respiri, se serve contateli fino a dieci e poi ricominciate. Se la vostra mente vaga (e lo farà) lasciate andare dolcemente i pensieri che arrivano e concentratevi nuovamente sul respiro. Quando il tempo impostato finisce osservate le vostre emozioni con gli occhi ancora chiusi. Potrebbe esserci irritazione, sollievo, sentirsi ridicoli per ciò che state facendo. Notatele e guardatele dissiparsi.

Per prendere coscienza ci vuole pazienza. Più vi eserciterete in questa pratica, più vi accorgerete di come interagite con il mondo interno ed esterno, svilupperete inoltre una maggiore comprensione di come il bisogno di sembrare perfetti si sia insinuato in quasi tutti gli aspetti della vostra vita.

La seconda fase: impegno

Anche se diventate più consapevoli dei problemi che il perfezionismo vi causa, vi renderete conto che cambiare è difficile. Ironicamente (e distruttivamente) questo può trasformarsi in un altro obiettivo da raggiungere per… essere perfetti. Ho scoperto che ci sono cinque grandi ostacoli da superare per arrivare a mettere in dubbio la presa che il perfezionismo esercita sulla vostra mente e sul vostro cuore:

  1. Essere così dediti al compito che se si vacilla o se non lo si compie perfettamente si lascia perdere o si cerca di non pensarci più.

  2. Iniziare con un obiettivo troppo difficile o troppo vasto.

  3. Andare avanti da soli e non chiedere aiuto nel cammino.

  4. Fare i conti con la paura e la vergogna di dover rinunciare al proprio personaggio pubblico e alle proprie strategie di gestione man mano che lo stress aumenta.

  5. Altri precedenti disturbi mentali, tipo un DOC o disordini alimentari, che potrebbero peggiorare a causa dell’aumento di pressione.

Una delle migliori strategie per superare i primi due potenziali ostacoli è quella di trasformare l’idea di “impegno” in quella di “intenzione”. L’idea di intenzione è meno tirannica di quella di impegno. Contiene più grazia e più perdono (n.d.t.: Pensate alla differenza tra “commitment/impegno”, che implica l’idea di impegnarsi come in una promessa riguardo al raggiungere un obiettivo, e “intention/intenzione” che invece rimanda a interesse, curiosità, voglia di andare verso). Guardando più da vicino il terzo ostacolo provate a fare questo esercizio scritto: riflettete e scrivete i casi che riuscite a ricordare in cui non avete chiesto aiuto ma, col senno del poi, sarebbe stato utile farlo. Ritornate a quel momento e ripensate a quello che avreste potuto dire o chiedere. Provate a dire a voce alta e ad ascoltare cosa avreste detto. Come vi fa sentire? E nel presente in quale situazione potreste chiedere aiuto?

In questo modo aumenterà la vostra consapevolezza di come il bisogno di sembrare in controllo vi abbia impedito di chiedere aiuto. Quando iniziate a fare pratica sul chiedere aiuto fatelo come se fosse un attore che ripassa le proprie battute. Fare questo esercizio può aiutarvi a creare una nuova percezione di voi stessi: una persona che può chiedere aiuto e che lo fa.

Il quarto ostacolo della lista potrebbe essere il più difficile. Abbandonare le vostre tendenze perfezioniste vi farà sentire come se vi toglieste l’armatura mentre siete nel bel mezzo di una battaglia – le avete usate come strategia di adattamento per tanto tempo, anche se erano controproducenti. Tenere un diario è uno dei modi migliori per iniziare a buttare giù sulla carta quando, dove e come si è tentati di rimettersi questa maschera. Sarà più facile prevedere i momenti in cui si rischia di vacillare. Se questo succede ricordatevi delle complesse ragioni che stanno dietro a questo comportamento abituale e cercate di trattarvi in modo compassionevole.

Il quinto punto della lista è un promemoria che vi ricorda che affrontare il vostro perfezionismo non sarà facile e che potreste dover interrompere questo lavoro per un po’ e occuparvi del peggioramento di sintomi clinici di ansia o di altri disturbi. Se siete preoccupati chiedete l’aiuto di un professionista della salute mentale. Ma non demoralizzatevi – ricordatevi che la guarigione è un processo, non una destinazione da raggiungere; avete bisogno di stare al sicuro mentre guarite.

La terza fase: confronto

Parliamo della differenza tra le convinzioni personali e le regole. Le regole che vi date governano il vostro comportamento. E voi accettate le vostre convinzioni come se fossero vere. Le due cose interagiscono ed è probabile che le vostre convinzioni influenzino le regole che vi ponete. Allo stesso tempo le regole che seguite possono limitare o ampliare le vostre convinzioni. Per esempio potreste avere una regola che dice: “Cercherò di essere sempre sorridente”. E questa regola potrebbe essere collegata alla convinzione “Non piacerò alla gente se non sorrido”.

La fase del confronto consiste nell’identificare le regole con le quali vivete, magari senza rendervene conto – ciò che vi permettete o vi proibite, cosa dovreste fare, cosa dovete fare, cosa si dovrebbe sempre fare, cosa non bisogna mai fare. Sono sempre nella vostra testa, ma sono ancora regole che volete seguire? Potrebbero essere regole dettate dalla vostra famiglia, dalla cultura in cui vivete, dai pericoli che vi circondano, da ciò che ci si aspetta da voi – potrebbero essere non esplicite ma sottese.

