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Perfezionismo malsano

Quando la tempesta sarà finita, non saprai
 neanche tu come hai fatto ad attraversarla e a uscirne vivo.
 Anzi, non sarai neanche sicuro se sia finita per davvero.
 Ma una cosa è certa.
Ed è che tu, uscito da quel vento,
non sarai lo stesso che vi è entrato.
Haruki Murakami

Ho letto recentemente un articolo di Margaret Rutherford sul Perfezionismo Malsano e su quella che questa autrice chiama Depressione perfettamente nascosta. L’ho trovato molto interessante perché penso che, anche a causa del momento storico che stiamo vivendo, la richiesta più o meno soggettiva di perfezione e il continuo sforzo di essere all’altezza delle aspettative nostre ed altrui, sia una delle trappole in cui gli adulti e ancor di più i ragazzi/e possono cadere.  

Qui di seguito troverete la traduzione che ho fatto per voi e per i miei pazienti dell’articolo integrale (chi preferisce l’inglese lo trova qua).

È abbastanza lungo (non da leggere tutto d’un fiato) e abbastanza “americano”: molto esplicativo, con tanto di elenco dei tratti necessari alla diagnosi della sindrome e di esercizi per prendere consapevolezza e cominciare a fare qualcosa a riguardo. Può darsi che lo troviate un po’ ridondante ma lo consiglio caldamente soprattutto a chi ha figli e ai caregiver in generale. Mi sono già state fatte delle domande sui contenuti che troverete da persone con cui ne ho parlato e che l’hanno letto e ho deciso che risponderò in un podcast nei prossimi giorni. Sarà una sorta di amplificazione di alcuni punti con l’aggiunta di qualche esempio e di una visione un po’ più psicodinamica: più incentrata sul versante psichico interno che sul comportamento esterno. Sapete che sono un sostenitore dell’idea Batesoniana che “due descrizioni sono meglio di una”, due vertici da cui guardare aiutano nella percezione di “profondità” di un argomento. 

Se leggendo l’articolo anche a voi vengono delle domande mettetele nei commenti.
Mi aiuteranno nella riflessione e cercherò di rispondere nel podcast.
Buona lettura! 

Come superare il “non è mai abbastanza”

Imparare a riconoscere il perfezionismo malsano, capire le sue fonti emotive e trovare un modo per mettere a tacere la voce autocritica che ne deriva

di Margaret Rutherford

Cosa devi sapere

“Se vale la pena farlo, vale la pena farlo bene”. Quante volte l’ho sentito dire da piccola? I miei genitori cercavano di insegnarmi (nel caso in cui non l’avessi assorbito dalle loro azioni) l’importanza della ricerca dell’eccellenza. Incoraggiavano quello che alcuni psicologi chiamano “perfezionismo costruttivo” o “sano perfezionismo” – un tratto della personalità associato alla ricerca del piacere e all’idea di potersi realizzare nella vita facendo le cose al meglio. Con il “perfezionismo costruttivo” o “perfezionismo positivo” l’attenzione è orientata al processo; si impara dagli errori e addirittura dal fallimento. E’ generalmente considerato un tratto benefico della personalità legato all’essere coscienziosi e auto-disciplinati.

Tuttavia il perfezionismo può avere un lato oscuro. L’autrice americana Brené Brown nel suo primo libro “The Gifts of Imperfection” ha definito questo tipo di perfezionismo come “un sistema di credenze auto-distruttivo, che crea dipendenza e che alimenta una modalità di pensiero primario che dice: se sembro perfetto, vivo perfettamente e faccio tutto alla perfezione, posso eliminare i sentimenti dolorosi di vergogna, giudizio e colpa”. Questa forma di perfezionismo, nutrito da un sentimento di vergogna interiore che deve essere placato, ci costringe a tentare continuamente di soddisfare le aspettative connesse alla nostra idea di “cosa è perfetto”. Questo perfezionismo non è appagante ed è tutt’altro che piacevole. Eppure molte persone sentono l’obbligo di apparire come se tutto ciò che le riguarda fosse perfetto e considerano che non farlo mette in evidenza l’imperfezione.

Nella letteratura psicologica questo tratto è conosciuto come “perfezionismo malsano” o “perfezionismo distruttivo”. In questo tipo di perfezionismo ciò che conta non è il processo ma il risultato. Chi ne è affetto pensa solo all’obiettivo e da esso è guidato e ne subisce la pressione. Credo che stia contribuendo sempre più ai problemi di salute mentale.

Diciamo che i perfezionisti costruttivi, se sono nuotatori, vogliono battere il loro record personale. Questo intento porta con sé molte vibrazioni positive. E’ davvero fantastico vincere una gara!

Ma i perfezionisti distruttivi vogliono essere il nuotatore perfetto. E vincere ogni gara è l’obiettivo; se non lo fanno la vergogna li fa sentire di poco o nessun valore.

