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You can’t (always) get what you want

Il micro-dialogo della vignetta è, in origine, una frase di Anna Freud che quasi facendo eco alla convinzione del padre, secondo cui “Il nostro desiderio è sempre in eccesso rispetto alla capacità dell’oggetto di soddisfarci”, dice, appunto, che le uova nella fantasia sono sempre cotte a puntino ma rimangono là, nel regno delle cose perfette, immaginabili ma non mangiabili.

Penso che gran parte della psicoterapia lavori proprio sulla distanza tra ciò che un paziente si aspetta e ciò che ottiene. Crede (o gli han fatto credere) di dover essere una certa persona o di dover fare certe cose per avere soddisfazione, per placare il desiderio e dire “ecco, ho ottenuto ciò che volevo”.

Ogni primo colloquio, ogni primo incontro con un paziente e con i suoi sintomi è, in fin dei conti, un incontro con un desiderio non soddisfatto: un ascolto di quanto sia doloroso non poter essere in un certo modo, non poter avere certi oggetti o persone, certi stati d’animo, condizioni, capacità, equilibri. Il dolore di non poter stare vicini a ciò che ci piace e quello di dover stare in prossimità di ciò che detestiamo, la brama dolorosa del non poter raggiungere e la penosa avversione del non potersi togliere.

Non c’è paziente con cui non abbia lavorato sulla distanza fra immaginazione e realtà, fra aspettativa e risultato. E il dolore… il dolore, così come il desiderio, non è  mai veramente azzerabile: rimane, si sposta e, se la terapia funziona, diventa sensato!

Smette cioè di essere un dolore nevrotico.

Ho appena corretto un lapsus calami: avevo scritto “smette di diventare un dolore nevrotico”. Come spesso capita, l’inconscio è “più preciso e più puntuale”: la sofferenza che trattiamo in psicoterapia è qualcosa che “diventa”, qualcosa che è così perché, proprio come il rimuginio, come le ossessioni e come le compulsioni, viene continuamente ripetuto, messo in esistenza da un’istanza che non è mai contenta di come le uova sono state cotte e che misura il divario tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere.

È in quello spazio che nascono i rimpianti (se avessi fatto diversamente avrei ottenuto uova migliori), i sensi di colpa (che uova orrende ho cucinato), le ossessioni (proverò fino allo sfinimento, fino alle uova perfette), il senso di fallimento con il lutto e gli stati depressivi, l’ansia da prestazione con il panico del non essere all’altezza, la mania (le mie uova saranno perfette e tutti dovranno riconoscerlo).

Ed è in quello spazio che si può meditare sul senso: vedere cosa causa il dolore e quando la sofferenza sia dovuta allo sforzo del procedere o all’ostinazione del ripetere.

Chiedo spesso ai miei pazienti: “chi o cosa produce il dolore di cui mi stai parlando?”. All’inizio, nelle prime sedute, credono di dover trovare una risposta sensata, poi capiscono che la domanda non è un che modo per pensare insieme.

Si possono dare molte risposte: si può attribuire il dolore all’educazione, alla chimica, ai cattivi incontri, alle proprie incapacità. Si può riflettere sui rimedi tentati e sul loro fallimento (se siamo qua a parlarne è perché, ancora una volta, le uova non sono ben cotte).

Ma, alla fine (e tornando a Freud) perché mai un oggetto dovrebbe soddisfarci? Dove nasce questa pretesa? Quanto questo bisogno di avere ciò che vogliamo è davvero il problema? Cosa faremmo se fossimo per una volta pienamente soddisfatti? Lo vogliamo veramente o scappiamo gambe levate appena intravediamo la piena realizzazione di un desiderio? Davvero vorremmo abbattere la barriera tra immaginazione e realtà? Avere un oggetto “perfetto”?

Credo che su queste cose convenga interrogarsi. Farlo è spesso un buon modo per cominciare un lavoro  serio sulla sofferenza mentale.

E mi sembra un buon impiego dell’energia psichica,  intanto che le uova vanno avanti a cuocersi.

Sul buon uso degli ostacoli

“Io so cos’è una cosa o chi è qualcuno scoprendo ciò che si interpone tra noi”
Adam Phillips

Primo atto del Riccardo Terzo di Shakespeare: uno dei due assassini inviati da Riccardo per uccidere suo fratello, il Duca di Clarence, parlando con il complice che azzarda dubbi sull’opportunità di colpire un innocente, dice: “La coscienza è un compunto spiritello dal volto sempre rosso di pudore, che fa il ribelle nel petto dell’uomo creando all’uomo una massa di ostacoli.”