Se decidi che una regola non ti è più utile scrivine una che potrebbe prendere il suo posto. La consapevolezza di poter sostituire una regola con una nuova può essere liberatoria. Potete iniziare a vedere come la vita può essere vissuta con più libertà, e questo può cambiarla.

La quarta fase: connessione

Se avete intrapreso questo viaggio e ne state seguendo le fasi può essere che stiate diventando molto più consapevoli della vostra vulnerabilità. Può essere terrificante pensare di entrare in contatto con sentimenti che avete a lungo soppresso. Potreste aver pensato che sembrare in controllo, compiacere gli altri, tenere sempre il piede sull’acceleratore, vi abbia protetto. Confrontare a testa alta la vergogna, entrare in contatto con la rabbia, ammettere la fatica, potrebbe farvi sentire fin troppo esposti.

Pensate a una tartaruga. Ad ogni segno di pericolo tira dentro la testa e aspetta. Allo stesso modo se siete inclini al perfezionismo distruttivo, causato da un passato difficile, è probabile che anche voi tendiate a ritirarvi nel primo guscio che trovate quando si risvegliano sentimenti dolorosi.

Il libro di Terrence Real I don’t want to talk about it ha una citazione appropriata su questo. Il terapeuta sta parlando della vulnerabilità emotiva con un paziente che sta cercando di capire perché è importante affrontare le proprie emozioni difficili. Questi alla fine dice “O lo senti o lo vivi, giusto? Il dolore: o sentirlo o viverlo. E’ questo che vuoi dirmi, vero?”

Il paziente ha colto il punto: se non ti connetti ed elabori il tuo dolore emotivo, la rabbia o la tristezza, questi governeranno la tua vita in modi che non puoi vedere – finirai per viverla alla cieca.

Se vi sentite sicuri e protetti e avete a portata di mano un aiuto in caso di bisogno, ecco un esercizio che vi aiuterà a connettervi meglio con le vostre emozioni difficili. (Per favore non fatelo da soli se avete un grave trauma nel passato. Avrete bisogno della guida e del sostegno di un esperto per entrare in contatto in modo sicuro con quel dolore).

Create una linea temporale disegnando una riga orizzontale divisa per età (anni): scrivete 2, 4, 8, 12, 20, ecc. Tornate indietro ai vari anni e scrivete le cose buone e quelle dolorose che vi sono capitate. E’ un esercizio di riconoscimento, non di biasimo. Riconoscete il buono, il cattivo e il brutto. Ci vorrà del coraggio per affrontare la negazione che potrebbe ancora emergere e protestare dicendo: “Beh… non era poi così male”. Non vi state lamentando, state riconoscendo le conseguenze emotive o il peso di un evento con la stessa compassione che mostrereste per qualcun altro. Comincerete a vedere schemi e connessioni fra gli eventi. Se tutto va bene questo vi aiuterà ad essere più comprensivi nei vostri confronti.

Questo esercizio può essere molto efficace. Mentre tornate indietro e scoprite le cose che vi hanno reso ciò che siete – sia i doni che avete ricevuto, sia i talenti e le capacità che vi hanno portato a dei risultati positivi – state anche riconoscendo il dolore del passato, quello che avete minimizzato o negato, dimenticato o evitato. Vi state permettendo di riconoscere che siete la somma di tutte le vostre esperienze. L’auto-compassione – riconoscere l’impatto di qualsiasi dolore abbiate provato e offrirvi la stessa gentilezza che avreste avuto per un altro – vi darà forza. Non serve più nascondersi. Potete accettare tutto quello che c’è. E tutto di voi stessi.

Nella precedente fase di confronto e in questa di connessione troverete il “motivo per cui” avete iniziato a dover sembrare perfetti. Usando come fondamenta gli esercizi che avete appena fatto, chiedetevi quali messaggi avete ricevuto nel passato sul vostro valore e su quanto le vostre relazioni erano sicure. E cominciate a capire che non dovete più vivere secondo le vecchie regole o fuggire dal dolore. La connessione con il dolore insegna che potete tollerarlo e che le vostre vulnerabilità non vi definiscono più di quanto lo facciano i vostri successi.

La quinta fase: cambiamento

Nei miei anni da clinica ho imparato i benefici dell’intuizione (che spero sia aumentata anche per voi dopo la fase di connessione e leggendo questa guida). L’intuizione (insight) crea un contesto e una comprensione. Ma la vostra speranza viene da un cambiamento di comportamento, cioè dal vedere i risultati positivi degli sforzi che state facendo. Questa fase finale è per trovarla.

Ecco quindi un ultimo esercizio: esaminate i dieci tratti che ho elencato e che sono associati alla depressione alimentata dal perfezionismo. Con degli amici fidati, con il vostro compagno/a, con un genitore o con un terapeuta, pensate a dei modi specifici per mettere all’opera le vostre intuizioni e rischiate un cambio di comportamento: vivere diversamente ogni giorno, prendere qualche decisione inconsueta, trattarvi con più gentilezza. Scegliete il cambiamento che vi sembra più semplice e provatelo. Non è qualcosa che dovete fare alla perfezione. Ricordatevi che siete in viaggio.

Spesso qualcuno entra in una seduta di terapia esordendo con: “Beh, ho provato a fare qualcosa di nuovo ma non è stato un granché.” Dico loro che ogni cambiamento in una direzione che si desidera è una gran cosa. Questa fase permette di scegliere ogni piccolo passo che si è pronti a fare, che sia dire di no, di permettere a qualcun altro di condurre il gioco o di rischiare di confidarsi con un amico. Vi chiede anche di apprezzare appieno questi cambiamenti.