Molte persone perfezioniste si posizionano da qualche parte sullo spettro fra questi due poli. Ma nella mia pratica clinica ho notato un altro problema: per ironia della sorte i perfezionisti distruttivi non si riconoscono come perfezionisti perché non pensano che il loro meglio sia abbastanza. C’è sempre il prossimo traguardo da raggiungere. E poi il prossimo e il successivo.

Allora quali sono le radici del perfezionismo distruttivo? Credo che spesso le persone sviluppino questo modo di pensare e di essere quando crescono senza un senso di sostegno, di sicurezza e di nutrimento. Può essere anche una reazione a traumi infantili o ad aspettative culturali estreme dove la vulnerabilità è disprezzata e verso le quali apparire perfetti diventa una strategia obbligatoria per sopravvivere emotivamente.

Nell’ultimo decennio ho curato sempre più persone che non sapevano bene perché fossero venute in terapia. Avevano eretto enormi barriere contro la rivelazione di qualsiasi tipo di dolore emotivo; mi sono addirittura chiesta se avessero la capacità di esprimere certi sentimenti. All’esterno non sembravano affatto depressi; descrivevano i loro problemi più come il risultato di troppo lavoro, della stanchezza e di un’ansia moderata.

La mia interpretazione è che fossero dei perfezionisti distruttivi che stavano esaurendo le proprie forze ma che non capivano cosa ci fosse (e se ci fosse) qualcosa di sbagliato. Il loro dolore emotivo era sapientemente, e spesso inconsciamente, nascosto.

Se avessi chiesto loro se erano depressi avrei sentito una ferma negazione. “Ho troppe cose belle nella mia vita per essere depresso”. Se chiedevo se nella loro infanzia si erano sentiti sicuri e protetti ridevano e negavano o minimizzavano qualsiasi problema. A volte diventavano molto silenziosi e guardavano fuori dalla finestra come se avessero voluto essere ovunque tranne che nel mio studio.

Ma, se tornavano per un po’ di sedute, cominciavano pian piano a prendersi il rischio di condividere una serie di segreti pieni di vergogna. Il loro apparentemente impenetrabile mantello di silenzio scivolava lentamente via rivelando una tremenda solitudine e disperazione.

E in molti casi, mentre abbassavano la guardia, ho scoperto che erano in grado di capire che ciò che era “sbagliato” o malsano non rientrava nella descrizione della classica depressione. Ma era altrettanto reale e altrettanto dannosa.

Ho fatto delle ricerche nella letteratura su perfezionismo, vergogna e paura della vulnerabilità. Ho trovato un gran numero di ricerche e di scritti sull’importanza della vulnerabilità e sul costo della vergogna della già citata Brown, le vecchie riflessioni sulla “depressione nascosta” del terapista famigliare Terrence Real, e il libro Self-Compassion della psicologa Kristin Neff. Ma non ho trovato nulla per il grande pubblico sul rapporto tra perfezionismo e una forma potenzialmente grave di depressione.

Così, basandomi sull’esperienza e sulle storie cliniche dei molti clienti che ho visto nel mio studio in 25 anni, ho formulato le mie idee su questo specifico problema e su come possa essere affrontato nel modo più efficace ed empatico. Il mio lavoro – esposto nel libro Perfectly Hidden Depression (2019) – parla di come la pericolosa depressione alimentata dal perfezionismo può affliggere la vita di una persona; di quanto anche individui con un punteggio basso su un questionario che misura la depressione standard possano vivere portando con sé difficoltà emozionali profondamente radicate ed esperienze traumatiche irrisolte che sono in grado di minare la loro voglia di vivere. Ho chiamato questa sindrome “depressione perfettamente nascosta”.

Ho identificato dieci tratti che si manifestano nel comportamento e nel processo decisionale di persone che mostrano gli indicatori di questa sindrome:

  • Siete estremamente perfezionisti; spinti continuamente da una voce interiore critica che incute vergogna o paura.

  • Dimostrate un elevato o eccessivo senso di responsabilità e ricerca di soluzioni.

  • Avete difficoltà ad accettare o esprimere emozioni dolorose, cercate di rimanere analitici e “chiusi nella vostra testa”.

  • Minimizzate, cercate di ignorare o negate abusi subiti o traumi nel passato o del presente.

  • Vi preoccupate molto (ma nascondete questa abitudine) ed evitate situazioni in cui non siete in controllo.

  • Siete molto concentrati sui vostri compiti e sulle aspettative degli altri, usate il risultato come un modo per sentirvi apprezzati. Ma non appena l’ultimo risultato svanisce ritorna la pressione e tutti i successi diventano scontati.

  • Avete una solerte e sincera cura per il benessere degli altri, ma interiormente ve ne concedete poca, se non nessuna.

  • Siete profondamente convinti di “dover essere grati per quello che avete” e sentite che qualsiasi altro atteggiamento rifletta una mancanza di gratitudine.