In quanto ostacolo la coscienza di un bravo sicario va repressa: superata per far sì che egli possa raggiungere l’obiettivo di uccidere la vittima designata.

In questa scena il sicario è il soggetto, la vittima è l’oggetto e la coscienza è l’ostacolo. Se applicassimo come un teorema la frase dell’incipit potremmo dire che l’assassino percepisce chi ha di fronte a seconda dell’ostacolo che si trova a dover superare. La persona diventa la mia vittima se ciò che devo superare per interagire con lui o lei è… solo la mia coscienza, solo un’istanza interna che posso zittire o ascoltare e che, a seconda di come entro in relazione con essa, determinerà la percezione di ciò che mi sta davanti. Se accetto che la coscienza sia un ostacolo non sarò più un omicida e la vittima smetterà di essere tale ma se riuscirò ad ignorarla niente si metterà fra me e il mio obiettivo e anche le mie percezioni saranno diverse: di fronte non avrò più un altro essere umano ma un oggetto, qualcosa su cui è facile smettere di riflettere.

L’ostacolo crea la differenza. Mettendosi in mezzo rallenta l’azione e quasi costringe a pensare.

In terapia si osserva una massiccia presenza di ostacoli  nella depressione e una loro patologica assenza negli stati maniacali. Ho visto persone depresse immobilizzarsi davanti a scelte banali inventando ostacoli su ostacoli. Ragionamenti tipo: “ma poi, se vado… anche se mi hanno invitato magari sperano che non vada… lo so, lo sento che darei fastidio; posso dire che sto male e stare a casa ma farò la solita figura di quella che rifiuta gli inviti… ecco se non vado starò male ma non me la sento di andare, sono disperata…”. E ho assistito a deliri maniacali in cui niente poteva fermare l’ideazione grandiosa: “sì, vabbè, non ho studiato niente ma risolverò tutto, non ho  nemmeno un piano ma inventerò al momento, non possono non capire che sono la persona perfetta…”.

Tra questi  due estremi, tra la completa assenza di spazio e la terribile costrizione del depresso grave e le sterminate praterie dei deliri del maniaco, si delinea un continuum in cui gli ostacoli diventano, per uno psicoterapeuta, una benedizione: qualcosa su cui iniziare un discorso e immaginare un progresso.

“Quando in analisi ‘spacchettiamo’ gli ostacoli –quando pensiamo agli ostacoli come a una via e non come a qualcosa che sta in mezzo alla via –li troviamo, come il vaso di Pandora, pieni di cose insolite e proibite.” (Adam Phillips)

Spacchettare è riflettere. È sia smettere di vedere l’ostacolo nel modo in cui lo vede  il maniaco, come qualcosa da rimuovere senza precauzioni, un contrattempo da distruggere con la volontà, sia evitare di soccombere di fronte ad esso come il depresso che lo trasforma in un’insormontabile costrizione.

Le cose insolite e proibite che si scoprono insieme al paziente in questo lavoro sugli ostacoli sono tutte connesse al desiderio perché non esiste ostacolo senza desiderio e perché gli ostacoli sembrano fatti apposta per attivare il desiderio.

“Cosa voglio superare? Cosa c’è di là, dall’altra parte di ciò che ora  mi impedisce di sentirmi ‘bene’? Chi mette l’ostacolo? Voglio davvero toglierlo? Davvero starò bene senza di esso o il vero gioco è  nel progetto, nell’insieme di cose che devo mettere in atto per superarlo?”

Guardare gli ostacoli ponendosi queste domande è un modo per pensare ad essi come a degli strani oggetti che ci possono rivelare cose su noi stessi e su cosa vogliamo. È anche un modo per curare la mancanza di pensiero. Sia quella tipica della sindrome maniacale che si limita all’andare oltre senza riflettere, sia quella degli stati depressivi in cui il pensiero si riduce a sterile ruminazione.

Quanto curiosi siete quando state per spacchettare un regalo?

La curiosità è, insieme al desiderio, uno degli ingredienti fondamentali per  sviluppare la capacità di vedere gli ostacoli non come qualcosa che ostruisce la via ma come la via stessa. È anche ciò che ci ricorda che “la prima relazione non è con gli oggetti ma con gli ostacoli”.  Ogni oggetto ci è stato dato impacchettato: sempre abbiamo dovuto protenderci verso qualcosa, sempre è stato necessario muoversi per attraversare uno spazio, anche da infanti, per raggiungere il seno. E per incrociare uno sguardo o per farsi sentire.