Punti chiave

  • Se siete una persona con un tratto di perfezionismo positivo che è orientato al processo e alla ricerca dell’eccellenza, usatelo. Godetevelo e prosperate.

  • Al contrario il perfezionismo distruttivo comporta una concentrazione ossessiva su obiettivi irrealistici e ho individuato una sindrome che chiamo “depressione perfettamente nascosta” in cui lo sforzarsi di apparire sempre perfetti è una strategia controproducente che maschera un passato difficile e una vulnerabilità emotiva. Se vi identificate con questa descrizione sappiate che c’è una via di uscita. Non è facile, ma se siete pazienti con voi stessi potete farcela.

  • Il rimedio che io propongo si basa su cinque fasi interattive: consapevolezza (riconoscere il problema); impegno (superare gli ostacoli al cambiamento); confronto (cambiare le regole inutili con cui si vive); connessione (elaborare i sentimenti difficili che alimentano il proprio perfezionismo); e cambiamento (riconoscere e celebrare i propri progressi).

  • Potreste riconsiderare le relazioni inutili che vi impediscono di ottenere un cambiamento positivo. Potreste per esempio fissare nuovi confini.

  • Vale la pena lottare non nonostante le vostre imperfezioni ma per esse. Vale la pena volersi bene, non per quello che si fa ma per quello che si è.

Per saperne di più

Vari ricercatori in giro per il mondo stanno indagando le cause del perfezionismo, siano esse culturali, politiche, famigliari, sociali o un insieme di tutti questi fattori. C’è un certo disaccordo sul fatto che il perfezionismo sia un comportamento adattivo o quasi sempre disadattivo.

Tra i diversi tipi di perfezionismo distruttivo descritti in letteratura ci sono: il “perfezionismo auto-orientato” che spinge all’estremo; il “perfezionismo orientato all’altro” che consiste nell’aspettarsi il perfezionismo dagli altri; il “perfezionismo socialmente prescritto” caratterizzato dal sentire il bisogno di soddisfare le alte aspettative percepite degli altri. Quest’ultimo è il più pericoloso perché è associato con la tendenza al suicidio.

Ci sono anche altre distinzioni terminologiche. Ad esempio in una meta-analisi pubblicata nel 2020 gli autori hanno distinto tra “preoccupazioni perfezionistiche” (che includono il tentativo di raggiungere obiettivi/aspettative esterne fissate dagli altri, questa tendenza è simile al “perfezionismo socialmente prescritto”) e “sforzi perfezionistici” (spingersi alla perfezione come nel “perfezionismo auto-orientato”). Si è scoperto che entrambe queste forme di perfezionismo sono legate alla depressione e alla disconnessione sociale e che la preoccupazione perfezionistica è associata a un maggiore stress.

In generale tutti i tipi di perfezionismo distruttivo sembrano essere in aumento e molti studi lo associano alla tendenza al suicidio. Il tasso di perfezionismo malsano nelle giovani generazioni è particolarmente preoccupante e ci sono delle ricerche che lo considerano fuori controllo.

Spero di avervi aiutato a capire come il perfezionismo, che può sembrare una virtù, possa essere dannoso. Se credete di mostrare i segni di un perfezionismo malsano e soprattutto di una “depressione perfettamente nascosta” penso che gli esercizi di questa guida possano aiutarvi a creare un altro modo di vivere o di essere.

Tuttavia il lavoro più difficile non è fare un cambiamento ma mantenerlo. Ci sono così tanti tira e molla causati dalla voce perfezionista che crea vergogna, che mantenere una prospettiva e un comportamento nuovo diventa una vera sfida. Ma ci si può arrivare; ci vuole pratica, molta.

Inoltre a volte le persone nel vostro ambiente non sopportano i cambiamenti che avete fatto e può essere che vogliate riconsiderare le relazioni che sono troppo dannose e fissare dei limiti appropriati in quelle che rimangono.

Per esempio, può darsi che la vostra famiglia continui ad aspettarsi che facciate qualcosa per loro senza tenere conto dei vostri bisogni. Forse spendete ore al telefono con amici che richiedono tutta la vostra attenzione o che vi dicono cosa farebbero senza di voi. Può anche essere che le persone intorno a voi si siano così abituate a vedervi lavorare tanto e a dare troppo senza chiedere niente in cambio. Valutate se queste relazioni possono o meno nutrire il vostro “nuovo sé”, e dove serve stabilite nuovi confini.

Vale la pena lottare per voi stessi, non nonostante le vostre imperfezioni ma per esse. E vale la pena amarsi non per quello che si può fare ma per quello che si è. Si cresce e si acquisisce una vera forza non quando si sembra in controllo ma quando ci si accetta e si è in grado di ascoltare ogni parte di sé.

“… e in tal modo il bambino inganna l’uomo”

“E gli alberi votarono ancora per l’ascia,
perché l’ascia era furba e li aveva convinti che era una di loro,
perché aveva il manico di legno”
Proverbio turco

Le metafore veicolano significati attraverso immagini. Posso prendere quella dell’incipit e chiedermi cosa rappresenta chi al suo interno. Facendolo dal mio punto di vista, che è quello dello psicologo clinico, non posso non riflettere sull’identificazione e sul ruolo che essa gioca nella costruzione della personalità.

