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Attacchi al legame: le custodi del mondo

Facile da vivere la vita
di colui che è senza vergogna,
impudente come la cornacchia”
Dhammapada

Dicevo, nell’ultimo post, che avrei spiegato un passaggio in cui affermo che ci sono persone così sicure della giustezza dei loro legami che trovano naturale attaccare quei rapporti che non assomigliano a quello che, secondo loro, è il modo naturale di amare, prendersi cura, stare insieme. Sostengo in particolare che: “Non notano le somiglianze perché sono immemori e lo sono perché odiano”.

E’ un punto fondamentale e ci tengo a parlarne perché, al di là dell’indignazione con cui mi capita a volte di commentare quelli che considero atteggiamenti poco civili e distruttivi, il virgolettato di cui sopra tratta un argomento cruciale per le relazioni e per la sanità mentale in generale.

La capacità di notare somiglianze è la colonna senza la quale il complesso sistema che ci permette di essere empatici crollerebbe. L’empatia intesa come capacità di sentire insieme all’altro e di provare ciò che lui prova è una funzione senza la quale ogni convivenza sarebbe impossibile. Anche il semplice fare branco ha bisogno della facoltà di riconoscere somiglianze e differenze e non c’è legame in cui non venga, innanzitutto, considerata l’affinità: il desiderio di stare vicini a chi ci assomiglia.

Detto questo… devo spiegare perché a volte mi definisco un discreto sostenitore dell’odio: dicevo nel post a cui vi rimando che senza un po’ di odio non ci svincoleremmo mai da certi legami e in altri articoli ho propugnato il principio in base al quale un terapeuta dovrebbe essere senza memoria e senza desiderio: più interessato a conoscere che a sedurre, più attento a ciò che accade qui e ora che innamorato di ciò che si era costruito nelle sedute precedenti. Empatico, sì, ma fino ad un certo punto! Continua a leggere

Sulla comunicazione: plasticità

La plasticità, nel senso più ampio del termine,
consiste nel possedere una struttura abbastanza
debole da cedere di fronte ad un influenza, ma
abbastanza forte da non cedere subito”
William James

Forse uno degli insegnamenti più preziosi di Freud è il principio secondo cui ciò che in una mente non è compreso e integrato tende a tornare e a ripetersi. Ripetiamo ciò che non comprendiamo: tendiamo ad agire in modo inconsapevole e automatico nelle aree della nostra vita in cui “il pensiero ha la strada sbarrata”. Scoprì, Freud, che certe azioni che determinano effetti nella nostra vita e in quella di chi ci circonda sono compiute non tanto dal soggetto consapevole, quanto da un insieme di circuiti di risposta: abitudini con cui, come automi, rispondiamo seguendo sentieri tracciati, percorsi che, ad un certo stimolo, fanno seguire una reazione.

Abbiamo appreso queste abitudini ed è stato utile acquisire dei modelli che sappiano “agire prontamente” per risolvere un problema, superare un ostacolo, gestire una situazione di routine o un imprevisto. Tuttavia, è proprio nel punto di forza che si annidano i guai: risposte che vanno bene nella maggioranza dei casi possono rivelarsi letali in certe particolari eccezioni; metodi che danno buoni risultati in certi contesti, risultano inutili o obsoleti in altri. E alcune attitudini particolarmente conservatrici (come il letteralismo di cui ho parlato nell’ultimo post) non fanno che cronicizzare la situazione rendendoci bravi a dare sempre le stesse risposte e incapaci a trovarne di nuove.

E’ come se, dopo aver accumulato un certo numero di risorse, ce ne andassimo in giro usando sempre quelle, adattandole un po’, magari, ma senza aggiungere nuove frecce alla nostra faretra e nuovi utensili alla nostra macchina relazionale. Continua a leggere

La maggioranza è cattiva

Le domande che ci assorbono
ci sono state tramandate”
J.Hillman

Uno dei saggi dell’antica Grecia, tale Biante, uno il cui nome non è passato alla storia quanto quello di alcuni suoi colleghi, grandi saggi anche loro (Solone, Talete), un giorno in cui si era recato in visita al tempio di Delfi, fu invitato a scrivere una frase che restasse per i posteri e che fosse un po’ la sintesi della sua saggezza, qualcosa che stesse bene di fianco al famoso Conosci te stesso, di Solone.

