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“… e in tal modo il bambino inganna l’uomo”

“E gli alberi votarono ancora per l’ascia,
perché l’ascia era furba e li aveva convinti che era una di loro,
perché aveva il manico di legno”
Proverbio turco

Le metafore veicolano significati attraverso immagini. Posso prendere quella dell’incipit e chiedermi cosa rappresenta chi al suo interno. Facendolo dal mio punto di vista, che è quello dello psicologo clinico, non posso non riflettere sull’identificazione e sul ruolo che essa gioca nella costruzione della personalità.

Molti dei pazienti con cui mi capita di ragionare su questo proverbio si mettono spontaneamente al posto di uno degli alberi e parlano di quanto si sentano più o meno plagiati dall’ascia: quanto credono che i loro pensieri siano originali e quanto sono più o meno sicuri che, alle prossime elezioni, voteranno in scienza e coscienza decidendo con la propria testa. Quasi nessuno si identifica con l’ascia o si addentra nella similitudine che, a mio parere, è il nocciolo della questione: il manico di legno, ciò che l’ascia usa come strumento di persuasione.

In fondo il primo passo verso l’identificazione lo compie l’ascia. È lei che dice “io sono come voi”. Facendolo, propone un’affinità. 

Uno degli istinti primordiali dell’uomo è quello aggregarsi con chi gli assomiglia. Il cucciolo resta nei pressi dell’adulto e, se anche si allontana, torna appena sente il bisogno di protezione o di rifugio. Identificarci con chi si è preso cura di noi è stato il nostro modo per  crescere. Abbiamo imitato i nostri genitori per apprendere e per fare nostre certe caratteristiche che ci sono servite per essere in grado di muoverci nel mondo indipendentemente da loro. 

Insomma: c’era un’affinità che ha favorito un processo di sviluppo che ha portato a un’autonomia. Se oggi mi imbatto in un percorso simile e se chi me lo propone è come me, se lo riconosco come parte della mia famiglia o del mio gruppo, beh, allora sarà probabilmente un buon percorso. 

Peccato che, come disse Dryden: “I più sono stati sviati dall’istruzione/ credono a questo e quello perché così li hanno educati./ Il prete continua ciò che iniziò la balia,/ e in tal modo il bambino inganna l’uomo.” Questo l’ascia lo sa bene e gli alberi… molto meno. Il problema è che “l’ascia è furba” ma il vero guaio, da un punto di vista psicologico è che gli alberi non sono veramente adulti

Raccontava Hillman in una conferenza della metà degli anni’90 che la maggior parte degli americani a cui fu chiesto che età avrebbero voluto avere se avessero potuto tornare indietro nel tempo rispondeva dicendo che gli sarebbe piaciuto avere tra i 16 e i 18 anni, l’età del college, quella in cui l’imitazione è una sorta di obbligo e in cui il pensiero viene considerato essenzialmente un limite all’azione. 

L’età in cui un’ascia furba vuole che gli alberi si fermino perché è più facile controllare un adolescente che non vede l’ora di agire che un adulto che si ferma a pensare. 

Naturalmente non parlo solo di età anagrafica ma, piuttosto, di disposizione mentale. Concordo con Chiara Valerio quando  nel suo La matematica è politica, scrive: “De Finetti diceva che l’incertezza non è eliminabile, solo misurabile. Il primo errore di valutazione nelle cose siamo noi. A vent’anni, non ero disposta ad accettarlo, non avevo smantellato la sovrastruttura di certezze alla quale davo il nome di idealismo.(…) A vent’anni, non ero disposta ad accettare che l’errore è la nostra caratteristica principale. Oggi, a quaranta, mi pare confortante.”

Un adulto sa stare nell’incertezza: sa adottare quella che Keats chiamava Capacità Negativa, può tollerare la frustrazione di non sapere e riesce ad applicarsi su un problema trattenendo l’impulso di buttarsi sulla prima certezza che gli viene offerta da… un’ascia qualsiasi. 