  • Avete difficoltà emotive con l’intimità ma siete in grado di raggiungere un notevole successo professionale.

  • Possono associarsi a questi tratti dei disturbi mentali che comportano problemi d’ansia e di controllo come contemplati nel Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC) e nel Disturbo da Ansia Generalizzata (DAG), Panico e Disturbi Alimentari.

Se leggendo questi dieci tratti scoprite che molti o tutti vi corrispondono, sentitevi in qualche modo rassicurati: potrebbe illuminarvi sul perché vi sentite così, sul come mai non sapevate che cosa ci fosse di sbagliato e su perché vi vergognavate anche solo a considerare che ci fosse. Se vi si è accesa una luce – se riconoscete di non accettare di condividere nessuna vulnerabilità: o forse riconoscete questi tratti in qualcun altro, allora come prima cosa: respirate. E sappiate questo: ho scoperto che c’è un antidoto alla depressione perfettamente nascosta: l’accettazione di sé.

Che cosa fare

Se credete di essere un malsano perfezionista e che questa condizione potrebbe mascherare i vostri ben radicati problemi emotivi, vi propongo cinque fasi che potrebbero aiutarvi: consapevolezza, impegno, confronto, connessione e cambiamento.

La prima fase: consapevolezza

Questa fase si riferisce all’importanza di diventare consapevoli innanzitutto del fatto che il vostro perfezionismo è un problema. Anche se il riconoscere i propri problemi fa parte di ogni processo di guarigione emotivo/mentale, questa fase potrebbe essere particolarmente complicata per voi a causa del fatto che vi siete convinti che i vostri tratti perfezionisti sono normali e non sono un problema. Vi chiedereste: “Non siamo tutti così?”. La risposta è un clamoroso: “No”. Inoltre rinunciare o modificare una strategia che vi ha portato al successo esteriore è probabilmente molto difficile. Di fatto il procedimento che usate per evitare ricordi o sensazioni dolorose potrebbe essere diventato qualcosa che fate inconsciamente.

Ci sono vari modi per sviluppare una maggior comprensione del ruolo che il perfezionismo distruttivo sta giocando nella vostra vita. Uno di questi, che potete fare da soli è la mindfulness (attenzione consapevole). Molti autori che scrivono di mindfulness spiegano che non si tratta di una attività in cui bisogna essere sempre concentrati su qualcosa. Essere mindful ha più a che fare con il cambiare il come prestate attenzione. La mindfulness approfondisce la vostra esperienza del presente.

Ecco una semplice tecnica: sedetevi in un posto comodo e tranquillo e mettete un timer per tre o cinque minuti. Respirate profondamente e chiudete gli occhi. State il più focalizzati possibile sui respiri, se serve contateli fino a dieci e poi ricominciate. Se la vostra mente vaga (e lo farà) lasciate andare dolcemente i pensieri che arrivano e concentratevi nuovamente sul respiro. Quando il tempo impostato finisce osservate le vostre emozioni con gli occhi ancora chiusi. Potrebbe esserci irritazione, sollievo, sentirsi ridicoli per ciò che state facendo. Notatele e guardatele dissiparsi.

Per prendere coscienza ci vuole pazienza. Più vi eserciterete in questa pratica, più vi accorgerete di come interagite con il mondo interno ed esterno, svilupperete inoltre una maggiore comprensione di come il bisogno di sembrare perfetti si sia insinuato in quasi tutti gli aspetti della vostra vita.

La seconda fase: impegno

Anche se diventate più consapevoli dei problemi che il perfezionismo vi causa, vi renderete conto che cambiare è difficile. Ironicamente (e distruttivamente) questo può trasformarsi in un altro obiettivo da raggiungere per… essere perfetti. Ho scoperto che ci sono cinque grandi ostacoli da superare per arrivare a mettere in dubbio la presa che il perfezionismo esercita sulla vostra mente e sul vostro cuore:

  1. Essere così dediti al compito che se si vacilla o se non lo si compie perfettamente si lascia perdere o si cerca di non pensarci più.

  2. Iniziare con un obiettivo troppo difficile o troppo vasto.

  3. Andare avanti da soli e non chiedere aiuto nel cammino.

  4. Fare i conti con la paura e la vergogna di dover rinunciare al proprio personaggio pubblico e alle proprie strategie di gestione man mano che lo stress aumenta.

  5. Altri precedenti disturbi mentali, tipo un DOC o disordini alimentari, che potrebbero peggiorare a causa dell’aumento di pressione.

