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Il letto di Procuste

“Il mondo che troviamo all’esterno di noi è, almeno in parte, il ricettacolo del  
          terrore che abbiamo dentro di noi”
Adam Phillips

Qualcuno ha detto che i Miti sono eventi mai avvenuti che si ripetono continuamente. Un mito è un “come se”: una narrazione che svolgendosi spiega qualcosa, una storia che fa luce su un aspetto della psiche, del comportamento o della relazione.

Si racconta, per esempio, che sulla strada che andava da Megara ad Atene ci si potesse imbattere in un brigante soprannominato Procuste che possedeva due letti, uno grande e uno piccolo, e che si dilettava in un particolare tipo di tortura: dopo averli catturati metteva tutti i viandanti di bassa statura sul letto lungo e quelli alti sul letto corto; i primi venivano stirati con violenza per essere allungati mentre ai secondi venivano tagliati i piedi o parte delle gambe in modo da adattarli al giaciglio.

Da allora con il termine letto di Procuste si fa riferimento a una situazione angosciosa in cui ci si sente forzati a corrispondere ad un modello e nella quale si è costretti a un adattamento snaturante, un processo che per renderci conformi ci fa soffrire storpiando e mutilando.

Son sicuro che tutti voi potete trovare almeno una volta in cui, nella vita, vi siete trovati su una qualche variante più o meno dolorosa del letto di Procuste. So, insomma, che conoscete bene i sintomi che accompagnano l’adattamento, la costrizione e il dover subire. Ci sono forze che deformano e che  mettono a dura prova l’elasticità, la salute psichica (e a volte anche fisica) di chi le sperimenta. Incontriamo molti Procuste e a volte li portiamo con noi sotto forma di tormenti interni: istanze quasi estranee per le quali non andiamo mai bene: troppo grasso, magro, piccolo, diverso, inadatto, sbagliato… La psicoanalisi ha trovato nomi per queste “forze interne”e per i complessi che ad esse sottendono, la psichiatria ha definito sindromi che spiegano la rigidità delle difese e i tratti patologici di personalità.

Ma già i miti avevano detto la loro sul meccanismo per cui adattandoci possiamo assumere forme che perpetuano il dolore del trauma e che cronicizzano modi di essere ben poco armonici.

Il mito è un invito alla riflessione, uno strumento per l’introspezione e spesso tra le sue pieghe è già presente un Pharmakon, un rimedio alla condizione patologica senza apparente via d’uscita che il racconto prospetta. Procuste, per esempio, venne ucciso da Teseo che gli fece subire la stessa sorte a cui lui sottoponeva le sue vittime.

Teseo compì molte altre mirabili gesta. Si narra che la nave sulla quale viaggiava subì così tanti danni e fu talmente soggetta all’usura del tempo che tutte le sue parti vennero sostituite. Eppure la nave è rimasta la nave di Teseo.

La capacità di cambiare continuamente e di mantenere tuttavia la propria identità originaria; il poter essere dei viandanti a cui non vengono risparmiati dolorosi incidenti di percorso e che, come la nave di Teseo, mantengono la propria forma non è che la descrizione parallela di un altro Mito di cui egli è protagonista: quello che lo vede come l’eroe che sconfisse il Minotauro e che, grazie al filo fornitogli da Arianna può ritrovare la strada fuori dal labirinto, quella che gli permette di tornare. Come dire che occorre perdersi un po’ per ritrovarsi, che vale la pena di andare incontro ad alcuni rischi contando sulla propria capacità di ripararsi e che ci sono dei fili/processi che ci permettono di sperimentare strade diverse anche molto complesse preservando comunque la nostra capacità di persistere.

Il contrario del tentativo di adattarsi forzatamente a un modello, l’opposto di quello che farebbero i vari Procuste, interni ed esterni.

Chi incontriamo sulla strada verso Atene? Fuori, nella relazione, o dentro, interiorizzato come una “voce interna”? Un brigante che ci sovrappone ad un modello o qualcuno che promuove la plasticità? Un  rigido conservatore o curioso esploratore? Una descrizione stereotipata o una visione ecologica?