Molti dei pazienti con cui mi capita di ragionare su questo proverbio si mettono spontaneamente al posto di uno degli alberi e parlano di quanto si sentano più o meno plagiati dall’ascia: quanto credono che i loro pensieri siano originali e quanto sono più o meno sicuri che, alle prossime elezioni, voteranno in scienza e coscienza decidendo con la propria testa. Quasi nessuno si identifica con l’ascia o si addentra nella similitudine che, a mio parere, è il nocciolo della questione: il manico di legno, ciò che l’ascia usa come strumento di persuasione.

In fondo il primo passo verso l’identificazione lo compie l’ascia. È lei che dice “io sono come voi”. Facendolo, propone un’affinità. 

Uno degli istinti primordiali dell’uomo è quello aggregarsi con chi gli assomiglia. Il cucciolo resta nei pressi dell’adulto e, se anche si allontana, torna appena sente il bisogno di protezione o di rifugio. Identificarci con chi si è preso cura di noi è stato il nostro modo per  crescere. Abbiamo imitato i nostri genitori per apprendere e per fare nostre certe caratteristiche che ci sono servite per essere in grado di muoverci nel mondo indipendentemente da loro. 

Insomma: c’era un’affinità che ha favorito un processo di sviluppo che ha portato a un’autonomia. Se oggi mi imbatto in un percorso simile e se chi me lo propone è come me, se lo riconosco come parte della mia famiglia o del mio gruppo, beh, allora sarà probabilmente un buon percorso. 

Peccato che, come disse Dryden: “I più sono stati sviati dall’istruzione/ credono a questo e quello perché così li hanno educati./ Il prete continua ciò che iniziò la balia,/ e in tal modo il bambino inganna l’uomo.” Questo l’ascia lo sa bene e gli alberi… molto meno. Il problema è che “l’ascia è furba” ma il vero guaio, da un punto di vista psicologico è che gli alberi non sono veramente adulti

Raccontava Hillman in una conferenza della metà degli anni’90 che la maggior parte degli americani a cui fu chiesto che età avrebbero voluto avere se avessero potuto tornare indietro nel tempo rispondeva dicendo che gli sarebbe piaciuto avere tra i 16 e i 18 anni, l’età del college, quella in cui l’imitazione è una sorta di obbligo e in cui il pensiero viene considerato essenzialmente un limite all’azione. 

L’età in cui un’ascia furba vuole che gli alberi si fermino perché è più facile controllare un adolescente che non vede l’ora di agire che un adulto che si ferma a pensare. 

Naturalmente non parlo solo di età anagrafica ma, piuttosto, di disposizione mentale. Concordo con Chiara Valerio quando  nel suo La matematica è politica, scrive: “De Finetti diceva che l’incertezza non è eliminabile, solo misurabile. Il primo errore di valutazione nelle cose siamo noi. A vent’anni, non ero disposta ad accettarlo, non avevo smantellato la sovrastruttura di certezze alla quale davo il nome di idealismo.(…) A vent’anni, non ero disposta ad accettare che l’errore è la nostra caratteristica principale. Oggi, a quaranta, mi pare confortante.”

Un adulto sa stare nell’incertezza: sa adottare quella che Keats chiamava Capacità Negativa, può tollerare la frustrazione di non sapere e riesce ad applicarsi su un problema trattenendo l’impulso di buttarsi sulla prima certezza che gli viene offerta da… un’ascia qualsiasi. 

Non è una posizione facile da tenere ma è il principale antidoto contro l’identificazione, la cura che ci permette di differenziarci, non per sentirci migliori ma per mantenerci pensanti. 

Il primo passo di un potenziale dittatore, subito dopo averci fatto credere di essere uno di noi, è quello di chiederci di assomigliargli sempre di più: vestirci in un certo modo, ripetere i suoi slogan, “fare come fa lui”. Sa che se ci convince a prendere una certa postura avrà il nostro voto. Per questo occorre pensare sui nostri gesti e capire quali ci appartengono e quali, invece, sono solo imitazioni e ripetizioni.

È una strada faticosa ma, facendola, ci si imbatte in pensieri davvero pensati, in idee originali e solitudini feconde.

Luce nel pozzo

“Non dobbiamo dunque chiederci se percepiamo veramente il mondo,dobbiamo invece dire: il mondo è ciò che noi percepiamo”
M. Merleau-Ponty

Ci sono cose che sappiamo di sapere e cose che sappiamo di non sapere. Come l’ubriaco di cui parlavo nell’ultimo post cerchiamo le chiavi che abbiamo perso sotto  al più vicino lampione acceso perché lì c’è la luce. 

Le luci a cui ci affidiamo sono quelle che speriamo illumineranno meglio il nostro cammino, quelle che crediamo ci renderanno più coscienti, più vigili e sicuri, più consapevoli e forti. 

Ciò che a volte ci sfugge è che queste “luci” sono punti di vista: ottiche sulla vita, angolazioni dalle quali guardiamo il mondo e, allo stesso tempo, filtri che escludono certi stimoli e ne lasciano passare altri. 

Le metafore che usiamo o a cui, più o meno consapevolmente, aderiamo, costruiscono mondi. E, siccome il mondo è ciò che noi percepiamo, ciò che troviamo è ciò che il filtro che abbiamo usato ha lasciato passare. 

Dire che l’attività in cui siamo collettivamente impegnati da un paio di mesi a questa parte è una guerra al virus crea un contesto in cui: la malattia è il nemico, chi la combatte è un eroe, chi non si allinea è un disertore che va sanzionato, si spera in farmaci che come un’arma finale sbaraglino il virus, si vince o si perde.