Non è una posizione facile da tenere ma è il principale antidoto contro l’identificazione, la cura che ci permette di differenziarci, non per sentirci migliori ma per mantenerci pensanti. 

Il primo passo di un potenziale dittatore, subito dopo averci fatto credere di essere uno di noi, è quello di chiederci di assomigliargli sempre di più: vestirci in un certo modo, ripetere i suoi slogan, “fare come fa lui”. Sa che se ci convince a prendere una certa postura avrà il nostro voto. Per questo occorre pensare sui nostri gesti e capire quali ci appartengono e quali, invece, sono solo imitazioni e ripetizioni.

È una strada faticosa ma, facendola, ci si imbatte in pensieri davvero pensati, in idee originali e solitudini feconde.

Sul buon uso degli ostacoli

“Io so cos’è una cosa o chi è qualcuno scoprendo ciò che si interpone tra noi”
Adam Phillips

Primo atto del Riccardo Terzo di Shakespeare: uno dei due assassini inviati da Riccardo per uccidere suo fratello, il Duca di Clarence, parlando con il complice che azzarda dubbi sull’opportunità di colpire un innocente, dice: “La coscienza è un compunto spiritello dal volto sempre rosso di pudore, che fa il ribelle nel petto dell’uomo creando all’uomo una massa di ostacoli.”

In quanto ostacolo la coscienza di un bravo sicario va repressa: superata per far sì che egli possa raggiungere l’obiettivo di uccidere la vittima designata.

In questa scena il sicario è il soggetto, la vittima è l’oggetto e la coscienza è l’ostacolo. Se applicassimo come un teorema la frase dell’incipit potremmo dire che l’assassino percepisce chi ha di fronte a seconda dell’ostacolo che si trova a dover superare. La persona diventa la mia vittima se ciò che devo superare per interagire con lui o lei è… solo la mia coscienza, solo un’istanza interna che posso zittire o ascoltare e che, a seconda di come entro in relazione con essa, determinerà la percezione di ciò che mi sta davanti. Se accetto che la coscienza sia un ostacolo non sarò più un omicida e la vittima smetterà di essere tale ma se riuscirò ad ignorarla niente si metterà fra me e il mio obiettivo e anche le mie percezioni saranno diverse: di fronte non avrò più un altro essere umano ma un oggetto, qualcosa su cui è facile smettere di riflettere.

L’ostacolo crea la differenza. Mettendosi in mezzo rallenta l’azione e quasi costringe a pensare.

In terapia si osserva una massiccia presenza di ostacoli  nella depressione e una loro patologica assenza negli stati maniacali. Ho visto persone depresse immobilizzarsi davanti a scelte banali inventando ostacoli su ostacoli. Ragionamenti tipo: “ma poi, se vado… anche se mi hanno invitato magari sperano che non vada… lo so, lo sento che darei fastidio; posso dire che sto male e stare a casa ma farò la solita figura di quella che rifiuta gli inviti… ecco se non vado starò male ma non me la sento di andare, sono disperata…”. E ho assistito a deliri maniacali in cui niente poteva fermare l’ideazione grandiosa: “sì, vabbè, non ho studiato niente ma risolverò tutto, non ho  nemmeno un piano ma inventerò al momento, non possono non capire che sono la persona perfetta…”.

Tra questi  due estremi, tra la completa assenza di spazio e la terribile costrizione del depresso grave e le sterminate praterie dei deliri del maniaco, si delinea un continuum in cui gli ostacoli diventano, per uno psicoterapeuta, una benedizione: qualcosa su cui iniziare un discorso e immaginare un progresso.

“Quando in analisi ‘spacchettiamo’ gli ostacoli –quando pensiamo agli ostacoli come a una via e non come a qualcosa che sta in mezzo alla via –li troviamo, come il vaso di Pandora, pieni di cose insolite e proibite.” (Adam Phillips)

Spacchettare è riflettere. È sia smettere di vedere l’ostacolo nel modo in cui lo vede  il maniaco, come qualcosa da rimuovere senza precauzioni, un contrattempo da distruggere con la volontà, sia evitare di soccombere di fronte ad esso come il depresso che lo trasforma in un’insormontabile costrizione.