Una delle migliori strategie per superare i primi due potenziali ostacoli è quella di trasformare l’idea di “impegno” in quella di “intenzione”. L’idea di intenzione è meno tirannica di quella di impegno. Contiene più grazia e più perdono (n.d.t.: Pensate alla differenza tra “commitment/impegno”, che implica l’idea di impegnarsi come in una promessa riguardo al raggiungere un obiettivo, e “intention/intenzione” che invece rimanda a interesse, curiosità, voglia di andare verso). Guardando più da vicino il terzo ostacolo provate a fare questo esercizio scritto: riflettete e scrivete i casi che riuscite a ricordare in cui non avete chiesto aiuto ma, col senno del poi, sarebbe stato utile farlo. Ritornate a quel momento e ripensate a quello che avreste potuto dire o chiedere. Provate a dire a voce alta e ad ascoltare cosa avreste detto. Come vi fa sentire? E nel presente in quale situazione potreste chiedere aiuto?

In questo modo aumenterà la vostra consapevolezza di come il bisogno di sembrare in controllo vi abbia impedito di chiedere aiuto. Quando iniziate a fare pratica sul chiedere aiuto fatelo come se fosse un attore che ripassa le proprie battute. Fare questo esercizio può aiutarvi a creare una nuova percezione di voi stessi: una persona che può chiedere aiuto e che lo fa.

Il quarto ostacolo della lista potrebbe essere il più difficile. Abbandonare le vostre tendenze perfezioniste vi farà sentire come se vi toglieste l’armatura mentre siete nel bel mezzo di una battaglia – le avete usate come strategia di adattamento per tanto tempo, anche se erano controproducenti. Tenere un diario è uno dei modi migliori per iniziare a buttare giù sulla carta quando, dove e come si è tentati di rimettersi questa maschera. Sarà più facile prevedere i momenti in cui si rischia di vacillare. Se questo succede ricordatevi delle complesse ragioni che stanno dietro a questo comportamento abituale e cercate di trattarvi in modo compassionevole.

Il quinto punto della lista è un promemoria che vi ricorda che affrontare il vostro perfezionismo non sarà facile e che potreste dover interrompere questo lavoro per un po’ e occuparvi del peggioramento di sintomi clinici di ansia o di altri disturbi. Se siete preoccupati chiedete l’aiuto di un professionista della salute mentale. Ma non demoralizzatevi – ricordatevi che la guarigione è un processo, non una destinazione da raggiungere; avete bisogno di stare al sicuro mentre guarite.

La terza fase: confronto

Parliamo della differenza tra le convinzioni personali e le regole. Le regole che vi date governano il vostro comportamento. E voi accettate le vostre convinzioni come se fossero vere. Le due cose interagiscono ed è probabile che le vostre convinzioni influenzino le regole che vi ponete. Allo stesso tempo le regole che seguite possono limitare o ampliare le vostre convinzioni. Per esempio potreste avere una regola che dice: “Cercherò di essere sempre sorridente”. E questa regola potrebbe essere collegata alla convinzione “Non piacerò alla gente se non sorrido”.

La fase del confronto consiste nell’identificare le regole con le quali vivete, magari senza rendervene conto – ciò che vi permettete o vi proibite, cosa dovreste fare, cosa dovete fare, cosa si dovrebbe sempre fare, cosa non bisogna mai fare. Sono sempre nella vostra testa, ma sono ancora regole che volete seguire? Potrebbero essere regole dettate dalla vostra famiglia, dalla cultura in cui vivete, dai pericoli che vi circondano, da ciò che ci si aspetta da voi – potrebbero essere non esplicite ma sottese.

Se decidi che una regola non ti è più utile scrivine una che potrebbe prendere il suo posto. La consapevolezza di poter sostituire una regola con una nuova può essere liberatoria. Potete iniziare a vedere come la vita può essere vissuta con più libertà, e questo può cambiarla.

La quarta fase: connessione

Se avete intrapreso questo viaggio e ne state seguendo le fasi può essere che stiate diventando molto più consapevoli della vostra vulnerabilità. Può essere terrificante pensare di entrare in contatto con sentimenti che avete a lungo soppresso. Potreste aver pensato che sembrare in controllo, compiacere gli altri, tenere sempre il piede sull’acceleratore, vi abbia protetto. Confrontare a testa alta la vergogna, entrare in contatto con la rabbia, ammettere la fatica, potrebbe farvi sentire fin troppo esposti.

Pensate a una tartaruga. Ad ogni segno di pericolo tira dentro la testa e aspetta. Allo stesso modo se siete inclini al perfezionismo distruttivo, causato da un passato difficile, è probabile che anche voi tendiate a ritirarvi nel primo guscio che trovate quando si risvegliano sentimenti dolorosi.

Il libro di Terrence Real I don’t want to talk about it ha una citazione appropriata su questo. Il terapeuta sta parlando della vulnerabilità emotiva con un paziente che sta cercando di capire perché è importante affrontare le proprie emozioni difficili. Questi alla fine dice “O lo senti o lo vivi, giusto? Il dolore: o sentirlo o viverlo. E’ questo che vuoi dirmi, vero?”

Il paziente ha colto il punto: se non ti connetti ed elabori il tuo dolore emotivo, la rabbia o la tristezza, questi governeranno la tua vita in modi che non puoi vedere – finirai per viverla alla cieca.

