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Sul vuoto: “Absolute beginners”

Nel vuoto del vaso sta il senso dell’uso”
Tao Te Ching

Avere un titolo è già un inizio. Aiuta a rompere il tabù del foglio bianco, impedisce quel risucchio che avviene quando ci si appresta ad iniziare e offre qualcosa a cui attenersi, attorno a cui girare senza troppo allontanarsi dalla base.

L’altro ieri un’amica mi ha chiesto di scrivere un post su David Bowie. Ci pensavo da qualche giorno e mi trattenevo perché ho già scorso un po’ di articoli e in alcuni ho letto cose che anch’io avrei detto, in altri ho riconosciuto la solita sperticata lode del mito che mi irrita e nella quale cerco di non cadere anche se, insomma, Bowie mi piaceva molto, la sua morte mi ha colpito e non ci credo tanto che sia morto. O, meglio: ovvio che lo so! Era un alieno ma non era immortale. Eppure, era uno di quelli che non ci pensi che morirà. L’incarnazione di un archetipo: quel puer aeternus che soggiorna in tutti noi e che sembra non invecchiare mai, anche quando il corpo si logora, anche quando sarebbe ora di diventare saggi. Uno che inizia cose qualche giorno prima di andarsene e che mette Lazarus fra i suoi ultimi brani.

Il puer rappresenta una delle spinte più dinamiche della psiche: crea quasi per il gusto di creare, gioca con i propri artefatti e continuamente dà inizio; fin dalla più tenera età mostra una sorta di dono, un talento che… spreca, dandolo a piene mani, elargendolo così come si fa quando si considera che, tanto, la fonte non può esaurirsi.

E’ un principiante (ma non un dilettante) perché adora provare cose non ancora provate o impegnarsi nel compito di fare come se fosse la prima volta. Lo è per natura e lo è perché è come se del suo dono non sapesse che farsene (lo dice, la canzone: I’ve nothing much to offer/there is nothing much to take/I am an absolute beginner/and I am absolutely sane). Continua a leggere

Mandala

“Mentre restaurava i mobili e li disponeva nella stanza,
era se stesso che lentamente ridisegnava,
era se stesso che rimetteva in ordine,
era a se stesso che dava una possibilità”
J.E.Williams

La frase dell’incipit è tratta dal romanzo Stoner.
Il protagonista sta preparando una stanza della nuova casa per farla diventare il proprio studio. Lavora in un luogo che vuole rendere bello e confortevole e… si rende conto!

L’autore, che sembra vivere insieme a Stoner la trasformazione in atto, dice: “Mentre sistemava la stanza, che lentamente cominciava a prendere forma, si rese conto che per molti anni, senza neanche accorgersene, come un segreto di cui vergognarsi, aveva nascosto un’immagine dentro di sé. Un’immagine che sembrava alludere a un luogo, ma che in realtà rappresentava lui. Era dunque se stesso che cercava di definire, via via che sistemava lo studio”.

È un momento di consapevolezza, uno di quegli istanti in cui ci si trova davanti ad uno specchio, ci si accorge di averlo costruito, di riflettercisi dentro e di vedere qualcosa che, prima, sfuggiva.

Il luogo diventa un riflesso dell’identità e in quel momento abitare ed essere coincidono: stare diventa sostare in se stessi, sentirsi e individuarsi.

Può accadere in uno spazio tridimensionale e, in quel caso, è il luogo fisico che ci circonda a diventare l’ambito del nostro esserci. Ma la stessa cosa cosa può accadere con altri oggetti e possiamo sentirci a casa in un quadro, in un libro, in un piatto appena cucinato.

Mettiamo una parte di noi in qualcosa che sta fuori e al quale aggiungiamo… vita.

Troviamo profondamente significative pagine che altri scorrono distrattamente o siamo catturati da immagini che in noi risuonano familiari perché evocano qualcosa che sentiamo nostro ed è come se ci completassero dandoci la possibilità di ri-conoscerci. Continua a leggere

Il Vuoto: abitare

“… così come i cavernicoli sentivano il bisogno di fare sulle
fredde pareti delle grotte per padroneggiare l’angosciosa estraneità
minerale, familiarizzarle, rovesciarle nel proprio
spazio interiore, annetterle alla fisicità del vissuto”
I. Calvino

C’è nel gesto del cavernicolo di cui parla Calvino un profondo significato psicologico e sociologico: disegnare una scena di vita o una parte del corpo sulla parete di un posto chiuso e riparato ma non ancora vissuto è un atto fondante, una rappresentazione che rende il posto un luogo distinto rispetto al resto. Ha, inoltre, un valore apotropaico; serve cioè ad allontanare l’ignoto, il pericolo, ciò che si ritiene possa portar male o ferire.

Ci sono simboli che rassicurano e di cui spesso andiamo in cerca per esorcizzare il vuoto, per sentirci meno esposti e per sostenerci nei momenti in cui sembra che il mondo sia meno sicuro o che la nostra capacità di abitarlo venga meno. Vere e proprie coperte di Linus che brandiamo contro ciò che ci spaventa e che diventano rassicuranti anche se, razionalmente, sappiamo che difficilmente sarà un simbolo a salvarci ma che serviranno impegno, strategie, azioni, alleati, medicine…

Eppure gran parte della cosiddetta salute mentale (e anche un bel pezzo di quella che chiamiamo civiltà) dipende proprio dai simboli e dalla capacità di usare dei simboli invece di passare all’azione. Basti pensare all’arte: alla pittura, alla scrittura, alla capacità di trasferire un’idea o un insieme di idee senza doverle ogni volta ripetere ma consegnandole all’altro in un oggetto, un dipinto, uno scritto, un’opera della coscienza… qualcosa insomma che rimandi a qualcos’altro che l’interlocutore può “capire al volo”. Continua a leggere

Il Vuoto: un antipasto

… tutti i luoghi comunicano con tutti i luoghi
istantaneamente, il senso di isolamento lo si prova
soltanto durante il tragitto da un luogo all’altro,
cioè quando non si è in nessun luogo”
Se una notte d’inverno un viaggiatore.

Mi è stato chiesto di scrivere qualcosa sul vuoto, sul senso di vuoto e sul significato che questo stato d’animo ha in psicologia e in psicopatologia. E’ un argomento che mi interessa fin da quando ero ragazzo e mi imbatto quotidianamente in sintomi che con il vuoto hanno a che fare; alcuni miei pazienti soffrono di un senso di vuoto che non riescono a sopportare, altri patiscono le soluzioni che hanno adottato per “riempirlo”. Ho deciso quindi che, sì, ero contento di dire la mia sul soggetto e, come sempre mi succede quando decido di affrontare questa specifica questione, mi sono ritrovato vuoto e senza niente da dire.

Ci sono abituato! Capita spesso davanti al “foglio bianco”… che è un vuoto, appunto. Ma ancor di più quando il tema è proprio questo buco che risucchia e che svuota le idee rendendole inadatte, poca cosa di fronte all’abisso, un aeroplanino che non attraverserà lo spazio troppo grande che si apre quando si prova ad affrontare, tutto insieme, ciò che la natura aborrisce: quell’assenza che è mancanza di rifugio e di sostegno, panico e strana attrazione, soglia e inguardabile oltre.

Prendo rifugio, quindi. Inizierò con piccole cose e con il pratico principio che intima di non tentare di mangiare il bue tutto in un boccone ma un pezzo per volta, un primo pezzettino di vuoto. Continua a leggere