Le cose insolite e proibite che si scoprono insieme al paziente in questo lavoro sugli ostacoli sono tutte connesse al desiderio perché non esiste ostacolo senza desiderio e perché gli ostacoli sembrano fatti apposta per attivare il desiderio.

“Cosa voglio superare? Cosa c’è di là, dall’altra parte di ciò che ora  mi impedisce di sentirmi ‘bene’? Chi mette l’ostacolo? Voglio davvero toglierlo? Davvero starò bene senza di esso o il vero gioco è  nel progetto, nell’insieme di cose che devo mettere in atto per superarlo?”

Guardare gli ostacoli ponendosi queste domande è un modo per pensare ad essi come a degli strani oggetti che ci possono rivelare cose su noi stessi e su cosa vogliamo. È anche un modo per curare la mancanza di pensiero. Sia quella tipica della sindrome maniacale che si limita all’andare oltre senza riflettere, sia quella degli stati depressivi in cui il pensiero si riduce a sterile ruminazione.

Quanto curiosi siete quando state per spacchettare un regalo?

La curiosità è, insieme al desiderio, uno degli ingredienti fondamentali per  sviluppare la capacità di vedere gli ostacoli non come qualcosa che ostruisce la via ma come la via stessa. È anche ciò che ci ricorda che “la prima relazione non è con gli oggetti ma con gli ostacoli”.  Ogni oggetto ci è stato dato impacchettato: sempre abbiamo dovuto protenderci verso qualcosa, sempre è stato necessario muoversi per attraversare uno spazio, anche da infanti, per raggiungere il seno. E per incrociare uno sguardo o per farsi sentire.

Nella relazione con l’ostacolo (prima ancora che con quella con l’oggetto) si possono escogitare modi per esaudire desideri difficili. Molto spesso la saggezza sta non nell’eliminazione di ciò che sta in mezzo ma nella capacità di vederlo come una risorsa: cosa insolita e curiosa, significativa, promettente…

Il buon uso degli ostacoli.

Sul rimuginare

“Un tipico sogno ad occhi aperti
dura circa quattordici secondi e ne
facciamo circa duemila ogni giorno”
Science Magazine

La breakfast interview è uno strumento ideato dallo psichiatra Daniel Stern per aiutare un soggetto a individuare i momenti presenti: piccole porzioni di tempo mentale in cui si intrecciano pensieri e affetti, attività cognitive ed emozioni che prendono spunto da uno stimolo che può essere colto nell’ambiente o da un’idea o uno stato d’animo da cui parte una micro-catena di associazioni. Serve inoltre a far sì che si colga l’incredibile densità di ogni momento presente, una densità creata dalla grande quantità di informazioni che si accumulano nella mente in pochi secondi e che normalmente non vengono osservate.

Se si applica questo metodo all’osservazione di cosa accade nella psiche intanto che non si sta svolgendo un compito particolare ma mentre si sta semplicemente pensando ad un argomento come in un sogno ad occhi aperti, si può avere una sorta di istantanea del Default Mode Network: lo stato mentale di cui ho parlato nell’ultimo post e sulla cui natura ho ricevuto un bel po’ di domande.

E’ stato proprio mentre pensavo a come parlarne che mi è venuta in mente la breakfast interview e, a quel punto, è stato ovvio applicarla al mio di stato mentale per raccogliere i pezzi che ora vi racconto a mo’ di esempio.