Se vi sentite sicuri e protetti e avete a portata di mano un aiuto in caso di bisogno, ecco un esercizio che vi aiuterà a connettervi meglio con le vostre emozioni difficili. (Per favore non fatelo da soli se avete un grave trauma nel passato. Avrete bisogno della guida e del sostegno di un esperto per entrare in contatto in modo sicuro con quel dolore).

Create una linea temporale disegnando una riga orizzontale divisa per età (anni): scrivete 2, 4, 8, 12, 20, ecc. Tornate indietro ai vari anni e scrivete le cose buone e quelle dolorose che vi sono capitate. E’ un esercizio di riconoscimento, non di biasimo. Riconoscete il buono, il cattivo e il brutto. Ci vorrà del coraggio per affrontare la negazione che potrebbe ancora emergere e protestare dicendo: “Beh… non era poi così male”. Non vi state lamentando, state riconoscendo le conseguenze emotive o il peso di un evento con la stessa compassione che mostrereste per qualcun altro. Comincerete a vedere schemi e connessioni fra gli eventi. Se tutto va bene questo vi aiuterà ad essere più comprensivi nei vostri confronti.

Questo esercizio può essere molto efficace. Mentre tornate indietro e scoprite le cose che vi hanno reso ciò che siete – sia i doni che avete ricevuto, sia i talenti e le capacità che vi hanno portato a dei risultati positivi – state anche riconoscendo il dolore del passato, quello che avete minimizzato o negato, dimenticato o evitato. Vi state permettendo di riconoscere che siete la somma di tutte le vostre esperienze. L’auto-compassione – riconoscere l’impatto di qualsiasi dolore abbiate provato e offrirvi la stessa gentilezza che avreste avuto per un altro – vi darà forza. Non serve più nascondersi. Potete accettare tutto quello che c’è. E tutto di voi stessi.

Nella precedente fase di confronto e in questa di connessione troverete il “motivo per cui” avete iniziato a dover sembrare perfetti. Usando come fondamenta gli esercizi che avete appena fatto, chiedetevi quali messaggi avete ricevuto nel passato sul vostro valore e su quanto le vostre relazioni erano sicure. E cominciate a capire che non dovete più vivere secondo le vecchie regole o fuggire dal dolore. La connessione con il dolore insegna che potete tollerarlo e che le vostre vulnerabilità non vi definiscono più di quanto lo facciano i vostri successi.

La quinta fase: cambiamento

Nei miei anni da clinica ho imparato i benefici dell’intuizione (che spero sia aumentata anche per voi dopo la fase di connessione e leggendo questa guida). L’intuizione (insight) crea un contesto e una comprensione. Ma la vostra speranza viene da un cambiamento di comportamento, cioè dal vedere i risultati positivi degli sforzi che state facendo. Questa fase finale è per trovarla.

Ecco quindi un ultimo esercizio: esaminate i dieci tratti che ho elencato e che sono associati alla depressione alimentata dal perfezionismo. Con degli amici fidati, con il vostro compagno/a, con un genitore o con un terapeuta, pensate a dei modi specifici per mettere all’opera le vostre intuizioni e rischiate un cambio di comportamento: vivere diversamente ogni giorno, prendere qualche decisione inconsueta, trattarvi con più gentilezza. Scegliete il cambiamento che vi sembra più semplice e provatelo. Non è qualcosa che dovete fare alla perfezione. Ricordatevi che siete in viaggio.

Spesso qualcuno entra in una seduta di terapia esordendo con: “Beh, ho provato a fare qualcosa di nuovo ma non è stato un granché.” Dico loro che ogni cambiamento in una direzione che si desidera è una gran cosa. Questa fase permette di scegliere ogni piccolo passo che si è pronti a fare, che sia dire di no, di permettere a qualcun altro di condurre il gioco o di rischiare di confidarsi con un amico. Vi chiede anche di apprezzare appieno questi cambiamenti.

Punti chiave

  • Se siete una persona con un tratto di perfezionismo positivo che è orientato al processo e alla ricerca dell’eccellenza, usatelo. Godetevelo e prosperate.

  • Al contrario il perfezionismo distruttivo comporta una concentrazione ossessiva su obiettivi irrealistici e ho individuato una sindrome che chiamo “depressione perfettamente nascosta” in cui lo sforzarsi di apparire sempre perfetti è una strategia controproducente che maschera un passato difficile e una vulnerabilità emotiva. Se vi identificate con questa descrizione sappiate che c’è una via di uscita. Non è facile, ma se siete pazienti con voi stessi potete farcela.

  • Il rimedio che io propongo si basa su cinque fasi interattive: consapevolezza (riconoscere il problema); impegno (superare gli ostacoli al cambiamento); confronto (cambiare le regole inutili con cui si vive); connessione (elaborare i sentimenti difficili che alimentano il proprio perfezionismo); e cambiamento (riconoscere e celebrare i propri progressi).