 

Sogni e preoccupazioni

“Dobbiamo cercare di trattare le preoccupazioni nello stesso modo
in cui trattiamo, senza alcuno sforzo, i sogni: ossia dimenticandole”
Adam Phillips

Un mito Romano, ripreso e reso celebre da Heidegger in Essere e Tempo, racconta che un giorno la Cura camminando in prossimità di un fiume scorse un mucchio di argilla e, quasi automaticamente, cominciò a modellarla ricavandone la figura di un essere umano. Trovandola molto bella chiese a Giove di infondere in essa lo spirito vitale. Giove lo fece ma poi fra i due sorse una disputa su chi avesse dovuto dare un nome alla nuova creatura. Al contendere si aggiunse la Terra che disse che, sì, Cura aveva dato forma al fango e Giove vi aveva infuso l’anima ma era stata lei, madre terra, a fornire tutta la sostanza di cui l’uomo era fatto. Non trovando un accordo interpellarono il dio Saturno perché facesse da arbitro. Questi sentenziò che alla morte dell’uomo Giove si sarebbe ripreso lo spirito e la Terra sarebbe rientrata in possesso del corpo. Ma, finché era in vita, sarebbe stata Cura ad occuparsi di lui. Quanto al nome, visto che era stato modellato dal fango, humus, si sarebbe chiamato Uomo.

La cura è quindi, prima della morte e nel tempo della vita (non a caso tenuto ben presente da Saturno/Cronos), la compagna dell’uomo, colei che se ne occupa lungo il tragitto che lo definisce, appunto, un abitante del tempo.

La preoccupazione è una sorta di sorella patologica della cura: insieme all’inquietudine anticipa il tempo e cerca di curare preventivamente, di pre-vedere e di controllare ciò che potrebbe accadere. Facendolo, cercando di avere controllo su qualcosa che non è ancora successo o che è distante e quindi non gestibile, spesso riempie il presente di ansia senza spostare una virgola nel futuro.

Ho visto pazienti usare tantissima energia psichica nel tentativo di rendere meno inquietante un futuro che immaginavano catastrofico senza rendersi conto della proiezione: quel gesto inconscio che aggiunge caratteristiche e attributi ad uno scenario che è innanzitutto mentale. Per me che osservo dal di fuori sembra ovvio che, mentre lo fanno, sono come in un sogno. Vedo bene quanto il quadro che immaginano sia una costruzione e quanto gran parte delle ansie e degli “eventi” che prevedono siano nient’altro che una messinscena spesso dolorosa e, talvolta, autoavverante.

Le profezie che si autoavverano sono come dei sogni che diventano incubi grazie alla preoccupazione. Una persona comincia a preoccuparsi di qualcosa e… va in sbattimento: comincia a dimenarsi e ad esercitare una presa diversa sugli eventi. Prima su quelli mentali: ciò che immagina che succederà sicuramente, ciò contro cui comincia già a prendere delle contromisure; poi su quelli relazionali: le persone su cui decide di esercitare la propria cura/controllo, le situazioni che vanno assolutamente evitate, i nemici alle porte, le malattie, le catastrofi, ecc.

Siccome “la cosa più facile è dimenticare un sogno e ricordare una preoccupazione” l’antidoto a questo crescendo di ansia è svegliarsi!

Cosa succede alla maggior parte dei sogni appena vi svegliate? E cosa state facendo mentre vi preoccupate? Quale è il tipo di attenzione che differenzia un sogno sfuggente da una preoccupazione appiccicosa? Perché se in un sogno cominciate a preoccuparvi troppo vi svegliate di soprassalto mentre quando siete immersi in una preoccupazione non vi rendete conto della costruzione dell’incubo che state perpetrando?

Un modo per rispondere è quello di pensare a degli Io diversi. C’è una differenza fra l’Io-sognante e l’Io-che-si-preoccupa. È una differenza che può essere spiegata in termini fisici/neurologici (e ci dedicherò un post) o, soggettivamente, in termini più empirici. Voi che differenza vedete fra il sognatore e il preoccupato? Quale fra i due è rigido e presuntuoso e quale leggero e aperto? Come vi trattate quando vi state preoccupando e cosa fate (non fate) durante un sogno?