Pensavo alle domande e all’argomento e, mentre lo facevo mi è venuta in mente l’immagine di un quadro di Van Gogh: “un paio di scarpe”. Insieme all’immagine, ho pensato ad un pezzo scritto da Heidegger a commento del quadro e come spunto per descrivere la funzione dell’opera d’arte in generale. Ho pensato a quanto fosse bella ma barocca e per certi versi pretenziosa la riflessione del filosofo sul quadro e mi è venuta in mente una critica di Derrida che disse forse in modo provocatorio che quello di Heidegger era uno sproloquio e che lui nel quadro vedeva “… delle scarpe, punto e basta”. A quel punto, in modo più emotivo, ho pensato a come fosse possibile che un pensatore acuto come Heidegger, uno in grado di fare riflessioni così complesse, potesse rispondere all’amico Jasper che gli chiese come potesse sostenere una persona ignorante quanto Hitler: “La cultura è del tutto indifferente… basta guardare le sue meravigliose mani.”

Ecco, pensavo queste cose e provavo un po’ di vergogna pensando ad Heidegger e considerando, nello stesso tempo, quanto questa dissonanza fosse una conferma di come il pensiero anche se profondo può lasciare intatte le emozioni e i sentimenti e di quanto certi affetti, se non analizzati, possono obnubilare anche una mente molto sofisticata. Riflettevo su come e se ne avrei parlato in un post mentre spalmavo la marmellata sulle fette di pane per la colazione. Questo primo sogno ad occhi aperti  sarà durato una decina di secondi. Poi sono arrivati altri sprazzi di emozione: un po’ di ansia grezza all’inizio; una sensazione su cui si è aggiunto un pensiero tipo: “perché dovrebbe interessare a chi ti legge la tua pippa mentale… non è che tiri fuori ‘sta roba per dare tu uno sfoggio di cultura?”( pensavo anche a quanto mia moglie mi avrebbe preso in giro su questo punto). L’ansia ha iniziato a trasformarsi in una sorta di vergogna simile a quella che provavo “per Heidegger”; l’ho lasciata andare perché mi sembrava che, comunque, stavo osservando per bene l’intreccio di pensiero ed emozione e perché due altri affetti mi spingevano ad andare avanti: il mio spontaneo insistere appena trovo un pensiero che per me è gratificante (una conseguenza, credo, di un sistema emotivo di ricerca in me sempre molto attivo) e il senso del dovere con una considerazione tipo: “un post su questa cosa lo devo scrivere e da qualche parte devo cominciare”. Questa seconda pensata è durata un’altra decina di secondi.

Per un paio di volte durante questo processo mentale sono stato in bilico sull’orlo del rimuginio. Funziona così, ad esempio: ad un certo punto un’emozione sgradevole fa capolino ed è come se chiedesse al pensiero il permesso di invadere lo spazio; il pensiero si appiccica all’emozione e uno sprazzo di ansia diventa il terreno per una coltivazione di vergogna o di vincoli e successivi rimuginii.

Nel mio caso, prima che imparassi a tenere a bada l’ansia e la paura, il giro del pensiero era: “ecco, tutto questo sforzo per farti vedere e poi sembri uno sbruffone, meglio se stai nel tuo che almeno non rischi di essere frainteso o di non essere proprio visto”. Si chiama evitamento e all’inizio sembra una buona idea ma lascia intatto il rimuginio che, nel mio caso, a quel punto prendeva la china del: “bravo, non fare niente che così non combinerai niente” ecc.

Sotto, sotto al flusso di pensiero scorrono vene profonde di emozioni. A volte sembrano dei semplici rigagnoli ma è come se l’attività del pensiero potesse alimentarli e, quando inizia la ruminazione, l’emozione influenza il considerare e il pensiero rende più densa l’emozione. Ne nasce un circolo vizioso in cui i sogni ad occhi aperti diventano incubi appiccicosi: centinaia di spezzoni da dieci secondi in cui pensare diventa una tortura inutile e senza sbocco.

Siccome la persona con cui più abbiamo a che fare  mentre rimuginiamo siamo “noi stessi”,  la caratteristica fondamentale delle ruminazioni mentali è l’autoreferenzialità.

