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Cigno nero

“Ho già sostenuto che la storia è in gran parte il prodotto di eventi che rientrano nella categoria dei Cigni neri, mentre noi ci affanniamo ad affinare la nostra comprensione dell’ordinario…”
N.N.Taleb

“La teoria del cigno nero è una metafora che descrive un evento non previsto, che ha effetti rilevanti e che, a posteriori, viene razionalizzato inappropriatamente e giudicato prevedibile.” (Wikipedia).

Ma quando accade, quando ci si ritrova a fare i conti con le sue conseguenze e con le nostre reazioni al suo irrompere nella vita ordinaria, quelli che dicono “lo sapevo”… mentono.

Può essere che qualche profeta avesse intravisto all’orizzonte la tempesta e può essere che ne avesse parlato ma i profeti sono immersi nell’ordinario e sembrano matti e nessuno li ascolta e solo a posteriori (non sempre) vengono riconosciuti come preveggenti. Il ché fa esattamente il gioco del Cigno nero: lo rende oscuro, imprevedibile, sconvolgente. 

Una scienza minore come la psicologia non può che fare i conti con le risposte che le persone danno a un evento che rompe l’equilibrio e perturba il solito flusso del quotidiano. Uno psicologo cerca di tenere presente che, anche in uno scenario in cui la gravità dell’evento ci uniforma, ciascuno di noi dà una risposta soggettiva. Rispondiamo al mondo in base al nostro carattere, alla nostra sensibilità e alle nostre credenze: siamo o ci consideriamo più o meno fragili e, in base ad una complessa e sfuggente equazione interiore, ci rapportiamo a ciò che succede e che “ci tocca”. Inoltre, a differenza di un animale che si limita a reagire di fronte a un pericolo percepito, noi umani attiviamo una serie di comportamenti che rispondono anche a pericoli invisibili, ipotizzabili, immaginabili. 

Riusciamo insomma a pre-occuparci, sia nel senso di occuparci-prima (prevedere, prepararsi, correre ai ripari) che nel senso di… andare in sbattimento.

Nella  modalità sbattimento le nostre reazioni sono prevedibili e simili a quelle degli  animali: combattiamo, scappiamo, ci congeliamo (le solite tre F di cui spesso parlo: le tre risposte autonome al pericolo Fight, Flee, Freeze). Con la differenza che un animale attiva queste difese solo di fronte a un pericolo concreto mentre un essere umano, essendo dotato di grande fantasia, può attaccare predatori immaginari, scappare di fronte a pericoli improbabili, congelarsi “alla sola idea di…”. 

Durante un’emergenza uno psicologo dovrebbe aiutare a trasformare questo tipo di preoccupazione che è resa bene dalla parola inglese worry (un’onomatopea che ricorda il verso di un predatore che azzanna: worr!), in una modalità più umana che consiste nel prendersi cura di una possibile minaccia. 

Se costruiamo un continuum su cui distendere la preoccupazione  potremo ad un estremo collocare il lato animale/automatico/reattivo nelle vicinanze del quale osserveremo risposte appropriate a situazioni “naturali” in cui è opportuno reagire velocemente e per breve tempo a pericoli poco ambigui mentre, all’altro estremo, incontreremo le reazioni più “lente”: quelle dettate dalla capacità di stare nella difficoltà senza rispondere subito, quelle adatte ad una situazione complessa come quella che stiamo vivendo nel contesto da cigno nero in cui siamo immersi.

Un contesto in cui credo che ormai sia chiaro a molti che ci sono momenti in cui ritirarsi è saggio e non agire non significa essere inerti. 

La capacità di Stare (stay) è molto diversa dalla reazione automatica di Congelarsi (freeze)!

A forza di film sulle arti marziali dovrebbe essere patrimonio comune l’idea che il vero combattente è colui che riesce a non combattere. Al culmine dell’addestramento in una disciplina che insegna il buon uso della forza l’allievo impara dal maestro a non usarla se non quando proprio non c’è altro rimedio.

Posso, insomma, decidere di non combattere apertamente ma raccogliere le forze e apprendere: escogitare altre strade per far fronte a qualcosa che devo, prima di tutto, comprendere. Più che una reazione è uno stato di coscienza o, se volete, una posizione da tenere, molto più simile allo yoga che alla boxe. 