Sono domande facili a cui ognuno di noi sa rispondere almeno un po’. Come se vi chiedessi come si fa ad andare in bici. Sono modi diversi di prendersi, gesti abituali più o meno consci, più o meno automatici, su cui si può riflettere e meditare. Ascoltate il vostro respiro la prossima volta che vi preoccupate. Provate a pensare perchè, se nel pieno di una preoccupazione, succede qualcosa che vi sveglia portandovi alla realtà, qualcosa di davvero consistente, la preoccupazione svanisce come un sogno.

Simone Weil diceva che “ogni volta che si presta veramente attenzione si distrugge un po’ di male in se stessi”. Capita che svegliandosi da una preoccupazione ci si accorga che si stava dormendoci dentro. L’ansia svanisce e l’attenzione ha distrutto un po’ di male. Rimane la Cura ma quella può fare molte buone cose.

Archetipi: da dove vengono le storie?

“La storia è sempre la stessa: “C’era una volta, in un paese lontano lontano, un tesoro, una  perla, una fanciulla che aspettava di essere salvata’’.”
Bernardo Nante

Da dove vengono le storie? Sappiamo che da sempre vengono raccontate, sappiamo che in ogni cultura si ripetono trame che, pur differenziandosi nei particolari, sembrano ripetere un percorso che fa passare chi ascolta attraverso una serie di passaggi quasi obbligati: difficoltà che ci aspettiamo, nemici inevitabili, contrasti che, se mancano o se sono troppo diluiti, ci lasciano insoddisfatti.

Se avete visto Blade Runner 2049 e se avete guardato un po’ sotto alla superficie vi sarete accorti che, anche lì, dietro alle immagini di un mondo che ancora non c’è e di cui intuiamo solo l’inizio, ci sono un tesoro da scoprire e una fanciulla che deve essere trovata. E c’è un mago che costruisce corpi e che ci inserisce “anime” e c’è un giovane uomo che cerca la propria, di anima, e che, come Pinocchio, non sa se è un uomo o un burattino. Se non l’avete visto ve lo consiglio caldamente (anche se può sembrare lento e anche se, forse, andrebbe visto un pezzo alla volta, stanza per stanza).

Ma da dove nascono queste storie?

Jung riteneva che ci fossero, nello sfondo della Psiche e nel mondo che ci circonda, nel linguaggio, nelle opere e nelle relazioni, degli Archetipi: forze sottostanti come quelle che fan sì che un cristallo si formi in un certo modo, secondo certe geometrie e ritmi e non altri, come dei semi da cui le forme derivano. “Vi sono molte altre metafore per descriverli: potenziali immateriali della struttura, come i cristalli invisibili di una soluzione o la forma latente delle piante, che si rivelano all’improvviso in determinate condizioni; modelli di comportamento istintuale che, come quelli degli animali, dirigono le azioni lungo percorsi immutabili; i generi e i topoi della letteratura; le tipicità ricorrenti della storia; le sindromi fondamentali della psichiatria; i modelli di pensiero paradigmatico della scienza; le figure rituali e le relazioni che l’antropologia trova presenti in tutto il mondo.” (Hillman)

È come se ci fosse uno sfondo che ci accomuna tutti e che sta dietro alla psiche individuale, dietro alla somma delle nostre esperienze e a quello che consideriamo il nostro Io. Da lì, dalle profondità dell’inconscio collettivo, gli archetipi influenzano il comportamento, le percezioni e le descrizioni del mondo. Il motivo per cui piacciono sempre le stesse storie e il motivo per cui piacciono a tutti, anche a quelli che si considerano profondamente razionali o “realisti”, è che, nel profondo, la psiche non è così differenziata come in superficie. Gli archetipi: l’Eroe con la sua pulsione ad agire, Psiche con la predilezione per la vita, la Grande Madre che nutre e cura, il Puer Aeternus che continuamente dà inizio alle cose, il Vecchio che porta esperienza e saggezza… queste figure/forze non sono così diverse da un uomo all’altro e da una cultura all’altra. In tutti noi danno origine, spingono perché certe storie vengano vissute, raccontate e sofferte, perché certi cambiamenti abbiano luogo, perché delle relazioni si intreccino.