  • Potreste riconsiderare le relazioni inutili che vi impediscono di ottenere un cambiamento positivo. Potreste per esempio fissare nuovi confini.

  • Vale la pena lottare non nonostante le vostre imperfezioni ma per esse. Vale la pena volersi bene, non per quello che si fa ma per quello che si è.

Per saperne di più

Vari ricercatori in giro per il mondo stanno indagando le cause del perfezionismo, siano esse culturali, politiche, famigliari, sociali o un insieme di tutti questi fattori. C’è un certo disaccordo sul fatto che il perfezionismo sia un comportamento adattivo o quasi sempre disadattivo.

Tra i diversi tipi di perfezionismo distruttivo descritti in letteratura ci sono: il “perfezionismo auto-orientato” che spinge all’estremo; il “perfezionismo orientato all’altro” che consiste nell’aspettarsi il perfezionismo dagli altri; il “perfezionismo socialmente prescritto” caratterizzato dal sentire il bisogno di soddisfare le alte aspettative percepite degli altri. Quest’ultimo è il più pericoloso perché è associato con la tendenza al suicidio.

Ci sono anche altre distinzioni terminologiche. Ad esempio in una meta-analisi pubblicata nel 2020 gli autori hanno distinto tra “preoccupazioni perfezionistiche” (che includono il tentativo di raggiungere obiettivi/aspettative esterne fissate dagli altri, questa tendenza è simile al “perfezionismo socialmente prescritto”) e “sforzi perfezionistici” (spingersi alla perfezione come nel “perfezionismo auto-orientato”). Si è scoperto che entrambe queste forme di perfezionismo sono legate alla depressione e alla disconnessione sociale e che la preoccupazione perfezionistica è associata a un maggiore stress.

In generale tutti i tipi di perfezionismo distruttivo sembrano essere in aumento e molti studi lo associano alla tendenza al suicidio. Il tasso di perfezionismo malsano nelle giovani generazioni è particolarmente preoccupante e ci sono delle ricerche che lo considerano fuori controllo.

Spero di avervi aiutato a capire come il perfezionismo, che può sembrare una virtù, possa essere dannoso. Se credete di mostrare i segni di un perfezionismo malsano e soprattutto di una “depressione perfettamente nascosta” penso che gli esercizi di questa guida possano aiutarvi a creare un altro modo di vivere o di essere.

Tuttavia il lavoro più difficile non è fare un cambiamento ma mantenerlo. Ci sono così tanti tira e molla causati dalla voce perfezionista che crea vergogna, che mantenere una prospettiva e un comportamento nuovo diventa una vera sfida. Ma ci si può arrivare; ci vuole pratica, molta.

Inoltre a volte le persone nel vostro ambiente non sopportano i cambiamenti che avete fatto e può essere che vogliate riconsiderare le relazioni che sono troppo dannose e fissare dei limiti appropriati in quelle che rimangono.

Per esempio, può darsi che la vostra famiglia continui ad aspettarsi che facciate qualcosa per loro senza tenere conto dei vostri bisogni. Forse spendete ore al telefono con amici che richiedono tutta la vostra attenzione o che vi dicono cosa farebbero senza di voi. Può anche essere che le persone intorno a voi si siano così abituate a vedervi lavorare tanto e a dare troppo senza chiedere niente in cambio. Valutate se queste relazioni possono o meno nutrire il vostro “nuovo sé”, e dove serve stabilite nuovi confini.

Vale la pena lottare per voi stessi, non nonostante le vostre imperfezioni ma per esse. E vale la pena amarsi non per quello che si può fare ma per quello che si è. Si cresce e si acquisisce una vera forza non quando si sembra in controllo ma quando ci si accetta e si è in grado di ascoltare ogni parte di sé.

Veleni della mente

Facemmo esperienza,
ma ci sfuggì il significato e avvicinarci
al significato, restituisce l’esperienza
in forma diversa”

T.S. Eliot

Nel suo ultimo libro “L’amore, la sfida, il destino” Eugenio Scalfari, parlando del giudizio e dei modi con cui è possibile metter ordine nelle “classifiche che ognuno di noi stila” degli altri essere umani, dice: “Ci sono molti modi per classificare la nostra specie e ognuno adotta il modo che più gli è congeniale: i ricchi e i poveri, i colti e gli ignoranti, i bassi e gli alti, i furbi e i gonzi e così via. Credo che la classificazione che meglio chiarisce la nostra identità – o per lo meno quella che a me più interessa – sia tra consapevoli e inconsapevoli, tra coloro che conoscono le conseguenze di quanto decidono di fare e quelli che neppure si pongono questo problema o comunque sono indifferenti o incapaci di risolverlo. I consapevoli sanno di star giocando la partita della vita, gli inconsapevoli la giocano anch’essi perché sono anch’essi alle prese con istinti, pulsioni, passioni, sentimenti, ma non lo sanno; sono schiacciati sul presente, conoscono poco o per nulla il loro passato e lasciano che il futuro gli piombi addosso.”