L’obiettivo di questo star fermi non è l’immobilità ma la fermezza

Nella fermezza c’è tempo per riflettere. La ri-flessione è l’equivalente psichico (e evoluto) della fuga: ci permette di allontanarci intelligentemente dalla minaccia, quel tanto che basta per studiarla e, poi, per contenerla. 

Certo, quando il nemico è aggressivo e incontenibile quanto quello che viene affrontato in questi giorni, non basta stare fermi. Come in un corpo il sistema immunitario fa del suo meglio per combattere e sconfiggere ciò che minaccia l’integrità dell’organismo, allo stesso modo un’intera porzione del nostro sistema sociale è impegnata in una dura lotta per creare distanza e guadagnare tempo e terreno. Molti di noi in questi giorni sono in prima linea e, proprio come degli anticorpi specializzati, contrastano in ogni modo gli effetti distruttivi della calamità che perturba e sconvolge la nostra vita.

Credo che chi sta nelle retrovie abbia il dovere di allenarsi alla fermezza e alla riflessione. Non sappiamo niente degli effetti che alla lunga questo Cigno nero imporrà al nostro stile di vita. Fingere di saperne qualcosa sarebbe stupida supponenza. Credere di essere indenni o invulnerabili è in questi casi un modo per coltivare la negazione: una difesa mentale tipica della psicosi. Sarebbe inoltre offensivo nei confronti di chi si sta sacrificando per renderci tutti meno fragili. 

Se il Cigno nero preme per uniformarci possiamo farlo in un modo saggio.

Possiamo orientare la nostra riflessione e restare uniti verso uno stile di pensiero più sano e meno separato. 

Ne parlerò ancora. Anch’io ho più tempo e scrivo tra una seduta e l’altra (online). 

Vi lascio, per ora, con una breve poesia che parla della buona solitudine e del protendersi verso ciò che è fuori di noi.

Nella mia quieta capanna di paglia,
siedo da solo.
Le nubi sonnecchiano
alla bassa melodia del mio canto.
Chi altro è lì che può conoscere
l’intento sottile della mia vita?
Kim Sujang

Ansia: un primo antidoto

“L’ansia è quel che più uccide l’amore. Crea i fallimenti.
Fa in modo che gli altri si sentano come tu ti sentiresti
se una persona che sta affogando si aggrappasse a te.
Vorresti salvarlo ma sai che, con il suo panico,
potrebbe strangolarti ”
Anaïs Nin

Tutti portiamo un cronico fardello di ansia: una sorta di secondo corpo non visibile ma percepibile internamente.
E’ lì che possiamo andare ogni volta che ci chiedono o ci chiediamo “come ti senti?”: diamo un’occhiata e sappiamo quanto in pace o in conflitto, in armonia o in dissonanza, attivati o disattivati siamo.

E’ un giudizio soggettivo che non ha niente a che fare con le misurazioni esterne: una persona può sembrare calma e sentirsi terribilmente ansiosa, può dissimulare e nascondere ma, proprio per questo, a volte, essere ancora più agitata.

Solo coloro che ci conoscono bene sono in grado di cogliere quei piccoli segnali che fanno la differenza e ci sono frangenti in cui se ne accorgono prima gli altri, della nostra ansia, perché noi siamo impegnati a difenderci dalla sua presa e nel tentativo di non sentirla attiviamo quelle difese che ci sembra che possano allontanarla.

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Cronaca 18 – Sul narcisismo II Parte

“… Lacan affermava che
il compito primo dell’analista
è quello di ‘custodire il silenzio'”
M.Recalcati

Così come non si può parlare di Disturbo Ossessivo Compulsivo senza parlare di speranza e di aspettative, allo stesso modo non si può trattare l’argomento del narcisismo senza approfondire i concetti di desiderio e considerazione.

Possiamo vedere il desiderare e il considerare come due gesti interni: due funzioni necessarie della psiche senza le quali di psiche non si potrebbe nemmeno parlare. Chi ha Psiche/mente ce l’ha non tanto perché percepisce, sente e ricerca la sopravvivenza quanto perché desidera e considera: progetta per muoversi verso ciò che vuole e immagina mondi, si inventa cose verso le quali spingersi.

Sia il termine Desiderio che il termine Considerazione contengono la parola sidera: astri, stelle, qualcosa a cui guardare, verso cui dirigere lo sguardo, fuori da noi.