Nella relazione con l’ostacolo (prima ancora che con quella con l’oggetto) si possono escogitare modi per esaudire desideri difficili. Molto spesso la saggezza sta non nell’eliminazione di ciò che sta in mezzo ma nella capacità di vederlo come una risorsa: cosa insolita e curiosa, significativa, promettente…

Il buon uso degli ostacoli.

Dèi gelosi

“Uno dei cardini dell’analisi è che i pazienti con disturbi narcisistici arrivino a una comprensione emotiva del fatto che tutto l’amore che essi si  erano conquistati a fatica, a prezzo dell’autorinuncia, non riguardava affatto l’individuo che essi erano in realtà: l’ammirazione per la loro bellezza e le loro buone prestazioni era rivolta alla bellezza e alle prestazioni di per sé e non al bambino reale. Dietro le buone prestazioni si riaffaccia, nell’analisi, il bambino – piccolo e solo – che chiede: come sarebbe andata se di fronte a voi ci fosse stato un bambino cattivo, rabbioso, brutto, geloso, pigro, sporco e puzzolente? Eppure io ero anche tutto ciò. Ciò non vorrà dire, forse, che non io fui amato, ma ciò che fingevo di essere? Che a essere amato fu il bambino educato, ragionevole, scrupoloso, capace di mettersi nei panni dell’altro, il bambino comodo che non era affatto un bambino? Che cosa ne è stato della mia infanzia? Non ne sono forse stato defraudato? Mai potrò recuperarla. Fin dal principio fui un piccolo adulto”.(Alice Miller, Il dramma del bambino dotato, 1979).

Stavo per chiudere il post à la Forrest Gump con un “e non ho altro da aggiungere a questa faccenda” ma poi mi è venuto in mente un parallelismo che vi racconto solo per rafforzare la riflessione di Alice Miller.

La Ruota della Vita o Ruota del Samsara è una delle immagini più diffuse del mondo buddhista. Raffigura i cosiddetti sei regni dell’esistenza che corrispondono a sei possibili stati di coscienza: modi di essere e di sentire che vengono determinati dalle azioni di una persona e che, di conseguenza, ne caratterizzano lo stato d’animo e la quantità di sofferenza. Secondo il buddhismo le mie azioni (karma) creano lo stato di esistenza in cui mi ritrovo e le mie risposte a questo stato lo rendono un inferno più o meno intrappolante: uno stato in cui posso stagnare o un’occasione per risvegliare in me la consapevolezza. “Uno degli aspetti più avvincenti della visione buddhista della sofferenza è l’idea, insita nella rappresentazione della ruota della vita, che le cause della sofferenza sono anche i mezzi della liberazione; vale a dire che la prospettiva in cui si pone colui che soffre determina se un dato regno sarà veicolo di risveglio o di schiavitù.” (Mark Epstein). In altre parole (e semplificando molto): non è tanto la condizione in cui mi trovo quanto la mia risposta ad essa a determinare quanto io soffra. Il paziente di cui parla la Miller è a buon punto quando comincia a realizzare che le buone prestazioni e l’immagine gradevole di sé sono state delle risposte alle richieste di un ambiente ma non hanno niente a che fare con la sua liberazione.

Quest’ultima inizia, invece, con la consapevolezza dello stato in cui ci si trova nonostante le buone prestazioni. Nella psicologia buddhista il piccolo adulto che si è comportato bene e che  ha compiaciuto le richieste degli  adulti e del mondo si troverebbe probabilmente nel regno degli Dèi gelosi: esseri che come i Titani hanno un discreto potere, persone che hanno raggiunto un buono stato di esistenza ma che non sono felici perché sanno che è fittizio. Vivono nella continua paura di perdere ciò che hanno raggiunto e sanno che il risultato degli sforzi compiuti per raggiungere la meta non ha davvero curato la ferita. E lo sanno perché sentono che qualcosa non è stato ascoltato: esaudire i desideri degli altri e adempiere le loro aspettative ha risolto solo la parte esterna del problema, ha acquietato il mondo ma non ha tolto la fame del bambino. Questa fame rimossa può essere una maledizione o un’occasione di cambiamento: può mantenerci nella ripetizione di comportamenti che soddisfano solo l’immagine o può essere l’inizio di una consapevolezza diversa.