Il presupposto della “metafora della guerra” implica che gli argomenti di chi la pensa diversamente dalla linea di comando debbano essere distrutti, che occorra andare a caccia di colpevoli e di untori e che, visto che una guerra giustifica una legge marziale, non sia il caso di mettere in dubbio le scelte di chi comanda. Se è una guerra alla fine ci saranno dei vincitori, si potrà festeggiare, si inizierà a ricostruire, torneremo ad abbracciarci, ci lasceremo alle spalle i brutti momenti, ecc. 

É un punto di vista, un modo di raccontarla e non dico che sia il peggiore. Di sicuro è persuasivo. Ma cosa perdiamo quando questa metafora ci persuade?

Sembra che la guerra che il nostro sistema immunitario ingaggia contro il virus sia, in certi casi, parte del problema: una risposta troppo bellicosa della parte innata delle difese immunitarie scatena un’infiammazione che può risultare letale. Potete leggere qui il motivo per cui potenziare il sistema immunitario può essere una pessima idea.

Il vaccino non rende il sistema immunitario più forte ma più intelligente: più bravo ad identificare e neutralizzare il nemico con una guerra mirata invece che con una reazione scomposta e sconsiderata.

Questo tipo di ragionamento somiglia più a quello di un domatore che a quello di un guerriero. La metafora cambia. Non si tratta più di combattere ma di controllare e di modellare/educare delle risorse già presenti per renderle più adatte al lavoro che deve essere fatto. Certo un domatore ha bisogno di tempo e, nel frattempo i guerrieri devono fare la loro parte. Ma chi sono i guerrieri? È davvero il caso di schierarci e, mentre i medici fanno del loro meglio per far fronte al pericolo, dare la caccia a qualche colpevole dell’epidemia? Non sarebbe meglio cambiare metafora/lampione e cercare qualcos’altro? 

Forse le chiavi che abbiamo perso non sono quelle per rientrare in casa ma quelle che ci servono per uscire nuovamente

Cominciamo dalla paura di uscire! Non stiamo uscendo a guerra finita, non ci sono liberatori da festeggiare e dicono che per un bel po’ non dovremo abbracciarci. Ci sentiremo spaesati? Saremo molto diversi da come eravamo prima di… tutto questo? 

Ricordate la fasi del lutto? La Negazione, la Collera, la Contrattazione, la Disperazione e l’Accettazione. Le ritroveremo tutte perché il lutto è appena iniziato.

Il lutto è un lavoro: un impegno per adattarci a una perdita.

Io credo che la domanda debba essere cosa abbiamo perso e penso che questa sia una delle cose che non sappiamo, che dobbiamo accettare di non sapere e su cui dobbiamo continuare a interrogarci. 

L’altro giorno un mio paziente, una persona che spesso mi stupisce per la profondità di analisi e per la capacità di cogliere il punto della situazione mi diceva: “Non so, proprio non ho parole… non riesco a descrivere ciò che stiamo vivendo”.  Insieme abbiamo concordato che questo è un buon punto di partenza e che la famosa proposizione di Wittgenstein “di ciò di cui non si può parlare bisognerebbe tacere”è, in questo momento, molto appropriata. 

Tacere non significa essere muti ma stare fuori dalle chiacchiere, cercare il segnale all’interno del rumore, uscire dal blaterare collettivo. È quella che definisco una Posizione: un tipo di postura della mente (una Forma Vitale, se volete) che determina un modo di fare attenzione. Come quando si ascolta molto attentamente o come quando si ricercano con cura le parole e, per questo, si tace. 

In un vecchio film “L’uomo che sussurrava ai cavalli” c’è una scena in cui il protagonista sta a lungo immobile nell’erba davanti a un cavallo traumatizzato per ristabilire un contatto, per aiutare il cavallo/il suo paziente a riparare il lutto di una relazione con il mondo che era andata perduta. In psicologia diremmo “per aiutarlo a pensare nuovamente qualcosa che era diventato impensabile”. 

Il cavallo ha subito un trauma ed è terrorizzato. La paura del paziente traumatizzato diventa il punto da cui partire e l’attenzione di chi è determinato ad aiutarlo è un primo antidoto. Lo spavento acuisce la sensibilità e dare attenzione a chi è spaventato contribuisce a farlo rilassare come se il nostro essere all’erta insieme a lui gli permettesse di riprendere i sensi che il trauma ha sequestrato.
Così dovremo fare con la nostra paura e con quella dei nostri simili in una fase in cui l’attenzione non potrà essere come quella di prima.
Un po’ come spegnere il lampione per cercare in un modo diverso. 

Se ogni giorno cade
dentro ogni notte
c’è un pozzo
dove la chiarità sta rinchiusa.
Bisogna sedersi sul bordo
del pozzo dell’ombra
e pescare luce caduta
con pazienza.
Pablo Neruda 

Dentro, fuori… dove siamo?

“L’ansia è un sottile rivolo di paura che si insinua nella mente.
Se incoraggiata scava un canale nel quale tutti gli altri pensieri vengono attirati”
Robert Bloch

Nel 1980 J.Lakoff e M.Johnson, un Linguista e un Filosofo, scrissero un lavoro fondamentale  sull’uso delle metafore nella vita di tutti i giorni. In esso sostennero che la metafora influenza non solo il linguaggio ma anche il nostro funzionamento cognitivo. “L’essenza di una metafora è vivere un tipo di cosa in termini di un altro”. Quando ad esempio descriviamo la situazione collettiva che stiamo vivendo in termini di qualcosa da cui uscire/uno stato transitorio che ci lasceremo alle spalle non appena potremo… stiamo, secondo questi autori, usando una metafora di orientamento. Immaginiamo un dentro e un fuori e ci chiediamo quanto manca per “uscire dal tunnel; tornare a vedere la luce; venir fuori da questo brutto momento” ecc. 

