Cronaca 17 – Sul narcisismo I Parte

“Siamo sempre nell’abbraccio di un’idea”
J.Hillman

Scrivo questo post dopo aver letto un articolo di Roberto Cotroneo intitolato “Il narcisismo è la malattia del futuro”. Concordo in una certa misura con il punto di vista dell’autore e prendo come spunto il suo scritto per riflettere un po’ sulle immagini, sulle rappresentazioni e sull’idea di attaccamento all’immagine e di “tradimento di ciò che si è”.

Come altri miei post anche questo sarà un’amplificazione: un procedere, come faceva Jung, girando intorno all’immagine e al concetto di cui si vuole parlare e su cui si decide di mettere l’attenzione, un lasciare che le associazioni si liberino e che escano altre idee che stanno di fianco, vicino o in ombra rispetto all’argomento.

Ogni volta che parliamo di Narcisismo facciamo un discorso sull’Immagine: ogni volta che tiriamo in ballo lo smodato amore per l’apparenza, per la “bellezza superficiale” e per l’accento sulla cosmesi (il bisogno di nascondere le magagne e di stendere un velo su ciò che siamo per… sembrare meglio), ogni volta che ipotizziamo una distanza fra l’essere e l’apparire, evochiamo, come fece Freud, la figura mitica di chi nell’immagine si perse.

Nel mito, l’indovino Tiresia aveva predetto che “Narciso sarebbe vissuto a lungo purché non avesse conosciuto se stesso”… ma un giorno Narciso, che era così bello da essere corteggiato da uomini e donne e così vanitoso da rifiutare ogni avance, vide la propria immagine riflessa in uno stagno e… se ne innamorò a tal punto da non potersene più staccare.

Freud prese a prestito questo mito, così come fece con quello di Edipo, per descrivere una patologia e per esemplificare un comportamento: il narcisista è così concentrato su di sé da non vedere più tutto il resto, così preso dalla propria idea di se stesso da trascurare gli altri e da rendersi irraggiungibile, immune dall’empatia e dal coinvolgimento, isolato in una finta indifferenza che lo rende “più bello” degli altri.

Concordo con Cotroneo quando nel suo articolo sostiene che, in una società dedita all’immagine come la nostra, è facile fissarsi sull’apparenza e confonderci con le immagini che di noi “pubblichiamo”: quelle che ci piace far vedere e che rappresentano non tanto noi stessi quanto ciò che vorremmo che di noi venga visto: ciò che può funzionare come un biglietto da visita che cattura l’attenzione dell’altro e lo affascina.

Il Narciso mitologico (e anche quello patologico) è così attratto e innamorato di sé che considera naturale l’essere circondato da ammiratori e si offende non appena si accorge che il culto della personalità che crede gli spetti di diritto non ha luogo; è talmente identificato con la propria immagine che non vede altro e non vuole che venga visto altro che ciò che non può che piacere.

Ecco, allora, la cura esasperata per l’apparenza, l’insistenza su un dettaglio che, come un feticcio, possa contenere ciò che vogliamo che venga colto: un profilo (il migliore), una parte del corpo (la più attraente/affascinate), un accessorio che nasconde-evidenzia-aggiunge un non so ché-dà un’aria…

Non c’è e non ci sarebbe niente di male se fossimo tutti attori impegnati in una rappresentazione teatrale in cui è importante evidenziare delle parti, catturare l’attenzione dello spettatore, rendere l’idea di un carattere o di una caratteristica tramite un gesto, una postura, un costume, un orpello.
Nel teatro il narcisismo è benigno: l’attore deve ipnotizzare con la propria presenza, ammaliare e pretendere l’attenzione e il plauso. E’ il suo mestiere e sa che è scena e messinscena spettacolo, appunto, e gioco delle parti e divertimento nel senso etimologico di di-vertere: volgere o far volgere da un’altra parte l’attenzione.

Mentre l’attore è consapevole del proprio ruolo il narciso è preda della rappresentazione di se stesso e “talmente nella parte” da scordarsi di tutto il resto.

Da un punto di vista clinico quella che, presa a piccole dosi, potremmo catalogare come vanità, eccessiva autostima o tendenza egocentrica diventa, invece, una malattia, nel momento in cui impedisce al paziente di staccarsi dalla propria immagine per andare verso l’altro riconoscendo i suoi bisogni, il suo sentire e la sua stessa esistenza.

