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Rifugio dalla tempesta

“Il mondo non chiede che si creda in esso;
chiede che ci si accorga di esso, che lo si
apprezzi e che si abbia per esso attenzione e cura”
James Hillman

Mi imbatto in molte tempeste mentre svolgo il mio lavoro. Ci sono le intemperie in cui i pazienti incappano: le avversità della vita, i dolori e le offese che costellano i rapporti umani, i lutti, gli abbandoni… E ci sono le tempeste interne: i disturbi, i sintomi, gli scompensi della psiche e della chimica del cervello, quelli per cui, a fianco della psicoterapia, occorre a volte aggiungere un farmaco. Provo con loro a costruire un rifugio, a trovare uno spazio che sia un riparo dal mondo quando è troppo ostile o dall’interno quando l’ordine diventa disordine e la mente sembra “lavorare contro”.
Poco più di un mese fa ho scattato questa foto:

Raffigura Dioniso tenuto in braccio da Sileno, un personaggio della mitologia greca a cui, si narra, Hermes diede in custodia il giovane dio.

La statua è una copia Romana del secondo secolo di un originale greco di Lisippo di circa 500 anni prima. Ciò che mi ha colpito, oltre alla bellezza dell’opera, sono la tenerezza dell’abbraccio e dello sguardo, l’attenzione che il satiro pone nel gesto e  la prossimità tra le figure, la vicinanza più che fisica tra due archetipi: il vecchio selvatico e il bambino/dio.
Dioniso è davvero uno strano dio. In lui sono presenti innumerevoli contraddizioni: è maschile e femminile allo stesso tempo, può generare ebbrezza e liberare i sensi ed è così pieno di energia da essere collegato al principio che fa scorrere la linfa negli alberi; è comico e tragico, caotico e portatore di un ordine diverso. 

In questa statua  se ne sta in braccio a Sileno che rappresenta un po’ il suo terzo grembo. Il piccolo Dioniso è passato attraverso più di una tempesta: la madre biologica, Semele, ha la sfortuna di accoppiarsi con Zeus e di rivederlo in tutta la sua potenza quando la gravidanza è al sesto mese, non sopportando l’esposizione al dio muore e Zeus decide di portare avanti la gestazione facendosi impiantare il feto in una coscia. Al parto il padre degli dei lo chiama Dioniso che significa nato due volte o il bambino della doppia porta

Proprio come certi pazienti Dioniso è sopravvissuto alla tempesta ed egli stesso è una tempesta. Incontenibile. Come un istinto, una pulsione, un vizio. Come una passione, come una mania.  O come la palude della depressione in cui può finire chi rischia di soccombere di fronte alle difficoltà o chi prova come lui a curarsi con una delle tante droghe che promettono un sollievo. Incontenibile finché non trova rifugio dalla tempesta.
Proprio come Dioniso i pazienti (e chi non lo è o non lo è stato) hanno bisogno di più di una nascita. È più somigliano a Dioniso, più sono “portatori di tempesta”, di disordine e di profonda e caotica energia più chi prova ad accoglierli deve chiedersi cosa dà rifugio? Come si fa a darlo quando la tempesta è più dentro che fuori? Basta essere accoglienti? 

Ci sono varie teorie. Varie ipotesi su come sia meglio aiutare chi soffre per qualcosa che lo pervade e che non sa controllare. Visioni del mondo che passano dal “all you need is love” alla camicia di forza, idee di contenimento che ragionano sul setting: quante volte alla settimana Dioniso può accettare di sedersi di fronte ad un terapeuta? Basta la stanza di seduta o serve una struttura, una comunità, un reparto? 

Ogni caso è a sé e con ogni persona si può riflettere su come si possa contenere l’incontenibile.

La statua dell’immagine è stata più volte restaurata. In 2500 anni sono andate perse le dita di Sileno, i nasi, una coscia… ma, proprio come la Nave di Teseo, nonostante le perdite e le aggiunte, nonostante gli insulti del tempo i passaggi da un luogo ad un altro, l’anima dell’opera è rimasta.
Guardate come Sileno, non esattamente un dio, più una forza della natura, forse un figlio di Pan, più selvatico che domestico, uno a cui non credo vorremmo dare un figlio da accudire, guarda il bambino.

Lo sguardo è rimasto intatto nel tempo ed è ciò che la statua comunica. Credo che tutti cerchiamo uno sguardo così! È quando lo troviamo e quando riusciamo a darlo che la tempesta almeno un po’ si placa!

Fantasmi

Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi”
David Foster Wallace

La frase dell’incipit si trova nell’ultimo libro di Wallace, Il Re pallido: un libro che l’autore chiamava “la cosa lunga” e che gli sopravvisse, incompiuto e messo insieme, spulciando fra un’enormità di appunti, dal curatore di altri suoi libri.