Scrisse: Oi plestoi kakoi: La maggioranza è cattiva.

E’ una frase su cui si è discusso un bel po’ e che, dalla maggioranza, è stata tranquillamente rimossa.

Credo si possa dire che, in un certo senso, sia una frase che si rimuove da sola. Se la leggiamo come singoli individui il trucco per farla sparire sullo sfondo è di una facilità imbarazzante: “ Ah già… sì, banale… loro, la maggioranza, sono cattivi… io non sono la maggioranza, io sono io…”. Se invece la “prendiamo in esame” come membri di una qualche parte/partito/fazione, l’armamentario che abbiamo a disposizione per contestarla o per cavalcarla è variegato ed estremamente complesso: ci sono tomi di teoria politica, manifesti di partito, opinioni dei leader, fatti storici (sic), che “dimostrano” quanto la maggioranza di cui si sta parlando sia, a seconda delle intenzioni di chi parla, quella giusta, quella rivoluzionaria, quella per la prima volta nella storia “davvero buona”, oppure, al contrario, sì, quella cattiva che, presto verrà smontata da quella giusta… ecc. Continua a leggere

Storie nelle storie

 

Un autore scrive delle parole, che però sono inerti.
Per essere portate in vita hanno bisogno di un catalizzatore,
e il catalizzatore è l’immaginazione del lettore”
J.Gottschall

 

Quando alla fine del 1800 Nietzsche scriveva: “Che cosa può soltanto essere la conoscenza? – ‘Interpretazione’ non ‘ spiegazione’.”, intendeva porre le basi per una vera e propria rivoluzione nel campo del sapere: si intravedeva già, nella scienza, la possibilità di arrivare a conclusioni diverse a seconda dell’ottica da cui si guardava, diventavano sempre più evidenti, nelle dottrine umanistiche, la “relatività della verità” e l’impossibilità di affermare un’unica, inalterabile visione del mondo.

Nasceva in quegli anni la Psicoanalisi e, con essa, l’idea che le parole potessero, in qualche modo, guarire. Un’utopia in cui ancora in tanti non credono, una credenza che postula la possibilità di curare i sintomi del disagio psichico e a volte, addirittura, della malattia mentale, ascoltando e interpretando, ri-osservando e descrivendo in modo diverso la realtà che il paziente vive e le relazioni in cui è immerso.

C’è alla base di questo credo che, come tutte le dottrine ha i suoi seguaci, i suoi sacerdoti e i suoi dogmi, l’idea che il cervello produce e influenza la mente e che la mente influenza e può cambiare il cervello.

Prigione Michelangelo

Se così fosse, se fosse vero che parlando, osservando e rileggendo i pensieri, le convinzioni e gli “stati d’animo”, si può modificare la macchina che determina, in modi oscuri e sotterranei, il “come ci sentiamo”… se fosse vero, basterebbe lavorare sulla mente: agire su quella sostanza impalpabile che scaturisce dall’attività del cervello.

Anche questa, naturalmente, è un’interpretazione. Nient’altro che un modo di considerare l’uomo, una descrizione possibile di come le cose funzionano. Crederci significa aprire la strada a un metodo: una serie di azioni, più o meno codificate, che, a partire da una teoria, puntano a produrre certi risultati. Continua a leggere

Storytelling: suffer vs endure

“Non  importa quello che hanno fatto di noi,
importa quello che  facciamo con quello che gli altri
hanno fatto di noi”
J.P. Sartre.

Gli accenni che, in questo post, farò alla psicoterapia sono solo pretesti: un espediente per parlare della vita quotidiana e della costruzione di realtà che, più o meno consapevolmente, sempre facciamo.

Sono convinto che, come diceva Hillman, la psiche è il giardino in cui ci troviamo, non solo “dentro la testa” ma dappertutto. Ci sono giardinieri? Le cose crescono spontaneamente? Quanto di ciò che “vediamo” è natura e quanto è cultura, lavoro dell’uomo? Che strumenti vengono usati per coltivare tutto questo?

