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Immagini psicotrope

“Se non avessimo in noi un essere femminile come faremmo a riposare?”
G. Bachelard

Parlare di cervello-mente o di mente-cervello è uno stratagemma per ricordarsi di non cadere in una finta dicotomia che da lungo tempo affligge il pensiero occidentale: il cosiddetto errore di Cartesio, la fallacia secondo cui il corpo e lo spirito, la mente e il mondo, sono cose separate, entità diverse che rispondono a leggi diverse.

È evidente che non sia così e che ogni volta che parliamo della mente non possiamo trascurare il corpo e viceversa. Questo Bachelard lo sapeva bene e la frase dell’incipit  non va presa alla lettera ma piuttosto usata come un’immagine che ci aiuta a pensare, come un invito a cogliere certi aspetti della percezione, del sentire e del comportamento.

Non c’è “dentro” nessun essere femminile e non troveremo nemmeno un qualche tipo di maschio. Ci sono, invece, nel corpo e nella mente, certi modi di orientarsi e di dirigere l’attenzione che determinano degli stati d’animo, degli stili di pensiero e, infine (e quasi contemporaneamente) dei comportamenti.

Psicotropo significa, letteralmente: capace di alterare l’attività mentale, capace di muovere la psiche e di modificarne il funzionamento. Una sostanza psicotropa viene assunta (e per assumerla si usa il corpo) e muove qualcosa, accelera o rallenta dei processi, sposta resistenze, attiva o disattiva reazioni. Bastano un paio di bicchieri di una bevanda alcolica per sentirsi un po’ meno inibiti e qualche goccia di ansiolitico per darsi una calmata. Sembra, insomma, che basti aggiungere una sostanza dall’esterno per “cambiare dentro”. Quello che sfugge se non si guarda attentamente è che le sostanze psicotrope funzionano perché la psiche è già, di per sé, ‘tropica’: tende già a volgersi da qualche parte, a protendersi in una direzione, ad essere attenta, tesa-verso qualcosa.

“Fin dalle primissime fasi della vita, lo sviluppo sensomotorio e i movimenti vengono appresi e organizzati a livello cerebrale in pattern che permettono di interagire facilmente con l’ambiente. Lo stesso vale per dei complessi sistemi del Sé che internalizzano e integrano pattern affettivi, cognitivi e comportamentali.” (Efrat Ginot, Neuropsicologia dell’inconscio) Detto meno in psicologhese: impariamo una serie di movimenti e li organizziamo internamente come sequenze che possano essere ripetute con facilità e in modo quasi automatico e,  su un altro piano, costruiamo schemi complessi per rispondere emotivamente, con le azioni e con il comportamento, a ciò che ci viene proposto dall’ambiente. Tutto questo succede senza che lo decidiamo. Avviene e… basta.

In profondità, sotto ai pensieri e al comportamento, ci sono dei movimenti: così come abbiamo imparato a muoverci e a coordinarci, abbiamo anche  imparato ad avere a che fare con gli altri, ad imitarli un po’ per sentire ciò che sentono, ad accostarci senza invadere, a tenere una distanza che ci sembra… giusta.

Immaginate di essere dei mimi e di dover mettere in scena il modo in cui vi avvicinate a persone diverse; sentite la differenza fra l’incedere verso qualcuno che vi piace o verso un  possibile nemico; trovate un modo per esprimere a gesti la fretta di andarvene o l’urgenza di toccare. Questi gesti (postura, movimento, espressione, forza…) stanno sotto al pensiero e al comportamento, li influenzano e li colorano emotivamente. Nell’infante non sono mediati e sgorgano spontaneamente: via da ciò che spaventa, incontro a ciò che mi nutre/piace/contiene; nel bambino il pensiero riflessivo interviene per modulare, inibendo o favorendo certe azioni e la loro intensità; nell’adulto… l’adulto sa recitare, fingere, drammatizzare e, su un continuum che va da estremamente rigido a molto flessibile, è più o meno padrone di sé, più o meno automaticamente o liberamente  proteso o ritirato.

Gli automatismi non sono necessariamente un male. È importante saper camminare senza metterci l’attenzione, è comodo imparare a rispondere a certi stimoli senza doverci pensare e, nei comportamenti sociali complessi, avere a disposizione una vasta gamma di copioni predisposti è  molto utile. Il problema  con ciò che è automatico sorge quando si tratta di cambiare e si incontra una resistenza interna, quando, cioè, ci si accorge che uno schema che non funziona più continua a ripetersi nonostante la nostra volontà di cambiarlo.

È a quel punto che occorre ri-volgersi al mimo perché è in quel momento che ci rendiamo conto di quanto il corpo e la mente, l’azione e il pensiero, il gesto e la riflessione, non possano e non debbano essere separati.