E la consapevolezza non deve necessariamente implicare un cambio di atteggiamento. Non c’è niente di male nell’avere buone prestazioni, non è che riportare alla luce il bambino cattivo e pigro significhi smettere di fare o regredire a uno stato di negligenza i cui “l’immagine non conta niente”.

Il compito è un altro: il bambino dotato può chiedersi cosa riempirebbe davvero il vuoto? Su cosa vale la pena di applicare la propria volontà e la propria intelligenza? Quale immagine va curata?

In ognuno dei sei regni della ruota della vita appare l’immagine di un Buddha che impugna uno strumento che rappresenta l’antidoto: ciò che chi stagna in quello stato di coscienza dovrebbe assumere per “darsi una mossa” e per imboccare la via che porta fuori dall’inconsapevolezza e dalla ripetizione automatica.

Nel regno degli Dèi gelosi lo strumento è una spada fiammeggiante che è la metafora della discriminazione, della coscienza delle differenze, della forza di distinguere.

È ciò che dovremmo impugnare quando ci ritroviamo come dei Titani impotenti in un mondo pieno di buone prestazioni ma che non ci soddisfa davvero.

E non ho altro da aggiungere su questa faccenda.

Bruti, furetti ed eroi

“Considerate la vostra semenza”
Inferno Canto XXVI

La seguente storiella è riportata dalla figlia di Gregory Bateson, Mary Catherine, che ci dice che il padre spesso la raccontava per parlare di apprendimento e di quanto ciò che già siamo influenza ciò che impariamo e ciò che diventiamo.

“Dopo aver addestrato per tanti anni i ratti a correre, un assennato psicologo all’improvviso capì che, dal momento che questi animali non vivono abitualmente nei labirinti, il labirinto forse non era il dispositivo ideale per fare esperimenti sull’apprendimento. Comprò allora un furetto, una specie che in natura va a caccia di conigli addentrandosi nei cunicoli delle tane. Mise come esca in un labirinto della carne fresca di coniglio e vi fece entrare un furetto. Il primo giorno il furetto perlustrò sistematicamente il labirinto e trovò la carne di coniglio in un tempo inferiore a quello impiegato da un ratto sottoposto alla medesima prova. Ma che accadde il secondo giorno? Come ci si aspettava il ratto perlustrò il labirinto e trovò l’esca in un tempo minore rispetto al primo tentativo. Era il segno secondo lo psicologo che si era prodotto un apprendimento. Ma non fu lo stesso per il furetto. Percorse infatti il labirinto e giunse al bivio che il giorno prima lo aveva portato alla ricompensa ma non lo imboccò. Per quale motivo? Perché il giorno prima ci aveva già mangiato il coniglio che lo abitava. Ciò che il furetto aveva appreso dipendeva dalle aspettative su come va il mondo – per i furetti, si intende.”

Non ha tempo da perdere, il furetto. E se il giorno prima ha già macellato un coniglio in una delle stanze della casa dei conigli, sa bene che il giorno dopo non ne troverà lì un altro. Va oltre e, seguendo la sua natura, cerca da un’altra parte. Sarà molto difficile farlo pensare come un ratto e, qualora si riuscisse, ci si troverebbe ad avere a che fare con un furetto depresso (o schizofrenico, direbbe Bateson).

È evidente che le aspettative modulano continuamente il comportamento e la percezione: tendiamo a vedere ciò che ci aspettiamo di vedere e a comportarci in base a ciò verso cui “spontaneamente” tendiamo.

L’aspettativa è, in questo senso, un fortissimo bias: una tendenza, un’inclinazione o una distorsione verso… qualcosa che è già nella nostra mente e che noi cerchiamo là fuori, qualcosa che magari non è ancora ben definito ma verso cui ci sentiamo protesi.

Spesso è anche una cosa che non sappiamo di sapere: il furetto è un furetto e basta e anche noi a meno che non ci sia uno psicologo sperimentale che misura i nostri tempi di reazione e controlla le esche che ci lasciamo alle spalle, ce ne andiamo in giro senza troppo considerare la nostra semenza. Non è detto che sia un male e, finché non ci si ritrova su una soglia su cui occorre fare i conti con la propria natura, il comportamento che ci ha fatto sopravvivere fino ad oggi garantirà anche il prossimo coniglio (o la prossima esca se siamo, senza saperlo, in un esperimento).