Pensare in questo modo serve per orientarci, per darci un orizzonte e una direzione. Ma è una metafora: uno dei tanti modi di pensare e di far luce sulla realtà. Rischia di diventare come il lampione sotto cui l’ubriaco della storiella sta cercando le chiavi di casa che ha perduto. Un poliziotto si ferma ad aiutarlo e, dopo un po’ che cercano insieme, gli chiede “ma è sicuro di averle perse qui?” e lui risponde “ no, ma le cerco qua perché qua c’è la luce”. Una metafora mette in evidenza delle cose ma, facendolo, ne nasconde delle altre. Tornerò nei prossimi post su questo concetto. In questo vi propongo, invece, una riflessione su uno stato d’animo collettivo che prima di poter essere lasciato alle spalle va osservato con cura. 

Ho letto qualche giorno fa un articolo scritto da Scott Berinato sulla Harvard Business Review intitolato That Discomfort You’re Feeling is Grief. Al suo interno c’è un’intervista a David Kessler che è uno dei maggiori esperti mondiali sul tema del lutto. L’ho tradotta e ve la propongo. La parola inglese grief può essere resa in italiano sia con il termine lutto che con il termine afflizione. Nella traduzione uso l’uno o l’altro a seconda delle diverse sfumature del discorso. Chi vuole leggere l’articolo completo in inglese lo trova qui. Buona lettura!

Intervistatore: Le persone stanno provando molti stati d’animo diversi in questo momento. È corretto chiamare afflizione parte di ciò che provano?

Kessler: Sì, e stiamo sperimentando vari tipi di afflizione. Sentiamo che il mondo è cambiato, e lo è. Razionalmente sappiamo che è uno stato temporaneo, ma di pancia sentiamo che non è così e che le cose saranno diverse. Proprio come andare all’aeroporto non è più stata la stessa cosa dopo l’11 settembre, allo stesso modo le cose cambieranno e questo è il momento in cui sono cambiate. La perdita della normalità; la paura per il bilancio economico; la perdita dei legami. Tutto questo ci sta colpendo e ne siamo afflitti. Collettivamente. Non siamo abituati a questo senso di lutto collettivo nell’aria.

Quindi dice che stiamo provando più di un tipo di afflizione?

Sì, stiamo anche provando un senso di lutto anticipatorio. Il lutto anticipatorio è ciò che sentiamo per quello che ci riserva il futuro quando proviamo incertezza. Di solito questo stato d’animo accompagna l’idea di morte. Lo proviamo quando qualcuno a cui teniamo riceve una diagnosi infausta o quando ci viene in mente che un giorno perderemo un genitore. Più in generale il lutto anticipatorio è connesso ai possibili futuri immaginati: sta arrivando una tempesta, qualcosa di cattivo si aggira là fuori. Quando si ha a che fare con un virus questo tipo di afflizione crea ancora più confusione nelle persone. La nostra mente primitiva sa che qualcosa di brutto sta succedendo, ma è qualcosa che non si può vedere e questo fa a pezzi il nostro senso di sicurezza. Sentiamo questa perdita di sicurezza. Non penso sia mai accaduto di perdere il senso di sicurezza tutti insieme come ora; è successo a singoli individui o a gruppi più ristretti, ma la novità è che stavolta è successo a tutti quanti. Siamo in lutto a livello personale e generale.

Cosa possono fare le persone per gestire tutta questa afflizione?

Comprendere gli stadi del lutto è un buon inizio. Ogni volta che parlo degli stadi del lutto devo ricordare alle persone che questi stadi non sono lineari e possono non succedersi in quest’ordine. Non è una mappa quanto piuttosto un’impalcatura per comprendere questo mondo sconosciuto. C’è la negazione, in cui all’inizio diciamo un sacco di: Il virus non ci colpirà. C’è la rabbia: Mi stai costringendo a stare a casa, lontano dalle mie attività. C’è la fase della trattativa: Ok, se tengo la distanza sociale per un paio di settimane tutto andrà meglio, giusto? C’è la tristezza: Non so quando questo finirà. E infine c’è l’accettazione: Sta succedendo; devo capire come andare avanti.

Come avrete immaginato il potere e la forza risiedono nell’accettazione. È nell’accettazione che troviamo il controllo: Posso lavarmi le mani, Posso tenere la distanza di sicurezza, Posso imparare a lavorare on-line.

Quando siamo afflitti sentiamo anche una sorta di dolore fisico e la mente diventa frenetica. Ci sono delle tecniche per trattare questi sintomi e renderli meno intensi?