Forse una delle immagini ancestrali che più rappresenta questo stare sotto e venire in superficie, questo manifestarsi puntualmente  come spinta insopprimibile, è quella di Persefone: la giovane figlia di Demetra, la dea della terra e dei raccolti, rapita da Ade, il dio degli inferi, e in grado di regnare sia sotto che sopra, metà tempo nel Profondo indifferenziato e metà nell’Aperto fertile e fecondato. Anche in questo antico mito si rappresenta una storia, anche qui c’è una fanciulla, c’è un patto per salvarla, c’è un tesoro che sta sommerso per una parte del percorso e che viene ritrovato e poi perso di nuovo, come in natura con l’alternarsi delle stagioni e come nella psiche con la ciclotimia, l’andirivieni degli stati d’animo: depresso-profondo-elegiaco, felice-manifesto-danzante.

I miti sono eventi che non sono mai “realmente successi” e che si ripetono continuamente facendo capolino nella vita di tutti. Compaiono nei comportamenti, nelle attrazioni e nelle repulsioni, nelle preferenze,  nelle estasi e nei sintomi. Persefone, come noi, detesta ed è attratta da ciò che sta sotto (dargli inferi e dai  retroscena, dal “lato oscuro” e dal mistero) e, come noi, cerca la luce e a volte ne è abbagliata, gode della leggerezza e si perde in certe superficialità. La sua oscurità le dà spessore e, come ogni buona storia, vuole manifestarsi/essere pubblicata, non è mai del tutto chiara, viene raccontata in mille versioni, promette di ritornare. Ci dà l’idea di cosa sta dietro alle storie.

Vi lascio qua, per ora, e visto che Persefone rappresenta tra l’altro la primavera allego un’immagine che evoca il femminile e l’aprirsi, l’inizio e ciò che sta sotto. L’ho scattata qualche giorno fa in un posto in cui è già quasi primavera.

No enemies within

Se non hai nemici interiori quelli esteriori non potranno ferirti”
Proverbio Africano

C’è un aforisma di Flaubert che dice: “Occorrono tre cose per essere felici: essere imbecilli, essere egoisti e godere di buona salute; ma se vi manca la prima tutto è finito”.

Mi è tornato in mente dopo che nei giorni scorsi ho letto un tatuaggio con la prima parte del proverbio africano dell’incipit… non avere nemici interiori. Ho collegato le due frasi perché mi sembra chiaro che la debolezza dell’imbecille -etimologicamente l’imbecille è colui che si deve sostenere con un bacillum (un bastoncino)- sia una chiara incapacità di guardare dentro, una mancanza di introspezione che non elimina i nemici ma che, semplicemente, si limita a negarli, a non accorgersi della loro presenza. Il contrario, insomma, della forza di chi ci ha fatto i conti con questi nemici e, dopo un duro lavoro, ha raggiunto uno stato in cui può combattere senza zavorre, può confrontarsi con il mondo da solo!

Credo che nessuno sia completamente così: abbiamo tutti una parte di imbecillità che ci indebolisce e che ottunde la capacità di distinguere cosa sia interno e cosa, invece, sia reale, concreto, esterno.

Il viaggio dell’eroe è uno dei miti fondanti della nostra cultura: il percorso che ogni protagonista di storia compie per trasformarsi e per diventare ciò che è. Nel suo procedere verso la meta il futuro eroe deve affrontare varie peripezie, deve superare prove, confrontarsi con ostacoli che mobilitano tutte le sue risorse e, soprattutto, vincere contro i propri demoni, diventare meno stupido, perdere quell’innocenza che andava bene all’inizio della storia ma che, strada facendo, diventa debolezza.