Ma cosa capita quando siamo dei furetti e ci trattiamo come dei ratti? Cosa succede se coloro a cui chiediamo aiuto ci considerano non in base alle nostre aspettative ma alle loro? E se sia le nostre che le loro sono oscure ad entrambi?

I desideri e le aspettative spingono in una direzione e determinano le resistenze: se cerco di addestrare un furetto a comportarsi come si comporta un topo troverò molte difficoltà e, come minimo,  avrò a che fare con uno studente recalcitrante; se cerco di convincermi a stare in una situazione che per me è tossica, se, insomma, sono un pesce di mare che cerca di nuotare in acque dolci, sbatterò contro ostacoli che altri nemmeno vedono ma che per me saranno fonte di sofferenza.

Il fenomeno che Freud definì ritorno del rimosso è collegato proprio alla soppressione del desiderio, al gesto (per la gran parte delle volte inconscio) con cui violentiamo la nostra natura non ascoltando forze che non possono essere messe a tacere senza conseguenze.

Nel ventiseiesimo canto dell’Inferno, Dante  mette Ulisse e gli uomini del suo equipaggio su una soglia archetipica: le colonne di Ercole, il punto estremo oltre cui non c’è che l’ignoto. Da maestro di eloquenza qual è, Ulisse fa un discorso che va a toccare le corde più profonde delle loro anime e che culmina nell’esortazione a considerare la propria natura e a ricordare che le loro aspettative sono ben diverse da quelle dei bruti e che la ricerca di virtù e di conoscenza è ciò che profondamente li differenzia da…

Credo sia importante anche senza trovarsi su una soglia così drammatica  (e magari prima di andarci a sbattere) porci nella stessa prospettiva, pensare le nostre aspettative ed analizzare le resistenze che derivano dalla soppressione del desiderio o dall’accettazione passiva delle regole di un gioco che, forse, non è il nostro.

E la resistenza è un buon punto da cui partire: dove ci incaponiamo, là, dove ci trovano cocciuti, insistenti, duri di comprendonio; sotto agli spigoli del carattere e di fianco a certi sintomi che si ripetono; nei contesti in cui non riusciamo a lasciar perdere.

Sono buoni posti in cui scavare!

Christian Schloe Sailing the Universe

Fantasmi

Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi”
David Foster Wallace

La frase dell’incipit si trova nell’ultimo libro di Wallace, Il Re pallido: un libro che l’autore chiamava “la cosa lunga” e che gli sopravvisse, incompiuto e messo insieme, spulciando fra un’enormità di appunti, dal curatore di altri suoi libri.

DFW la inserisce, di punto in bianco, a pagina 404 (edizione italiana) nel bel mezzo di un elenco in cui descrive un gruppo di dipendenti dell’agenzia delle entrate che sfoglia cartelle dei redditi: una descrizione che si limita a dire chi gira una pagina, chi due, quanto rumore fanno i fogli, chi torna indietro per ricontrollare qualcosa.

Non viene spiegata e rimane lì ad evocare una serie di associazioni e, naturalmente, di domande.

Quella che segue è un’amplificazione. E’ ciò che faccio in seduta quando mi trovo di fronte a qualcosa che compare e che né io né il paziente riusciamo davvero a spiegare o ad interpretare: una sorta di segno che rimane chiuso come un’ostrica e che proprio per questo stimola le associazioni e l’immaginazione.

Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi. Giulietta e Romeo, Amore e Psiche, Orfeo e Euridice, Narciso ed Eco: in ognuna di queste coppie (e in molte altre) uno dei due protagonisti insegue l’altro, irraggiungibile, andato, scomparso… proprio come un fantasma.

Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi. I fantasmi trascinano catene che, simboli del loro attaccamento, li trattengono in uno stato di sospensione. Forse aspettano di essere riconosciuti o forse la costrizione non è che un desiderio non esaudito, qualcosa a cui continuano ad anelare ma che non si lascia raggiungere. E forse nemmeno loro sanno bene quale sia il desiderio ed è per questo che sono, allo stesso tempo, timidi e spaventosi: incapaci di farsi vedere fino in fondo, persecutori nel loro compulsivo volersi mostrare, far sentire, essere corrisposti. Continua a leggere

Contro la generalizzazione

Viviamo in un’epoca in cui i modelli
tendono ad essere mediocri in modo che
la loro raggiungibilità sia comoda”
Tony Servillo

Negli ultimi giorni avrò sentito almeno dieci volte appioppare la diagnosi di depressione all’attentatore di Monaco. E’ probabile che un giornalista abbia cominciato a riferire di una qualche cura che, in passato, il diciottenne-omicida-suicida, aveva ricevuto; può essere che frugando superficialmente nella sua vita si sia venuti a sapere che stava prendendo psicofarmaci ed ecco la deduzione più semplice, la prima etichetta preconfezionata: provava un disagio, era oggetto di bullismo da parte dei coetanei, si è depresso e ne ha ammazzati una decina.