Torniamo al lutto anticipatorio. L’afflizione anticipatoria non sana corrisponde a uno stato d’ansia, questa è la sensazione di cui stai parlando. La nostra mente inizia a mostrarci immagini: i nostri genitori che si ammalano, gli scenari più cupi. Questo processo è un modo in cui la mente cerca di proteggerci. Dobbiamo porci lo scopo di non ignorare queste immagini, né di cercare di allontanarle. La mente non ce lo lascerebbe fare e lo sforzo per farlo potrebbe essere doloroso. L’obiettivo è quello di trovare un equilibrio nelle cose che stai pensando. Se senti che lo scenario peggiore prende forma, immagina quello migliore. Tutti possiamo ammalarci un po’ ma il mondo va avanti. Non tutti coloro che ami muoiono. E probabilmente la maggior parte si salverà perché stiamo facendo i passi giusti. Nessuno dei due scenari dovrebbe essere ignorato ma nessuno dovrebbe diventare dominante sull’altro.

Il lutto anticipatorio è il risultato della mente che si proietta nel futuro e che immagina il peggio. Per calmarti devi voler entrare nel presente. Questo consiglio è ben noto a chi ha meditato o praticato mindfulness, ma molti si stupiscono di quanto semplice possa essere. Puoi individuare cinque cose nella stanza. C’è un computer, una sedia, una foto del cane, un vecchio tappeto e una tazzina da caffè. È semplice. Mentre lo fai respira. Renditi conto che nel momento presente niente di ciò che hai anticipato è successo. In questo momento stai bene, hai del cibo, non sei malato. Usa i tuoi sensi e pensa a ciò che essi stanno sentendo. Il tavolo è duro, la coperta è morbida. Posso sentire il respiro che entra nel naso. Questo semplice esercizio aiuterà a mitigare un po’ del dolore.

Puoi anche pensare a come lasciar andare quello che non puoi controllare. Ciò che fa il tuo vicino è fuori dal tuo controllo, mentre stargli a un metro e mezzo di distanza e lavarti le mani sono sotto il tuo controllo. Concentrati su quello.

Infine, questo è il momento giusto per fare provvista di compassione. Ognuno avrà un diverso grado di paura e lo manifesterà a modo suo. Un collega è stato molto brusco con me l’altro giorno e ho pensato: Non è da lui, è più la conseguenza del modo in cui cerca di gestire tutto questo; quello che vedo sono la sua paura e la sua ansia. Quindi sii paziente. Pensa a come uno è di solito, non a come sembra in questo momento.

Un aspetto particolarmente preoccupante di questa pandemia è che non ne vediamo la fine.

Questa condizione è temporanea e dirlo aiuta. Ho lavorato per dieci anni nel sistema ospedaliero e sono stato addestrato per situazioni come questa. Ho studiato la pandemia influenzale del 1918. Le precauzioni che stiamo prendendo sono quelle giuste. La storia ce lo insegna. Si può sopravvivere e sopravviveremo. È il momento di essere iperprotettivi, ma non per reagire in maniera eccessiva.

E penso che troveremo un significato in tutto questo. Ho l’onore di avere avuto il permesso dalla famiglia di Elisabeth Kübler-Ross di aggiungere un sesto stadio del lutto: il Significato. Ho parlato per un bel po’ con Elisabeth su cosa venga dopo l’accettazione. Non ho voluto fermarmi all’accettazione quando ho sperimentato dei lutti personali. Volevo un significato per quei momenti bui. E credo fermamente che possiamo trovare luce anche in quei momenti. In questo momento le persone si rendono conto che possono stare in contatto grazie alla tecnologia e che non sono distanti quanto pensavano. Capiscono che i loro telefoni possono essere usati per lunghe conversazioni. Apprezzano la possibilità di fare una passeggiata e credo che continueremo ad aggiungere significato alle cose ora e anche quando tutto questo sarà finito.

Cosa direbbe a qualcuno che anche leggendo queste cose si sente comunque sopraffatto dal lutto?

Continua a provarci! E’ importante chiamare questa condizione con il suo nome: lutto. Ci aiuta a sentire cosa abbiamo dentro. La settimana scorsa ho sentito frasi come: “Sto dicendo ai miei colleghi quanto sia dura per me”, o “Ho pianto la notte scorsa”. Quando gli dai un nome lo senti e ti passa attraverso. Le emozioni hanno bisogno di movimento. E’ importante che riconosciamo ciò che stiamo attraversando. Uno sfortunato effetto collaterale del Movimento di Auto-Aiuto è che siamo diventati la prima generazione che ha dei sentimenti riguardo ai propri sentimenti. Ci diciamo cose tipo: Sono triste ma non dovrei sentirmi così; ci sono persone che stanno peggio di me. Possiamo e dovremmo fermarci al primo sentimento: Mi sento triste. Mi prendo cinque minuti per esserlo. Il compito è quello di sentire la propria tristezza o paura o collera sia che qualcun altro la provi o meno. Opporsi non aiuta perché è il tuo corpo che sta generando queste emozioni. Se lasciamo che i sentimenti succedano si presenteranno in modo ordinato e questo ci darà forza e non saremo vittime.

In modo ordinato?

Sì. A volte tentiamo di non sentire ciò che stiamo sentendo perché siamo preda di questa immagine di “un’orda di sentimenti”. Penso che se sono triste e non mi impedisco di esserlo, la tristezza non passerà mai e l’orda di sentimenti negativi mi schiaccerà. La verità è che un sentimento ci passa attraverso. Lo sentiamo e se ne va e possiamo passare a quello successivo. Non c’è un’orda là fuori che ci insegue. E’ assurdo pensare che in questo momento non dovremmo provare afflizione. Permettiamoci di sentirla e andiamo avanti.