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Il Perturbante

“E’ detto unheimlich tutto ciò che potrebbe
restare segreto, nascosto, e che invece
è affiorato”
F.W.Schelling

Nella letteratura psicoanalitica la parola Perturbante è  usata per tradurre il tedesco “Das Unheimliche” che letteralmente significa il non familiare o, meglio, ciò che era familiare e che di colpo è diventato in qualche modo estraneo o sinistro.

E’ un termine che Freud ha adoperato per indicare quello specifico stato d’animo di spaesamento che ci assale quando ci troviamo di fronte ad uno spostamento di significato: qualcosa che ritenevamo assodato e sotto controllo si rivela, invece, in grado di turbare il nostro equilibrio e la nostra interpretazione della realtà .

Di fronte al Perturbante ognuno di noi reagisce attivando delle difese che tentano di riportare la situazione ad uno stato in cui possiamo rilassarci: una sorta di normalità  senza emergenze che in tanti racconti corrisponde al lieto fine e al “e vissero felici e contenti”.
Sembra che il ” felici e contenti ” sia possibile solo dopo che un Perturbante è avvenuto ed è stato ricondotto alla normalità .
Un epilogo che corrisponde, in genere, al momento in cui gli eroi della rappresentazione mettono su famiglia e in cui lo spettatore dopo aver sofferto con loro può tornare alla sua solita vita.

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Il senso del luogo

Non bisogna fare della psicologia
da rigattieri! Mai osservare per osservare.
Ciò determina un’ottica falsa, una vista obliqua,
qualcosa di coatto e di iperbolico”
F.Nietzsche

Ci sono argomenti che si associano, si rincorrono e si intrecciano nelle descrizioni che un terapeuta offre ad un paziente per osservare, da un’altra angolazione, i sintomi, la sofferenza e le parti irrisolte che questi porta in seduta. In un blog come questo che, dal punto di vista di chi lo sta scrivendo, non può non riferirsi anche alla pratica clinica quotidiana, succede, ovviamente, la stessa cosa: mi pongo una sorta di obiettivo didattico, una traccia da seguire per sviscerare un argomento e renderlo almeno un po’ descritto e mi ritrovo da un’altra parte, seguendo ciò che i pazienti portano in studio o, più probabilmente, ciò che mi colpisce o colpisce di più alcuni di loro in certi momenti.

Fa parte della disciplina del mantenersi vicini allo stato mentale “senza memoria e senza desiderio” che Bion tanto caldeggiava: si colgono certe perturbazioni degli umori che diventano lo sfondo emotivo, il luogo, in cui ci si trova ad agire, ad osservare e ad inter-agire.

E così coatto e iperbolico, due aggettivi rispettivamente connessi alla compulsione, alla coazione a ripetere e alla mania (la grandezza stolta dell’iperbole), diventano lo sfondo delle mie riflessioni di oggi.

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Cronaca 13 – Hypnos II Parte: favorire l’Inconscio

Penso che il terapeuta non faccia altro che offrirti
l’occasione di pensare al tuo problema
in un’atmosfera favorevole”
M.H.Erickson

Parlavo nella Cronaca 12 della necessità di raggiungere l’inconscio e attivare la sua improvvisazione: la sua capacità di riconoscere nessi, progettare adattamenti e cambiamenti possibili, creare nuove strutture.

Questa attivazione dell’improvvisazione deve passare da una attenuazione della “prepotenza del conscio” che si può ottenere grazie al raggiungimento di uno stato di coscienza modificato, la Trance.

Ma cosa succede durante una Trance? Cosa cambia quando una persona guarda, sente e vede diversamente se stessa e i propri stati d’animo? Perché dovremmo avere fede (Bion) in questa fantasmatica capacità dell’inconscio di risanarsi?

Per rispondere a queste domande occorre partire da uno dei prodotti fondamentali dell’inconscio: il sintomo.

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Cronaca 12 – Hypnos: lo stato di Trance

Credo che l’azione, se deve essere pianificata,
vada sempre pianificata su una base estetica”
G.Bateson

… vediamo tremare e confondersi i limiti fra noi e la natura e veniamo a conoscere l’atmosfera in cui non sappiamo se le immagini sulla retina provengono da impressioni esteriori o da quelle interne. Mai come in questo semplice esercizio facciamo la semplice e facile scoperta di quanto siamo creatori, di quanto la nostra anima sia sempre partecipe della continua creazione del mondo.”. Così H.Hesse in uno dei suoi primi romanzi, Demian, fa commentare al protagonista l’esperienza che, soffermandosi con un amico a guardare il fuoco che brucia in un caminetto, ha appena vissuto.