Senza consapevolezza, gli istinti, le passioni e le pulsioni, i sentimenti e gli affetti, non sono che forze che trascinano: può darsi che aumentino la sopravvivenza dell’individuo che da esse è trasportato, può essere che anche chi gli sta vicino, i suoi cari e, in generale chi ha a che fare con lui, beneficino della tensione che da queste forze si sprigiona; ma può anche darsi che, come un torrente in piena, queste spinte determinino la sua vita e travolgano quella degli altri senza che la sua coscienza intervenga a modificare il corso di quanto gli succede.

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Ripetere, ricordare, dimenticare

Gli analfabeti del futuro sono quelli che non sapranno
dimenticare quello che hanno imparato per reimparare”
M. Zamperini

Nel suo “The pleasure of finding things out” il fisico Richard Feyman, parlando del senso della vita, scrive: “Nel corso dei tempi gli uomini hanno tentato di afferrare il significato della vita. Si è capito, infatti, che se una qualche direzione o un qualche significato può essere attribuito alle nostre azioni, questa attribuzione è in grado di liberare grandi potenziali umani. Penso che saranno quindi state date molte risposte alla domanda che chiedeva il senso di tutto questo. Ma ne sono state dette di tutti i colori e chi proponeva una certa risposta ha guardato con orrore alle azioni di altri che ne proponevano un’altra. Un orrore dettato dal fatto che, guardando da un punto di vista diverso, sembrava che tutte le potenzialità della razza umana venissero, con quella visione, incanalate in un falso e fuorviante vicolo cieco. Infatti, è dalla storia delle enormi mostruosità create dai falsi credo che i filosofi si sono resi conto delle apparentemente infinite e stupefacenti capacità degli esseri umani. Il sogno rimane quello di trovare un canale aperto (NdT: libero da queste contraddizioni).
Quindi, qual è il significato di tutto questo? Cosa possiamo dire per svelare il mistero dell’esistenza? Se prendiamo in considerazione tutto, non solo ciò che gli antichi conoscevano, ma tutto ciò che conosciamo noi oggi, penso che dobbiamo francamente ammettere che non lo sappiamo. Ma ammettendolo abbiamo probabilmente trovato il canale aperto.”

In psicologia e nella clinica in particolare questo canale aperto è quella posizione che ci permette di lasciare in sospeso la risposta: quello stato relazionale nel quale possiamo prenderci il lusso di dimenticare ciò che sappiamo, di prescindere per un po’ dalle nostre risposte per ascoltare l’altro.

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Sguardi profondi o emozioni piallate?

“Che ne è del superuomo, quello che,
con le parole di Goethe, si lamenta con il destino
perché gli ha dato sguardi profondi?
U.Galimberti

In un un saggio di qualche tempo fa intitolato “Storytelling 3: la soglia“, in cui riflettevo sul senso psicologico di crisi, consideravo che è nostro compito, al di là delle nostre convinzioni politiche o del nostro impegno sociale, quello di interrogarci sul significato di ciò che ci sta accadendo.

Scrivevo che, anche se la crisi finirà perché qualcuno riuscirà a traghettarci fuori dal guado, “…questo non dovrebbe esimerci dalla riflessione sul passaggio, innanzitutto psichico, in cui stiamo indugiando. La crisi non è che un esempio di soglia collettiva. Può diventare un’occasione per cogliere l’intensità del momento e per descrivere il mondo in un modo nuovo o restare un evento senza senso, subito e non compreso. Qualcosa che non ci farà cambiare perché non saremo riusciti a raccontarlo e a leggerlo o qualcosa che ci trasformerà perché saremo riusciti ad usarne l’intensità.”

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Mania/depressione: un’introduzione al concetto di grounding

La consapevolezza non è né difficile
né complessa; la parte più difficile
è ricordarsi di essere consapevoli”
C.Feldman

Nel primo post sulla depressione apparso in questo blog dicevo di essere convinto che, ad esclusione dei casi più gravi (le Depressioni Maggiori o endogene), tanti dei disturbi depressivi abbiano la loro origine in una chiusura, una sorta di rigidità che ci separa dal mondo rendendoci sempre più soli e sempre meno in contatto.

Con questo articolo torno sul concetto di chiusura perché mi rendo conto di non avere spiegato a sufficienza quanto la distanza e la separazione dal mondo, che sono così evidenti nella persona depressa, partano spesso ben prima dell’insorgere dei sintomi depressivi.

La controparte della depressione è infatti la mania: un’esaltazione che, in quello che viene definito Disturbo Bipolare, si alterna ai momenti di giù, quelli in cui la persona sembra aver perso la voglia di vivere, di combattere e di interessarsi alla vita.

Se depressione è giù; mania è su.