Il Disturbo Narcisistico di Personalità può avere vari gradi di intensità che, dal più lieve al più grave, coprono un continuum che va dall’adolescente troppo preoccupato/a della propria immagine fino all’assassino che, offeso, non guarda i motivi dell’altro e, totalmente incurante della sua sofferenza, decide di ucciderlo pur di piegarlo al proprio volere.

Eco, la ninfa che, nel mito, si innamora di Narciso, impazzisce perché non riesce a farsi ascoltare dal “ragazzo innamorato di se stesso”. E lui rimane, come spesso succede nei miti e nella realtà, bloccato in una sorta di incantesimo, fissato nel momento e senza possibilità di uscire dalla situazione in cui il suo destino l’ha condotto.

Dovrebbe, Narciso, se volesse guarire, ed è difficile che un narcisista voglia guarire perché è così dedito alla cura dell’immagine e al culto di sé che non ha tempo per occuparsi d’altro e non gli rimane energia sufficiente all’introspezione, dovrebbe guardare oltre all’immagine, appena dietro, scorgendo cosa c’è in ombra, riflesso un po’ più in là nello specchio in cui continua a riflettersi dimentico del proprio rispecchiarsi.

Scorgerebbe allora qualcosa di molto diverso da ciò che si aspetta di vedere: un’altra immagine non così “bella”, qualcuno di cui vergognarsi, che deve stare nascosto, non troppo in vista, in ombra, appunto.

C’è un’ombra perfetta per Narciso, per il narciso che alberga in ognuno di noi: Priapo, il figlio mostruoso di Venere/Afrodite, un mostriciattolo che porta in giro un enorme pene e che ha imparato a nascondersi perché il suo “accessorio” è così ingombrante che le ragazze quando lo vedono scappano spaventate e, quando ne parlano, quando parlano di lui e del suo apparire, lo fanno riferendosi solo a quell’enormità/mostruosità che, più che accompagnarlo, lo precede.

Il fallo enorme di Priapo è l’eredità di una maledizione di Giunone che, gelosa del possibile rapporto della dea del sesso e dell’amore con suo marito Zeus, decide di toccare con l’indice il ventre di Venere rendendo così mostruoso il bambino che in esso sta prendendo forma.
E Priapo se ne va in giro, fin dalla nascita con in mostra, in mezzo alle gambe, il “dito di Era/Giunone”: un pene enorme che lo precede e appare sopra a tutto il resto, nascondendo tutto il resto e costringendo Priapo a nascondersi e a sperare che chi lo vede abbia la capacità di vedere oltre a ciò che in lui si erge da sempre, da molto prima che il Viagra venisse inventato.

L’ombra perfetta di Narciso: qualcosa/qualcuno da non fotografare e da non mettere in mostra su Twitter, qualcuno che non vorremmo ci rappresentasse, non troppo apertamente, almeno.

Se meditiamo sull’Ombra il nostro sguardo diventa più profondo: possiamo andare oltre all’avatar, l’immagine che abbiamo scelto per rappresentarci e per “farci belli e interessanti” e vedere dietro scorgendo anche ciò che siamo costretti a nascondere.
E’ un ottimo esercizio e un inizio di cura del narcisismo che, ha ragione Cotroneo, altrimenti non potrà che peggiorare.
Possiamo farci un po’ di domande psicologiche: “Cosa voglio far vedere di me? e cosa voglio invece nascondere a tutti i costi? cosa c’è di veramente pornografico nella mia immagine? cosa, insomma, appare subito e preferisco non sia visto? cosa ostento o faccio di tutto per non ostentare?”

Narciso era e vuole essere il bello che appare; Priapo è costretto ad essere colui che non può nascondere.
Entrambi, se guardati con consapevolezza e senza quella visione unilaterale che ci rende stupidi, sono portatori di grande potere.

Unirli, sapere che uno può diventare lo sfondo dell’altro, accostarli e alternarne l’immagine può servire per renderli uno l’antidoto dell’altro o per rendere il nostro sguardo più profondo e fertile.

Priapo

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