Ulisse, uno degli archetipi dell’Eroe, deve, sì, affrontare Polifemo, superare le tempeste che l’ira di Poseidone scatena contro la sua nave, passare nello stretto pauroso tra Scilla e Cariddi, ma deve, innanzitutto, lottare contro le forze che gli impedirebbero di compiere il proprio destino: l’inerzia che lo lascerebbe tra le braccia di Circe, l’Hybris che gli farebbe accettare il dono dell’immortalità offertogli dalla Ninfa Calipso, le debolezze che lo accompagnano nel suo lungo viaggio.

Tutti nemici interiori. Una serie di: “Chi me lo fa fare, mi fermo qua che non è così male, sono stanco e potrei riposare… carina Nausicaa…”.

Ma non è un imbecille e qualcosa in lui sa che l’indole va superata: certe facili tentazioni rendono felici e imbecilli, sereni e immobili.

Alla fine, quando fa ritorno, è una persona diversa, uno che può affrontare i nemici esterni perché ha vinto contro ciò che, dentro, andava superato!

Ogni storia che parla dell’eroe, anche quella di Pollicino, ci racconta di un viaggio che è prima di tutto interiore, ci mostra una trasformazione e quando il cerchio si chiude la stessa persona che aveva intrapreso il cammino è… più sola e più saggia.

E i nemici esterni? So che ve lo state chiedendo!

Non è vero che non possono ferirci: ci sono persone che si specializzano nella “caccia agli eroi” e non vedono l’ora di buttare qualcuno giù dal piedistallo. Spesso sono ex amici o nuovi adepti, organizzatori di fan club o segretari particolari.

Ma il proverbio è giusto lo stesso! E’ un incitamento non una promessa. È l’invito ad una jihad (nel senso giusto del termine): una lotta contro l’angelo, un percorso terapeutico che serve da cura contro l’imbecille interiore.

Non finisce alla prima acquisizione di consapevolezza perché è più come un antidoto quotidiano che ci ricorda la nostra debolezza intrinseca e ci aiuta a combatterla indicando la sua origine, la vera madre degli imbecilli: l’idea di un io distinto senza nemici interni, una specie di monolite che rimane uguale a se stesso e che non ha bisogno di intraprendere nessuna avventura, nessuna strada verso il cambiamento.

Nessun nemico dentro è un obiettivo, un motto per continuare il lavoro.

Non rende più facile la vita ma incute coraggio.

Il coraggio è uno degli obiettivi che mi pongo quando inizio una terapia e so che quando i pazienti diventano più coraggiosi è perché si sono lasciati alle spalle un po’ di stupidità

Quanto all’esterno… cito spesso una frase dell’Avvelenata in cui Guccini ammonisce: “Andate e fate tanto ci sarà sempre, lo sapete, un musico fallito, un pio, un teorete, un Bertoncelli o un prete, a sparare cazzate”.

Arnold Böcklin – Odisseo e Calipso

Il tutto e le parti

Non mi fido di chi non ha un lato oscuro”
Iron Man

Nel suo libro Gli dei e gli eroi della Grecia Karoly Kerenyi parla dell’impossibilità di contenere in un’unica descrizione le figure che popolano i miti e i racconti della mitologia. Dice: “Il significato dei racconti era nella figura della divinità stessa; nessun singolo racconto poteva contenere la figura completa in tutti i suoi aspetti. Gli dei vivevano nell’anima dei nostri antenati e non si trasfondevano in alcun racconto interamente. In ogni storia però restava, e resta tuttora vivo, qualcosa di loro che apparteneva all’insieme della loro figura.”

Ogni racconto sugli dei è, insomma, parziale e mette in luce un aspetto tralasciandone molti altri.