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Sulla depressione V parte: ascoltare

“Siddharta ascoltava…”
H.Hesse

Leggo su Repubblica Salute di qualche giorno fa un articolo dal titolo “Papà depresso, ricaduta sui figli. E con la crisi aumentano i rischi”.

Si parla di uno studio condotto su un campione significativo di famiglie americane (22mila!) lungo l’arco di quattro anni in cui si arriva alla conclusione che: “… le possibilità di bambini e ragazzi di sviluppare problemi emotivi e comportamentali aumentano se vivono con un padre che mostra sintomi depressivi”.

Lascio il link a questo articolo per chi ha voglia di leggerlo. A me serve solo come spunto per un’ulteriore riflessione sulla depressione e su quella che, secondo me, è la prima risorsa che viene a mancare quando ci relazioniamo con un depresso: la capacità di ascoltare.

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Sulla depressione IV parte: “togliersi di mezzo”

“La terra non l’ereditiamo dai nostri padri,
ma l’abbiamo in prestito dai nostri figli”
Alce Nero, Capo Sioux

 

Il bell’articolo di Barbara Spinelli pubblicato su La Repubblica dell’11 gennaio mi dà lo spunto per un altro breve post sulla depressione.

Il presente non è vuoto; è pieno, abbondante, debordante. Uno dei motivi per cui non ce ne accorgiamo è perché, insieme al fiume di messaggi che arriva dai mezzi di comunicazione, molti, troppi, ci minacciano con lo spauracchio della scarsità e della miseria.

E’ strano che in un mondo in cui abbiamo davvero tutto e in cui il superfluo ci invade da ogniddove, siamo sempre più preoccupati da ciò che ci verrà a mancare.

Ma forse, come diceva Marx, non abbiamo altro da perdere che le nostre catene.

E la domanda diventa: di cosa sono fatte oggi queste catene? L’articolo della Spinelli ne parla in termini storico-economici e mi trova completamente d’accordo. Ma a me tocca invece, visto il mio lavoro, una riflessione psicologica su questo argomento.

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Sulla depressione III parte: il diciottesimo cammello

“Le ho detto tante volte, Watson,
che lei vede ma non osserva!”
Sherlock Holmes

Parlavo in “Sulla depressione II parte: antidoti” del flusso di integrazione: quella funzione che ci permette di continuare a distinguere fra noi e il mondo e di “renderlo comprensibile” o, quantomeno, non troppo caotico e ingestibile.

La capacità di integrare il mondo è alla base della coscienza e della sintonizzazione (cfr Cronaca 5). E’ infatti integrandoci e integrando che entriamo in relazione con le cose e con le persone. La stessa etimologia della parola integrare rimanda all’atto di “mettere insieme”, “unire per creare un intero”. Esser-ci nel  mondo è per ognuno di noi, in un certo senso, un’apertura: una capacità di far entrare e percepire dando un senso, una direzione al flusso delle cose che ci investe continuamente fin dalla vita intrauterina. Ciò che cogliamo del mondo e ciò che possiamo pensare del mondo e della nostra relazione con esso è ciò che definiamo realtà.

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Sulla depressione II parte: antidoti

“Chi cerca esseri umani
troverà acrobati”
P.Sloterdijk

Cosa dovrebbe cambiare per far sì che il cambiamento non ci travolga?

Alla fine dell’ultimo post ponevo questa domanda con lo scopo di tener aperta la riflessione sulla capacità di sopravvivere senza deprimersi in un mondo che cambia velocemente e nel quale le vecchie strategie di adattamento sembrano destinate a fallire.

“Una teoria sulla depressione è che la capacità del cervello di cambiare in risposta all’esperienza si è bloccata”. E’ quanto sostiene D.Siegel parlando di una sorta di rigidità in quello che definisce “fiume di integrazione”: il lavoro che la mente svolge per leggere e assimilare il continuo flusso di informazioni che arrivano “dal mondo” e che, se non fossero integrate, rischierebbero di sommergerci.

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Sulla depressione

“Non ha rispetto per il mondo
chi tenta di controllare
il proprio destino.”
J.Hillman

Intravedo in una rassegna stampa del mattino (e poi vado a cercare on line) un articolo dell’Avvenire dal titolo: “Salute, italiani sempre più depressi”.

Vi si cita la Relazione sullo Stato Sanitario del Paese da cui si evince che: “Gli italiani sono sempre più depressi. Almeno, stando al consumo di antidepressivi, che ha conosciuto un vero boom nell’ultimo decennio: se nel 2001 si consumavano 16,2 dosi giornaliere ogni mille abitanti; nel 2009 questa cifra è più che raddoppiata, salendo a 34,7 dosi… I dati dell’Osservatorio Nazionale evidenziano che il consumo di antidepressivi nell’ultimo decennio ha avuto un incremento medio annuo del 15,6%.” (Fonte: Avvenire.it, 13.12.2011).

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