Spesso il Default Mode Network è imbottito di “…credenze automatiche e ripetitive e ruminazioni sul Sé che costituiscono una parte inseparabile delle emozioni disregolate. Tali narrazioni su di sé possono acquisire una vita autonoma, intrusiva; possono riaffiorare in maniera involontaria e manifestarsi come pensieri familiari, fantasie o immagini, finendo per dominare la nostra esperienza intrapsichica e interpersonale. […] Tali narrazioni o ruminazioni assumono la forma di pensieri negativi ricorrenti su di sé, convinzioni irrazionali, valutazioni denigranti della propria efficacia o del proprio valore, oppure la forma di un’esagerata preoccupazione rispetto al fatto di ricevere un giudizio negativo da parte degli altri.” (Neuropsicologia dell’Inconscio, Efrat Ginot).

Ci sono tanti antidoti per mantenersi al di qua del rimuginare. Quasi tutti hanno a che fare con l’attenzione e con il modo in cui ce la raccontiamo. Le narrazioni sono un ottimo modo per contenere le emozioni: osservarle, esprimerle, condividerle (anche se a volte falliscono). La breakfast interview è un buon esercizio per cominciare a scrutare l’intreccio fra pensiero e affetto, tra riflettere e sentire.

Un paio di scarpe – Vincent van Gogh

Forme Vitali: un’amplificazione

“Saremmo veramente poveri se fossimo solamente sani”
D.Winnicott

“Forme Vitali e… ciò in cui sono immerse” è un mio post di tre anni fa. Rileggendolo mi sono accorto di quanto per me l’idea di Forma Vitale sia un concetto in continua evoluzione.

Allora scrivevo: “Le forme vitali sono modi in cui possiamo modulare la nostra vitalità, stati di attivazione del corpo-mente, stili di nuoto, di cammino, di eloquio, di sintonizzazione con l’altro… modi in cui determino il mio avvicinarmi o tenermi a debita distanza, andarmene, fingere di essere lì, stare e non stare… centinaia di possibili combinazioni del mio sentire, agire, interagire… Il senso di vitalità permea tutta la nostra esperienza: possiamo svolgere un’azione o una serie di azioni in molti “modi soggettivi” diversi: possiamo sentirci fiacchi, pieni di forza, forzati, reticenti, distaccati… mentre compiamo ‘lo stesso gesto’ ”.

Questi modi di essere riverberano nell’ambiente e lo influenzano determinando, in parte, l’habitat che, a sua volta, ci influenza.

C’è, insomma, una ricorsività: un giro di feed-back fra l’individuo e il mondo in cui non si sa chi viene prima, chi compie il primo passo nella direzione del cambiamento, chi “scaglia la prima pietra”.

Quando Daniel Stern parlava di forme vitali si riferiva ad uno specifico modo di porsi con il corpo e nel corpo, raccontava di intensità dei gesti e di percezione soggettiva: quanta forza sento che sto mettendo in questa azione, in questo scambio con il mondo. Diceva, nel suo libro, che l’uso di questo modo di osservare l’uomo poteva aiutare il terapeuta a cogliere l’aspetto energetico, la valenza soggettiva dell’azione che, altrimenti, per chi guarda dal di fuori, può andare perduta.

Con me (e immagino con molti altri terapeuti) sfondava una porta aperta: spesso io ascolto più l’intensità con cui una cosa viene detta che il contenuto del messaggio; sono interessato all’emozione e all’affetto, al tono e al volume, alla densità con cui la comunicazione permea la relazione. Poi viene il significato semantico, ciò che le parole vorrebbero dire e che i gesti, la postura, il timbro, il ritmo, l’enfasi hanno veicolato e ampiamente/sinteticamente espresso. Continua a leggere

Mente e natura

Nei sogni, nelle sembianze degli amici
incontrati ieri sera, ci vengono a
visitare daimones, ninfe, eroi e Dei”
J. Hillman

Mente e natura è il titolo di un libro di Gregory Bateson scritto nel 1979 con l’intento di condensare in un unico testo le basi del pensiero di questo autore che, da sempre, si operò per contrastare la divisione fra i due termini e per insegnare un modo di pensare ecologico: un’ottica che trascendesse la dualità fra psiche e mondo, dimostrando la necessità di quella che lui definì una sacra unità.