Sapere che qualcosa resterà oscuro dà profondità alla narrazione e rinvia ad altre storie e ad altre gesta, trame e relazioni che, si sente, potranno intrecciarsi in momenti diversi o in contesti che renderanno espliciti altri tratti della persona di cui stiamo parlando. Continua a leggere

Mezzi idonei

Sembra che i grandi insegnanti e terapeuti
evitino ogni tentativo diretto di influire sulle
azioni degli altri e cerchino invece di instaurare
le situazioni e i contesti in cui certi cambiamenti
(di solito specificati in modo imperfetto) possano avvenire”
G.Bateson

Giorni fa ho trovato, su un blog che frequento, un passo tratto dalle conferenze alla Tavistock Clinic in cui Jung, descrivendo la posizione che un analista dovrebbe tenere nella terapia con un paziente, dice: “Quando ho in analisi un individuo devo stare estremamente attento a non travolgerlo con le mie convinzioni o con la mia personalità, poiché egli deve combattere la sua battaglia solitaria nella vita e deve poter avere fiducia nelle proprie armi, siano anche rozze e incomplete e nella sua meta, anche se fosse molto lontana dalla perfezione. Se gli dico ‘questo non va bene e bisognerebbe migliorare’, lo privo del suo coraggio. Deve arare il suo campo con un aratro che forse non è del tutto adeguato; il mio potrebbe essere migliore del suo, ma a che gli servirebbe? Lui non ha il mio aratro, ce l’ho io, e non può chiedermelo in prestito. Deve usare i propri utensili per quanto incompleti, e deve lavorare con le capacità che ha ereditato, per quanto carenti.”

Mi sembra una buona metafora: mette l’accento su quella che, ai tempi (era il 1935), si chiamava neutralità del terapeuta e parla di lavoro che deve essere svolto e di mezzi con cui compierlo e non a caso fa riferimento all’aratro che, a sua volta, evoca la terra/coscienza che ha bisogno di essere smossa per dare dei frutti.

E’ improbabile che uno come Jung usasse metafore a caso. Il suo metodo di interpretazione faceva largo uso dell’amplificazione: un modo di procedere in cui, partendo da un’immagine o da una suggestione fornita dall’analizzato, l’analista risale a concetti universali validi in varie culture e in diversi momenti storici. Insomma quando Jung diceva “aratro”intendeva qualcosa di molto preciso e, al contempo, si riferiva ad un concetto che rimandava ad una quantità di altri e che era profondamente significativo per la psiche di… tutti. Continua a leggere

Alessitimia: tu chiamale (se puoi) emozioni

Tutte le cose sono piene di déi”
Talete di Mileto

In un recente articolo intitolato “Perché l’anestesia dei sentimenti è un rischio della nostra civiltà” Massimo Recalcati parla di alessitimia: un disturbo che questo autore definisce come “un congelamento affettivo della vita umana”. Vi basta cliccare sul titolo per leggere l’acuta riflessione di Recalcati che a me serve qui come spunto per un’amplificazione sul dentro e sul fuori e su quel confine del tutto arbitrario che noi tutti siamo abituati a mettere: la demarcazione fra esterno e intimo e fra profondo e superficiale.

Il termine alessitimia significa, letteralmente, non avere le parole per le emozioni e si riferisce all’incapacità di certi individui di riconoscere e di descrivere i propri stati emotivi e quelli degli altri.

Non si può dire che un alessitimico non provi emozioni ma piuttosto che, non riconoscendole, sperimenti qualcosa di confuso, una sensazione più simile ad un dolore fisico che ad uno stato d’animo.

Quando identifichiamo ciò che stiamo provando, quando diamo un nome a qualcosa che accade dentro riuscendo a distinguere la rabbia dalla paura o dal disgusto, compiamo un gesto che serve a contenere e, in un certo senso, a possedere invece di essere posseduti: se so di che emozione si tratta posso agirla, posso provare a trattenerla o posso trovare un antidoto che sia adatto a stemperarla o a ritardarne gli effetti. Continua a leggere

La soglia: contro le spiegazioni

… è difficile spiegare
è difficile capire se non hai capito già”
F. Guccini

Non si può spiegare una barzelletta. Se lo spirito di una battuta non è colto da chi ascolta, ogni chiarimento, ogni tentativo di portarlo con il ragionamento al succo della faccenda non otterrà il risultato. Può darsi che capisca ma la risata sarà una sorta di forzatura un “ah… ecco, era questo che intendevi”, un aborto, insomma.

