“Non vediamo le cose come sono, ma vediamo le cose come siamo”
Anaïs Nin
Questo post è in cantiere da un po’ e se ne è stato in quella che definisco la cartella “Ogni scolaretto sa che”: un’espressione che ho preso a prestito da Gregory Bateson e che uso per catalogare cose che credo andrebbero insegnate fin dalle elementari.
C’era, nel 1911, un tale dottor Edouard Claparede, medico francese, che seguiva una paziente affetta da un grave danno all’Ippocampo in entrambe gli emisferi cerebrali. In quell’area del cervello sono presenti le strutture necessarie a trasformare i ricordi a breve termine in ricordi duraturi. A causa del danno la paziente ricordava le cose per pochissimo tempo: la sua memoria di lavoro (detta anche memoria a breve termine) funzionava il tempo necessario a permetterle di svolgere una conversazione con il medico ma la volta dopo, quando la rivedeva, questi doveva presentarsi nuovamente perché la paziente non aveva memoria di averlo visto né di aver parlato con lui.
“Erano soliti stringersi le mani a ogni incontro e, poiché poteva conservare le abitudini procedurali, la paziente era in grado di prender parte a questo rituale sociale. Un giorno Claparede nascose una puntina nel suo palmo, pungendole il dito nel momento in cui si davano la mano. Il dolore la sorprese ma la ferita fu superficiale e guarì subito. Ovviamente dimenticò l’incidente. Tuttavia quando Claparede incontrò di nuovo la paziente lei si rifiutò di stringergli la mano. Non riusciva a spiegare il motivo per cui fosse così riluttante e fornì le scuse che gli amnesici comunemente danno per coprire la loro incapacità di ricordasse gli eventi (disse: “Una donna non ha il diritto di negare la propria mano ad un gentiluomo?”). La paziente di Cleparede non era in grado di ricordarsi che egli le aveva inflitto una ferita durante il loro ultimo incontro. Aveva un danno ippocampale in entrambi gli emisferi e per questo era incapace di generare un ricordo dichiarativo dell’evento” (Archeologia della mente, Panksepp, Biven pag. 257).
Aveva però “imparato qualcosa”, questa paziente. Aveva imparato, emotivamente, a… non dare la mano: aveva appreso una paura o, meglio, aveva appreso ad avere una risposta emotiva negativa nei confronti di uno stimolo che prima era neutro o forse addirittura piacevole (dare le mani al medico). E il ricordo era rimasto! Non nell’ippocampo danneggiato, ovviamente ma… da un’altra parte: un posto in cui gli apprendimenti emotivi diventano ricordi emotivi.
Questa della paziente di Cleparede è stata forse la prima dimostrazione del fenomeno della memoria emotiva implicita. Il Disturbo da Stress Post Traumatico (PTSD) è l’esempio più noto degli effetti patologici di memorie registrate in modo implicito, non facilmente richiamabili alla coscienza e in grado di attivarsi e di condizionare la percezione, il comportamento e l’affettività di una persona.
Ci sono vari motivi per cui penso che l’esistenza di questa capacità del cervello-mente andrebbe spiegata ai bambini delle elementari ma quello che mi sta più a cuore è che credo che saperlo aiuti a riflettere su quanto la nostra visione del mondo vada presa con le pinze. Anche senza essere affetti da PTSD, reagiamo a cose che possono averci colpito prima che certe aree del nostro cervello fossero sufficientemente sviluppate da generare un ricordo dichiarativo. Ci sono stati momenti della nostra vita in cui, magari solo per qualche istante, siamo stati vicini alla condizione della paziente del medico francese: incapaci di raccogliere un evento in modo da poterlo poi richiamare alla mente con facilità, con una parte del cervello momentaneamente “spenta” e con un’altra “dolorosamente sveglia” e in grado di registrare lo stesso.
Saperlo, tenere presente che una parte del nostro comportamento può nascere da un condizionamento di cui non siamo consapevoli, può aiutarci ad usare diversamente l’attenzione: ad osservare le nostre reazioni (e le nostre intemperanze) sapendo che ci sono cose che non sappiamo di sapere, che ci sono aspetti della nostra personalità che andrebbero studiati e su cui conviene meditare.
Il neuroscienziato Anil Seth ha definito la nostra realtà, il modo in cui percepiamo il mondo, come un’allucinazione controllata tenuta a freno dai nostri sensi. Intende dire che costruiamo continuamente la “nostra visione del mondo” e che, per fortuna, (quasi sempre) ricordiamo di ri-controllare: di porre ciò che crediamo di aver visto al vaglio dei sensi quasi chiedendoci di guardare nuovamente e di cogliere ciò che c’è più che ciò che crediamo ci sia.
Sapere che esistono memorie emotive implicite è un primo passo per riconoscere che , dal punto di vista soggettivo, la costruzione del mondo è non solo un processo continuo ma, spesso, un processo condizionato e condizionabile.
Cos’è all’opera dentro di noi quando “istintivamente” evitiamo uno stimolo? Quando consideriamo pericolose certe situazioni, ambienti, persone? Siamo sicuri della nostra memoria e delle narrazioni che portiamo avanti, del modo in cui “ce la raccontiamo”?
Lo so, fa un po’ paura essere consapevoli di quanto la mente possa essere condizionata. Ma è meglio saperlo così come è importante sapere che le memorie sono ri-condizionabili: ogni volta che ricordiamo qualcosa stiamo anche modificando un po’ il ricordo e certe paure, certe angosce e certi momenti di panico possono essere rivisti e raccontati nuovamente fino a perdere buona parte della loro automaticità.
Non sto dicendo che tutto può essere reso conscio né che sia possibile escludere ogni condizionamento ma ogni scolaretto dovrebbe sapere che la memoria è un processo dinamico e multiforme, che, come diceva Freud, “ripetiamo ciò che non comprendiamo” e che conviene interrogarsi su come si guarda e su quanto si costruisce ciò che si vede.
Vi lascio, intanto con una quartina del Rubáiyát di Omar Khayyám un poeta e matematico persiano che già nell’undicesimo secolo rifletteva su tutto questo:
“Entrare in questo universo, e non sapere perché
né da dove, come acqua che volere o no fluisce;
e uscirne, come vento nel deserto,
che volere o no soffia, non so dove.”

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