L’unità necessaria era, per Bateson, non solo un’ipotesi filosofica o un metodo per guardare i soggetti, gli oggetti e le relazioni che fra di essi intercorrono ma, anche, il modo per approssimarsi a una comprensione profonda che non escludesse una parte per salvarne altre, che non riducesse l’individuo o il suo ambiente a cose da studiare separatamente.

Diceva che “prive di un contesto le parole e le azioni non hanno nessun significato” e cercò sempre di osservare il sistema in cui l’oggetto di studio era inserito.

Nel mio campo, nella psicologia clinica in generale, l’approccio sistemico che invita il terapeuta a non vedere la persona, le sue sindromi e i suoi sintomi come monadi isolate, nasce con Bateson e “il Contesto” è uno strumento irrinunciabile: una lente con cui unire ciò che è diviso e un antidoto a quel letteralismo che spinge a confondere il paziente con la sua diagnosi o con i suoi mali o con le spiegazioni che un qualche tipo di ortodossia dà alla sua vita e al suo particolare modo di soffrirla. Continua a leggere

La “capacità di esistere”

L’obbedienza comporta un senso di inutilità
per l’individuo ed è associata all’idea che
nulla abbia importanza e che la vita
non meriti di essere vissuta”
D.Winnicott

Quando certi psicoanalisti parlano di seno stanno compiendo un’operazione linguistica che sostituisce la parte al tutto. Tentano con questa metafora di descrivere il mondo come si suppone il bambino faccia, scambiando, cioè, una funzione che ha a che fare con la soddisfazione dei propri bisogni con la persona che questa funzione la svolge.
La mamma è buona o cattiva a seconda di quanto viene incontro ai miei desideri e di quanto è pronta ad esaudirli. Un “seno” buono o cattivo diventa così una descrizione di uno stato d’animo: se avevo bisogno e sono stato sfamato/soddisfatto/consolato, se si è verificata quella simbiosi che annulla la tensione e procura piacere, classifico l’esperienza come buona, se, al contrario, sono ancora affamato/frustrato/sconsolato, se nessuno è venuto veramente in mio soccorso, l’esperienza è cattiva, sgradevole, traumatica.

Non pensiate che il bambino faccia un ragionamento su questo sequenza semplificata: siamo nel campo delle sensazioni e queste “pensate” vanno a finire in quella che si chiama memoria implicita e “… la memoria implicita è quella che usiamo quando impariamo ad andare in bici o a gettare una palla. Non dobbiamo sforzarci di registrare nulla quando la utilizziamo, è semplicemente lì nei nostri corpi, pronta da usare. Questo tipo di memoria è controllato da una parte profonda del cervello, lontano dai centri superiori, responsabili del pensiero concettuale e della consapevolezza.”(M.Epstein).

Questa registrazione profonda è in un certo senso molto più primitiva di quella che facciamo con la cosiddetta memoria esplicita: quella narrativa che mette le esperienze in sequenza e che cerca di ordinare i dati in base ad un senso o ad una storia. Continua a leggere

Sulla dissociazione: frammenti

Non è che tu non sia reale. Pensiamo
tutti di essere reali e non c’è niente
di sbagliato. Sei reale. Ma quando
pensi di essere realmente reale, esageri”
Un Lama Buddhista citato da R.Thurman

Dicevo in uno degli ultimi post che “L’interfaccia che determina il modo in cui noi siamo nel mondo, il nostro esserci, è così come ci viene data ed è il punto di partenza da cui il bambino inizia, già immerso in un mondo che non è geometrico e in cui più che diventare geometri dobbiamo imparare ad essere dei bravi giocolieri.” Mi riferivo alla fragilità e alla fallacia di aspettarsi un equilibrio stabile e all’inutilità di irrigidirsi nell’aspettativa di una realtà misurabile e controllabile in ogni momento e, mentre scrivevo la frase di cui sopra, pensavo già al “geometra”: quella parte di noi che, incurante di ogni consiglio di flessibilità e di ogni invito alla consapevolezza del mutamento, erige muri che dovrebbero separare il bene dal male e garantire durata e benessere a chi sta… protetto.