Così avviene quando lasciamo che la nostra attenzione fluttui liberamente e togliamo un po’ di quella censura della coscienza che continuamente tenta di descrivere il mondo “per quello che è”.

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Cronaca 11 – Casa: il raccogliersi

“Home is where you feel at peace
with yourself”
Proverbio inglese

Parlare di casa dopo aver parlato a lungo, nelle cronache, di labirinto, può sembrare una contraddizione in termini. Ma chi mi ha letto fin qui sa che uso la metafora del labirinto per parlare della psiche e di alcune delle sue funzioni/predilezioni: l’esplorare, l’entrare in relazione, il ricercare.

Nel racconto greco di Eros e Psiche quest’ultima, dopo essersi accasata per un po’ con il dio (perché tale è Eros) è costretta, subendo un distacco doloroso dall’amato, ad una lunga ricerca nel mondo, sulla terra e negli inferi. E’ come se Psiche sapesse che la ricerca finirà solo dopo aver affrontato un percorso che prevede una serie di prove che, se superate, le permetteranno di ricongiungersi ad Eros e di sentirsi a casa e in pace con se stessa.

Il mito parla di un incontro, di un innamoramento, di una separazione, di una ricerca e di un’unione duratura dopo una trasformazione profonda.

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Emozioni in gabbia

“Non credo in cose come
“La tristezza”, “La gioia”,
“Il rimorso”. Probabilmente
la prova più evidente che il
linguaggio è patriarcale è che
esso banalizza i sentimenti.”
J.Eugenides

Liquidare come semplice paura o come collera certe emozioni è una violazione del terzo punto dell’esercizio R.A.I.N. di cui ho parlato nell’ultimo post.

C’è una storiella che si racconta in India su come catturare una scimmia: basta mettere un grosso pezzo di formaggio di cui è golosa in un vaso; la scimmia sente l’odore, si avvicina e lo afferra, ma la sua mano, ora che è aggrappata al formaggio, è troppo grande per uscire dalla piccola imboccatura del vaso; d’altra parte la scimmia non vuole lasciar andare il boccone e così rimane intrappolata ed è facile catturarla.

Quando dimentichiamo o tralasciamo di Investigare un’emozione spesso compiamo esattamente lo stesso errore: sentiamo, ad esempio, qualcosa che assomiglia alla paura e, senza chiederci altro, cominciamo ad essere spaventati; a questo punto la mente, che ha imparato a rifuggire di fronte a tutto ciò che la spaventa, inizia a dimenarsi e, facendolo, in qualche modo si fissa sulle proprie sensazioni: invece di lasciar andare e prendere distanza da ciò che sente e impegnarsi per capire, dà inizio a un lavorio, una sorta di rimuginazione più o meno frenetica che, molto spesso, ottiene come unico risultato quello di invischiarla ulteriormente nell’emozione.

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R.A.I.N.: come ce la raccontiamo

“L’arte di vivere non consiste né nel lasciarsi portare dalla
corrente con disinteresse né nell’aggrapparsi alle cose,
pieni di paura. Consiste nell’essere sensibili a ogni istante
considerandolo del tutto nuovo e unico: consiste
nell’avere una mente aperta e pienamente ricettiva.”
Alan Watts

Ci sono delle incredibili affinità fra alcune, recenti, scoperte delle neuroscienze e conoscenze antiche che parlavano, secoli fa, della mente, del suo funzionamento e degli strumenti che ognuno di noi potrebbe usare per modificarla.

I quattro saggi sulla depressione che sono comparsi in questo blog sono un piccolo esempio di come si può guardare ad uno stato della mente che, per quanto “scomodo” e sgradevole, è comunque una delle tante condizioni in cui il nostro umore, il nostro modo di sentirci, può essere declinato.

La Depressione Clinica nelle sue varie manifestazioni (Episodio Depressivo Maggiore, Psicosi Maniaco-Depressiva, Distimia, ecc.) va considerata come una vera e propria malattia che deve essere curata con una serie di interventi, farmacologici e di psicoterapia di sostegno, che aiutino il paziente a svincolarsi da quello che è, a tutti gli effetti, un disturbo grave e complesso.

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