Il motto di spirito è “di spirito” proprio perché dovrebbe muovere una funzione laterale: qualcosa che assomiglia a ciò che ci permette di godere di una poesia o di un’opera d’arte, più intuizione che raziocinio, più contemplazione e ricettività che analisi e deduzione.

Chi racconta deve essere bravo a portare chi ascolta su una soglia: una posizione nella quale la tensione della storia possa sciogliersi in una comprensione immediata che permetta il riconoscimento di un nesso imprevisto, nel caso della battuta, o di una diversa configurazione, una gestalt che ci lasci ammirati, nel caso dell’arte.

Si scoppia a ridere o si esclama “che bello” quando si ri-conosce qualcosa, come se si ritrovasse dentro di sé un oggetto che era già lì e che, quando viene visto, genera un moto. Qualcosa si muove nella psiche e questo movimento è fonte di piacere o di consapevolezza o di stupore.

Non è stato spiegato ma messo lì! Qualcuno lo vede altri no e credo che il tentativo di spiegare ai secondi ciò che per i primi è auto-evidente sia ciò che ha portato Guccini a scrivere le strofe che cito nell’incipit. Continua a leggere

Ansia e desiderio

…l’opposto dell’ansia
non è la calma,
è il desiderio”
M. Epstein

Non mi sognerei mai di prodigarmi per aiutare un paziente ad affrontare uno stato d’ansia suggerendogli di stare calmo. Se lo dice già da solo: prova a fare dei respiri profondi, a distrarsi, ad isolarsi dalla folla e a ricercare situazioni rassicuranti; cerca contenitori familiari, posti in cui gli stimoli siano ordinari e le risposte conosciute; se proprio non ce la fa si rifugia in una calma artificiale propinandosi una benzodiazepina, una copertura dell’ansia che placa l’attivazione e ristabilisce uno stato di apparente tranquillità.

Non si diventa calmi, non si può decidere la calma così come non si decide l’ansia: si fanno, sì, cose che favoriscono l’uno o l’altro stato ma, entrambi, sono un risultato. Ci sono fenomeni che non ascoltano la volontà e, mentre posso decidere di guardare in una certa direzione o di mettermi a camminare, non posso decidere un orgasmo, non posso “voler dormire”.

L’ansia è molto spesso il risultato di un tentativo, più o meno conscio, di controllare qualcosa che non è presente ( l’ansia anticipatoria) o di esercitare la volontà in contesti in cui la volontà non può fare la differenza (l’idea di avere “tutto in ordine” dell’ossessivo). Continua a leggere

Sulla comunicazione: contro il letteralismo

Elevate le parole, non il tono della voce.
E’ la pioggia che fa crescere i fiori, non il tuono”
Jalal al-Din Rumi

Rumi è considerato il massimo poeta mistico della letteratura Persiana, uno che si è sicuramente speso per elevare le parole e che, con ogni probabilità, quando diceva Jihad intendeva, innanzitutto “grande Jihad”: lo sforzo interiore per liberare l’io da pulsioni che lo dominano conducendolo lontano da uno sviluppo armonioso e da una condotta giusta.

Jihad significa anche molte altre cose. Certi termini non possono e non devono essere tradotti in un solo modo e, quando lo si fa, quando si eliminano certe sfumature e si imbocca la strada del letteralismo, si perde, insieme alla complessità, anche quell’incertezza che ci rende dubbiosi e larghi, poco sicuri e umani.

Passa, il poeta, da un’affermazione ad una metafora, da parole e voce a pioggia e tuono. Non lo fa per spiegare ma per “confondere”: fondere-insieme mente e natura, essere umano e creato, il piccolo e il grande. Lo fa senza pensarci ma seguendo, credo, un istinto che punta al cuore più che alla mente, alla psiche con le sue profondità più che all’intelletto che, con “l’esattezza”, cerca invece un’univoca inossidabile definizione. Continua a leggere