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Mezzi idonei

Sembra che i grandi insegnanti e terapeuti
evitino ogni tentativo diretto di influire sulle
azioni degli altri e cerchino invece di instaurare
le situazioni e i contesti in cui certi cambiamenti
(di solito specificati in modo imperfetto) possano avvenire”
G.Bateson

Giorni fa ho trovato, su un blog che frequento, un passo tratto dalle conferenze alla Tavistock Clinic in cui Jung, descrivendo la posizione che un analista dovrebbe tenere nella terapia con un paziente, dice: “Quando ho in analisi un individuo devo stare estremamente attento a non travolgerlo con le mie convinzioni o con la mia personalità, poiché egli deve combattere la sua battaglia solitaria nella vita e deve poter avere fiducia nelle proprie armi, siano anche rozze e incomplete e nella sua meta, anche se fosse molto lontana dalla perfezione. Se gli dico ‘questo non va bene e bisognerebbe migliorare’, lo privo del suo coraggio. Deve arare il suo campo con un aratro che forse non è del tutto adeguato; il mio potrebbe essere migliore del suo, ma a che gli servirebbe? Lui non ha il mio aratro, ce l’ho io, e non può chiedermelo in prestito. Deve usare i propri utensili per quanto incompleti, e deve lavorare con le capacità che ha ereditato, per quanto carenti.”

Mi sembra una buona metafora: mette l’accento su quella che, ai tempi (era il 1935), si chiamava neutralità del terapeuta e parla di lavoro che deve essere svolto e di mezzi con cui compierlo e non a caso fa riferimento all’aratro che, a sua volta, evoca la terra/coscienza che ha bisogno di essere smossa per dare dei frutti.

E’ improbabile che uno come Jung usasse metafore a caso. Il suo metodo di interpretazione faceva largo uso dell’amplificazione: un modo di procedere in cui, partendo da un’immagine o da una suggestione fornita dall’analizzato, l’analista risale a concetti universali validi in varie culture e in diversi momenti storici. Insomma quando Jung diceva “aratro”intendeva qualcosa di molto preciso e, al contempo, si riferiva ad un concetto che rimandava ad una quantità di altri e che era profondamente significativo per la psiche di… tutti. Continua a leggere

Un’evocazione

Al quinto piano del Museo di Arte Asiatica di Parigi, dopo enormi stanze, ai piani inferiori, colme di statue, vasellame, quadri religiosi, maschere… ci si imbatte in un’installazione che occupa due sale vuote con il soffitto occupato da decine di “aquiloni”: rappresentazioni di carpe volanti, pesci ben auguranti che, per i giapponesi, rappresentano i bambini, la loro vitalità, la loro capacità di crescere e di superare le difficoltà.

Carpe volanti

Entrando nelle stanze dalle cui finestre si scorgono, fuori, i tetti di Parigi, si ha l’impressione di uno spazio silenzioso e circoscritto. Un luogo occupato da immagini, messe lì ad arte, che comunicano qualcosa di lieve e, al contempo, denso di significati. E, come spesso accade con l’arte orientale che (per noi occidentali, almeno) sembra priva di riferimenti chiari, non si riesce ad intrappolare facilmente in un concetto ciò che l’opera vuole esprimere; diventa difficile compiere quel gesto rassicurante che ci fa dire: “ah, ecco: una crocefissione, una annunciazione, una pietà…”.

Certe immagini rimangono immagini. Non si assoggettano al lavoro costante della mente che definisce, non entrano subito a far parte del conosciuto e rimangono sospese come sogni, come immaginazioni senza parole. Continua a leggere