Protetto da cosa? Cosa mettiamo dall’altra parte e cos’è questa suddivisione per parti: dentro/fuori, io/gli altri, familiare/perturbante? Continua a leggere

L’Io: una descrizione

…il reale è caotico e perciò inenarrabile”
D. Starnone

Se faccio la fatica di scrivere, è per trovare una storia. La verità dei fatti è importante, ma non è sufficiente. La verità è puro disordine, non rispetta uno straccio di regola, è tutto il contrario di un racconto.”. Così riflette Domenico Starnone nel suo romanzo Spavento, descrivendo quello che è forse lo sforzo principale e più istintivo, meno pensato, dell’io: dare un qualche tipo di coerenza al mondo.

Le narrazioni, come ho spesso scritto nei post sullo Storytelling, sono un modo per raccogliere percezioni, uno strumento irrinunciabile per cavarsela in una realtà che, senza di esse, risulterebbe priva di senso e non gestibile, sconnessa, impraticabile. Un bravo scrittore sa renderle avvincenti, sa catturare l’attenzione di chi legge e riesce ad accompagnarlo nel proprio flusso di coscienza, portarlo a seguire prima una, poi un’altra ed un’altra ancora delle “scene” che via via si svolgono nel mondo che il racconto descrive.

Ma tutti noi siamo impegnati nella costruzione di una storia e, anche se non ne usciranno libri, è su di essa che si basa la nostra lettura, la mappa che usiamo per orientarci nella vita. Continua a leggere

Emozioni e cervello

…un’emozione allo stato selvatico
può essere addomesticata da un’emozione cosciente…”
J. Hillman

 

Charles Joseph Whitman è stato un Marine americano tristemente noto per aver compiuto una strage il 1 Agosto 1966 ad Austin. Quel giorno Whitman, dopo aver ucciso durante la notte la madre e la moglie, salì sulla torre dell’Università e con 46 colpi di fucile uccise 16 persone e ne ferì altre 30. Alla fine fu ucciso dalla polizia che trovò una lettera scritta di suo pugno in cui chiedeva che, “dopo che tutto fosse finito”, si eseguisse un’autopsia sul suo cadavere. Autopsia che rivelò la presenza nel cervello dell’assassino di un tumore all’amigdala: una formazione sottocorticale implicata nella modulazione e nella percezione di emozioni primarie in particolare la paura e la collera (più precisamente i meccanismi di attacco-fuga e le emozioni ad essi collegate).

Amigdala

Questo non è che uno (e ovviamente dei più eclatanti) casi clinici che “dimostrano” un nesso diretto fra certe strutture del cervello e certe specifiche difficoltà nel controllo delle emozioni. Continua a leggere

Sull’integrazione: tenere a mente la complessità

“Ieri mi sono comportata male nel cosmo.
Ho passato tutto il giorno senza fare domande,
senza stupirmi di niente”
Wislawa Szymborska

Assisto ogni giorno allo “stiracchiamento della realtà” in mappe preesistenti e all’ostinata applicazione di vecchi modi di leggere che, applicati ad un mondo che se ne stesse fermo, funzionerebbero, ma in un sistema continuamente perturbato falliscono, come previsioni del futuro fatte leggendo i fondi del caffè o intuizioni sul mercato dei titoli fatte con la mente di un broker cocainomane.

Assisto a tutto questo senza esserne esente : faccio lo Psicoterapeuta e non guardo alla realtà partendo da uno sguardo superiore che, da una torre d’avorio, la osserva con fredda lucidità.
Sono immerso con i miei pazienti nelle loro visioni del mondo e l’unico “vantaggio” è quello di poter guardare con un po’ di distanza, sapendo che ciò che diremo sarà necessariamente soggettivo, di parte, autoreferente.

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