J. S. Grotstein, uno psicoanalista, parlando di come, secondo Bion, bisognerebbe rapportarsi con una persona in cura, dice: “Il paziente deve essere contenuto analiticamente ed essere così in grado di patire (suffer) e non di sopportare con determinazione (endure), ma ciecamente, la sofferenza delle esperienze emozionali.”
E’, questo, un principio chiave non solo della psicoanalisi ma di ogni psicoterapia: è una delle chiavi di volta di ogni trattamento che miri a recuperare l’umanità e a diminuire il cieco ripetersi dei meccanismi di difesa, il mero rispondere colpo su colpo di cui, spesso, è fatta una nevrosi.

Endure

E’ anche uno dei motivi per cui fare della terapia è, spesso, “una faticaccia” e, fortunatamente, la ragione per cui vale la pena farla. Continua a leggere

Cronaca 20 – Desiderio di conoscere: leggere, scrivere, sognare

 “…non possiamo che essere tolleranti con noi stessi
e con gli altri, rinunciando a essere paladini della Verità
e gioendo dell’essere artigiani del grado di sviluppo
mentale tollerabile per i nostri pazienti e per noi stessi”
Antonino Ferro

Solo apparentemente questa Cronaca parla di psicoterapia, o meglio, ne parla per parlare della relazione, della cura e della psiche (quando si parla di queste tre cose insieme si sta sempre parlando anche di psicoterapia). Fare distinzioni è importante e aiuta a conoscere ma sono convinto che occorra combattere contro le distinzioni troppo nette, quelle che offrono una certezza che può, a volte, paralizzare il pensiero in un sapere angusto e stereotipato.

Leggere, scrivere e sognare sono, apparentemente, attività distinte… Anche ora, leggendo state un po’ scrivendo e un po’ sognando.

Dalì_La tentazione di Sant'Antonio

Dalì. La tentazione di Sant’Antonio

Dopo aver letto l’ultima Cronaca un’amica mi ha chiesto cosa intendo esattamente quando affermo che concordo solo in parte con un “collega coraggioso” che asserisce che il trattamento analitico non è una cura ma uno spazio dove il paziente lavora sulla propria volontà di ignoranza. Continua a leggere

Cronaca 19 – Desiderio di conoscere: aragoste e filosofi

Perché ci hai dato sguardi profondi
per scrutare presaghi il futuro
e mai abbandonarci, in un’illusione beata,
al nostro amore, alla felicità terrena?
Perché ci hai dato, sorte, i sentimenti
che ci fanno guardar l’un l’altro nel cuore
per indovinare negli astrusi viluppi
il vero legame che ci tiene?
Goethe

Nell’agosto 2003 David Foster Wallace partecipò, in veste di inviato della rivista Gourmet, al Festival dell’aragosta che si svolge ogni estate nel Maine. Scrisse un breve saggio, una via di mezzo fra la cronaca dell’enorme evento a cui partecipano centomila persone (con dati statistici, opinioni degli abitanti, considerazioni su cibo e costume ecc.) e le sue impressioni soggettive che lo portarono a chiedersi se davvero, assistendo alla preparazione di cento crostacei alla volta, alcuni dei quali hanno 40, 60 e in alcuni casi 80 anni di vita, che vengono cotti -vivi- nella “Pentola per aragoste più grande del mondo”, si può restare imperturbabili e perfettamente sereni.

Considera l'aragosta

Diceva Wallace: “A ogni modo, al Fam (festival annuale dell’aragosta), mentre si sta vicino alle vasche gorgoglianti accanto alla Pentola per aragoste più grande del mondo, a guardare le aragoste appena pescate ammassarsi l’una sull’altra, agitare impotenti le chele bloccate, stringersi insieme negli angoli in fondo o grattare freneticamente il vetro quando ti avvicini, è difficile non percepire che sono infelici, o spaventate, anche se è solo una versione rudimentale di queste emozioni… e, di nuovo, che c’entra poi se è solo rudimentale? Per quale motivo una forma di dolore primitiva, non verbalizzata, dovrebbe essere meno urgente o scabrosa per la persona che se ne rende complice pagando per il cibo in cui essa risulta?”. Continua a leggere