Ed è lì che la rigidità diventa un difetto: il mimo continua a fare la stessa cosa e sembra non imparare niente di nuovo dall’esperienza. Si comporta come un automa.

Capita, in questi casi, che le sostanze psicotrope aiutino a rompere la fissità e a rendere meno rigido il sistema: gli ansiolitici calmano l’agitazione, gli antidepressivi tolgono un po’ di stagnazione, ecc.

Ma c’è un altro rimedio sia alla rigidità che al caos che deriva dal dare risposte a casaccio, dal reagire in base a un’abitudine invece che alla consapevolezza del contesto. Un rimedio che è più antico di ogni droga e che la psiche sa produrre da sempre: l’immagine.  Sentite cosa dice Bachelard: “Un abile psicologo potrebbe servirsi di immagini psicotrope, in grado di stimolare lo psichismo trascinandolo in un movimento continuo. L’immagine psicotropa introduce un po’ di ordine nel caos psichico, lo stato della psiche inattiva, del sognatore senza immagini.” Le immagini possono attivare la psiche e, quando serve, riattivarla. Il mimo di cui ho parlato poc’anzi e l’essere femminile dell’incipit sono esempi di immagini psicotrope. Conosco persone che non si danno tregua e che vivono in una sorta di perenne insonnia. Alcuni sono stati o sono tuttora miei pazienti e con ognuno di loro ho riscontrato, nei paraggi del sintomo, un’incapacità di sognare, un blocco della fantasia che impedisce quella che Bachelard definì una Revêrie positiva e produttiva, la cura naturale per le parti bloccate/automatiche della psiche. Lavorare su queste parti significa sia permettere un riposo calmando qualcosa che gira a vuoto, senza senso e senza risultato, sia svegliare da un torpore che non lascia pensare perché si limita a ripetere. Significa anche favorire il  lato femminile della psiche perché: “Le nostre migliori  Revêries derivano dal nostro lato femminile, portano il marchio di un’ innegabile femminilità. Se non avessimo in noi un essere femminile, come faremmo a riposare?”.

Vassily Kandinsky, 1919, In Grey

 

La Rêverie II Parte: Soglie e Figure

La poesia è un’anima che inaugura una forma”
P.J. Jouve

Non mi sono messo a fare il critico letterario né, parlando di anima, decido di uscire dall’ambito del mio seminato e di invadere quello della religione. Rimango uno psicoterapeuta e sto usando, in questi post sulla Rêverie, il termine “poesia” per distinguere un linguaggio e per accantonare un po’ il prosaico: quello stile, spesso usato dalla psicologia, per restare materialista, per togliere tracce di poesia e di sentimento e per ammantarsi di scientificità; per tentare di essere chiara, ripetibile, generalizzabile e… insegnabile.

Ha un senso, nella materia che professo, questa riduzione: serve a stabilire una diagnosi, a stabilire un percorso di cura, ad intendersi fra colleghi. Perde senso, però, ogni volta che le nostre categorie diagnostiche diventano troppo strette per contenere i sintomi dei pazienti o troppo rigide per aiutarli a far fronte ad un dolore che se ne frega dell’etichetta diagnostica sotto la quale è stato catalogato. Continua a leggere

La Rêverie I Parte

Le parole sono camaleonti
la musica ha il diritto di essere astratta
l’esperienza dell’inspiegabilità delle cose conduce al sogno
non spiegate la musica
non spiegate i sogni.
L’inafferrabile pervade tutto
bisogna sapere che ogni cosa fa rima.”
Wols

Tanti di voi ricorderanno una sequenza del film “L’attimo fuggente” in cui Robin Williams, nei panni del professore di lettere, invita i suoi studenti a strappare la prima pagina di un’antologia che ha la pretesa di insegnare un metodo efficace per interpretare un opera poetica.

Usare un metodo, applicare una tecnica, scegliere un algoritmo che, sovrapposto ad un evento, permetta di ridurlo ad un oggetto conosciuto, sono modi utili per capire e per rendere il mondo più “maneggevole”. Molto spesso funzionano, ci permettono di risparmiare tempo, di sentirci padroni del momento che stiamo vivendo e ci forniscono le risorse necessarie per liquidare la pratica e passare a quella successiva. Ma ci sono volte in cui il metodo può distruggere l’oggetto su cui viene applicato e la tecnica può, con la sua luce, diventare un abbaglio: qualcosa che svelando certi aspetti ne nasconde altri e facendo chiarezza su certi ambiti mette in ombra dettagli che, invece, non andavano ignorati.

E’ anche per questo motivo che il filosofo Gaston Bachelard, uno che di metodo se ne intendeva, mise, nell’incipit del suo libro su “La poetica della Rêverie” una frase del poeta Laforgue: “ Metodo, Metodo, cosa vuoi da me? Sai bene che ho mangiato il frutto dell’incoscienza.” Continua a leggere