Sembra la seconda spiegazione più facile dopo radicalizzato che sta per “reso più o meno velocemente un potenziale/effettivo assassino”.

Ma tutt’al più un depresso si suicida. Molto spesso si lamenta molto e fatica a portare avanti un’esistenza resa difficile dal rallentamento motorio, dalla perdita di senso, dall’umore nero, dall’insonnia o dall’ipersonnia, ecc.

Lo so che la questione sembra irrilevante e che, comunque, nove persone sono state uccise e che il killer fosse depresso o psicopatico sembra non aggiungere o togliere nulla alla tragedia.

Ma invece è una questione di principio: visto che sono (e forse mi sono) relegato nella posizione dell’osservatore credo di dover almeno rifiutare la lente che mi viene proposta se la trovo sfocata, distorcente, fuorviante. Continua a leggere

L’indomabile belva

Scuote l’anima mia Eros,
come vento sul monte
che irrompe entro le querce;
e scioglie le membra e le agita,
dolce amara indomabile belva.”
Saffo

La dolce, amara, indomabile belva in grado di scuotere l’anima e sciogliere le membra ha mobilitato e mobilita una grande quantità di resistenze: difese, perlopiù vane, che tentano di arginare gli influssi del desiderio e di creare una serenità tiepida che riduca gli alti e bassi evitando quelle “pene d’amore” che distraggono da… il lavoro, lo studio, il dovere, i risultati, ecc.

Riflettevo con una collega su quante ore di seduta vengano dedicate ai dolori connessi alla relazione. Pazienti che lamentano amori non corrisposti, abbandoni, tradimenti, storie difficili, idealizzazioni e delusioni. Pasticci in cui Eros ha scagliato le sue frecce senza equità: troppo desiderio da una parte, troppo poco dall’altra; bisogni non soddisfatti, grandi fuochi che si affievoliscono, promesse spese e non mantenute. Tanta sofferenza non direttamente classificabile fra i cosiddetti sintomi psichici o psichiatrici ma, tuttavia, dolore che affligge e che non si può certo liquidare come contingente: qualcosa che passa da solo e di cui è inutile parlare, un sintomo che, siccome non è catalogato fra le patologie del Manuale diagnostico e statistico dei Disturbi Mentali, si può lasciar perdere.

La sofferenza è sofferenza. Nel mio lavoro va ascoltata e compresa e questo tipo di sofferenza in particolare ha svelato ai terapeuti paesaggi della psiche in cui altri sintomi abitano, si formano, covano a lungo prima di manifestarsi. Continua a leggere

Ansia e desiderio

…l’opposto dell’ansia
non è la calma,
è il desiderio”
M. Epstein

Non mi sognerei mai di prodigarmi per aiutare un paziente ad affrontare uno stato d’ansia suggerendogli di stare calmo. Se lo dice già da solo: prova a fare dei respiri profondi, a distrarsi, ad isolarsi dalla folla e a ricercare situazioni rassicuranti; cerca contenitori familiari, posti in cui gli stimoli siano ordinari e le risposte conosciute; se proprio non ce la fa si rifugia in una calma artificiale propinandosi una benzodiazepina, una copertura dell’ansia che placa l’attivazione e ristabilisce uno stato di apparente tranquillità.

Non si diventa calmi, non si può decidere la calma così come non si decide l’ansia: si fanno, sì, cose che favoriscono l’uno o l’altro stato ma, entrambi, sono un risultato. Ci sono fenomeni che non ascoltano la volontà e, mentre posso decidere di guardare in una certa direzione o di mettermi a camminare, non posso decidere un orgasmo, non posso “voler dormire”.

L’ansia è molto spesso il risultato di un tentativo, più o meno conscio, di controllare qualcosa che non è presente ( l’ansia anticipatoria) o di esercitare la volontà in contesti in cui la volontà non può fare la differenza (l’idea di avere “tutto in ordine” dell’ossessivo). Continua a leggere