DFW la inserisce, di punto in bianco, a pagina 404 (edizione italiana) nel bel mezzo di un elenco in cui descrive un gruppo di dipendenti dell’agenzia delle entrate che sfoglia cartelle dei redditi: una descrizione che si limita a dire chi gira una pagina, chi due, quanto rumore fanno i fogli, chi torna indietro per ricontrollare qualcosa.

Non viene spiegata e rimane lì ad evocare una serie di associazioni e, naturalmente, di domande.

Quella che segue è un’amplificazione. E’ ciò che faccio in seduta quando mi trovo di fronte a qualcosa che compare e che né io né il paziente riusciamo davvero a spiegare o ad interpretare: una sorta di segno che rimane chiuso come un’ostrica e che proprio per questo stimola le associazioni e l’immaginazione.

Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi. Giulietta e Romeo, Amore e Psiche, Orfeo e Euridice, Narciso ed Eco: in ognuna di queste coppie (e in molte altre) uno dei due protagonisti insegue l’altro, irraggiungibile, andato, scomparso… proprio come un fantasma.

Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi. I fantasmi trascinano catene che, simboli del loro attaccamento, li trattengono in uno stato di sospensione. Forse aspettano di essere riconosciuti o forse la costrizione non è che un desiderio non esaudito, qualcosa a cui continuano ad anelare ma che non si lascia raggiungere. E forse nemmeno loro sanno bene quale sia il desiderio ed è per questo che sono, allo stesso tempo, timidi e spaventosi: incapaci di farsi vedere fino in fondo, persecutori nel loro compulsivo volersi mostrare, far sentire, essere corrisposti. Continua a leggere

Cronaca 22 – Persuasione II Parte: Alberi

Non smetteremo di esplorare.
E alla fine di tutto il nostro andare ritorneremo
al punto di partenza per conoscerlo per la prima volta”
T.S.Eliot

Riferendosi alla Cronaca precedente, la I parte sulla Persuasione, in cui usavo l’immagine di Ulisse e delle Sirene, un’amica mi ha scritto chiedendomi se l’albero della barca a cui Ulisse si fa legare non sia una metafora della “Realtà”, un punto àncora a cui restare saldamente attaccati per non lasciarsi trascinare dai canti suadenti che ci porterebbero lontano, troppo distanti dal terreno su cui poggia il nostro io.
Scrive Elena: “… E’ quell’albero che accompagna e, insieme, sostiene Ulisse dalle sue stesse paure, spingendolo sempre più dentro di sé ad “aderire a sé stesso”. Solo allora potrà arrivare ad Itaca. Riflettendo mi chiedo e ti chiedo se esista una differenza psicologica tra quell’albero e Itaca e se tra loro ci fosse un nesso, come tra i soggetti e i luoghi…”.

E’ una buona domanda, mi dà l’occasione di portare avanti un discorso che mi sta a cuore e che fa da cornice a tutta una parte del mio lavoro: quella in cui, ascoltando e persuadendo, osservando e fornendo chiavi di lettura, co-costruisco insieme al paziente un pezzo di realtà, un contesto in cui esprimerci. Mi dà, inoltre, lo spunto per riflettere sulle metafore: potenti immagini che, più che descriverla, costruiscono la realtà.

Il termine stesso “albero della barca/nave” è già una metafora (come gamba-del-tavolo o piedi-della-montagna). Sarebbe un palo, quello della barca, ma dicendo albero diciamo molto di più. È stato un albero e “lo è ancora” nella misura in cui, metaforicamente, ha radici, si erge, punta verso il cielo, evoca e conduce a terra. E’ da quell’albero che si può scorgere la terra, è su di esso, l’albero maestro, che si fa conto per la tenuta della nave e la capacità di prendere il vento, sull’albero si issa la bandiera, ecc. Dicendo albero significhiamo qualcosa di diverso e di “di più” rispetto a ciò che un più prosaico “palo centrale e più alto della nave” comunicherebbe. Continua a leggere

Sull’essenzialismo

“Che la terra sotto i nostri piedi sia
paradiso o inferno dipende dal nostro
modo di vedere e di camminare”
Thich Nhat Hahn

Nell’ultimo post, scrivendo di cosmesi, di abbellimenti e di mascheramenti della realtà, parlavo della necessità di chiederci in che modo ci convinciamo delle cose di cui siamo convinti e dell’antidoto che dovremmo essere in grado di somministrarci per non cadere preda di chi ha interesse a farci credere cose che non necessariamente sono quello che sembrano.

L’idea stessa di guardare sotto alla superficie è un invito ad osservare con più attenzione e ad adottare un atteggiamento che ci dà una posizione diversa non solo verso gli oggetti che ci circondano ma anche nei confronti delle persone con cui abbiamo a che fare.
Tutti noi ci facciamo delle mappe: abbiamo delle teorie che ci permettono di orientarci fra le cose e le persone; rispondiamo al mondo in base a ciò che crediamo che sia e, quando abbiamo a che fare con un nostro simile, ci facciamo un’idea di cosa stia pensando, sentendo, progettando.

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