Foto di Orna Wachman da Pixabay

 

Fermezza: un’amplificazione

“L’impedimento all’azione fa avanzare l’azione. Ciò che si frappone diventa la strada.
L’ostacolo è la via.”
Marco Aurelio 

Nel post precedente, parlando della capacità di stare (stay) contrapposta alla reazione di immobilizzarsi (freeze), dicevo che “L’obiettivo di questo star fermi non è l’immobilità ma la fermezza”. Giorni dopo un paziente mi ha chiesto come fare per allenarsi alla fermezza, dove trovare, in questa emergenza, la forza per non “congelarsi”.
È una domanda difficile e da tempo (e per lavoro) ho imparato a non rispondere subito ma ad ascoltare bene. Lascio che la domanda attivi in me delle idee, delle immagini e delle associazioni che condivido con il paziente. In questo modo amplifichiamo insieme ciò su cui stiamo riflettendo: aggiungiamo ciò che viene in mente. Questo procedimento permette di stare sul concetto e sulle immagini che lo accompagnano per lasciare che la psiche ne venga influenzata e… nutrita.
Condivido anche con voi alcune di queste libere associazioni.

Leggevo giorni fa un tweet in cui Vito Mancuso riporta parte di un articolo intitolato “Saggezza Stoica per tempi caotici” e, siccome penso che gli Stoici la sapessero lunga sulla fermezza, parto da lì.
Lascio la traduzione di Mancuso che mi sembra un po’ libera ma bella (tanto trovate anche la versione originale nel link):

  1. preoccupati solo delle cose sotto il tuo controllo 
  2. prendi coscienza che l’unica fonte delle tue emozioni sei tu
  3. lavora 
  4. sii presente 
  5. coltiva desideri realizzabili 
  6. sii giusto 
  7. fa’ degli ostacoli il tuo sentiero 
  8. ringrazia

Io credo che il punto 7 raccolga tutti gli altri. L’ostacolo, ciò che si mette per traverso sulla nostra strada, è infatti semplicemente ciò che sta! Ci è dato qui e ora ed è necessario nel senso che i greci antichi davano a Necessità intesa come il presupposto: ciò che è così-e-basta. Se non ci si difende dalla consapevolezza dell’inevitabilità dell’ostacolo gli altri consigli diventano quasi ovvi.

Se accettiamo che l’ostacolo è la via:

  1. Dovremo preoccuparci solo di ciò che abbiamo di fronte restringendo il campo della nostra attenzione ed occupandoci innanzitutto di cosa possiamo davvero fare.
  2. Nel farlo terremo presente che l’emozione non è il risultato di ciò che accade ma la conseguenza della risposta che diamo al mondo. Fu il Buddha a intuire che il dolore è inevitabile ma che la sofferenza può essere mitigata e superata; la nostra risposta al dolore funziona come una seconda freccia. Siamo colpiti dagli avvenimenti ma è il modo in cui reagiamo ad essi che li rende più o meno terribili, più o meno soverchianti. 
  3. Se l’impedimento fa avanzare l’azione dobbiamo “solo”: riflettere, progettare e mettere in atto per proseguire ed eventualmente andare oltre. 
  4. L’essere presenti ci permette di non disperdere l’energia e di mantenere il focus. L’ostacolo è qui, non nel futuro né nel passato. Stare nel presente è il modo per non perdersi nel rimuginio e per avere a che fare il più possibile con ciò che è. 
  5. Non si può vivere senza aspettative ma si può riflettere su ciò che ci aspettiamo e sulla qualità dei nostri desideri. Sono bisogni o capricci? Obiettivi raggiungibili o deliri di onnipotenza? Ci rendono protesi o famelici? Ci attivano o ci intrappolano? Quanto ci distolgono dal lavoro o quanto, invece, possono contribuire a renderlo più sensato. 
  6. L’etimologia di virtù rimanda al concetto di Forza (Vis, plurale Vires, in latino) e a quello di coraggio/virilità (Vir, in latino). Essere virtuosi e giusti significa schierarsi e prendere parte riflettendo sulla direzione verso cui ci si sta muovendo. Significa anche tener presente che non siamo soli e che “Nel momento in cui proviamo della rabbia, abbiamo già smesso di lottare per la verità e abbiamo iniziato a lottare soltanto per noi stessi”. Questa rabbia egoica non è che il tentativo di tenere la posizione ed è solo una mimica della fermezza, una pretesa di “essere giusti”.
  7. Per essere grati occorre almeno un po’ farsi piccoli. È un gesto interno che considero uno dei migliori esercizi per riconoscere di far parte di qualcosa di più vasto. È anche uno dei più efficaci antidoti alla solitudine.

Se si accetta che l’ostacolo è la via una quantità di piccoli impedimenti scompaiono e la fermezza diventa un effetto collaterale di questa posizione psicologica. L’applicazione della saggezza propugnata dagli Stoici va intesa come una disciplina naturale: non una costrizione ma una nuova indole, un modo di prendersi e di rapportarsi. 

Il  termine fermo deriva dal latino Firmus la cui radice sanscrita, Dhar, ha il significato di tenere strettamente, sostenere, contenere (da cui anche Firmamento e  dhar-ani: la Terra). 

La fermezza ricorda una canna di bambù che si piega quel tanto che basta per scrollarsi di dosso, d’inverno, la neve; che è leggera e vuota; che sembra cedere ma riprende prontamente  la propria forma; che radica a lungo ma poi cresce velocemente. 

Credo che, visto il momento storico che stiamo attraversando, possa essere utile stare anche solo per un po’ con questa immagine. Tenere strettamente, sostenere, contenere.