Cronaca 21 – Persuasione I Parte: Sirene

La persuasione, specie nelle sue forme più alte,
non può essere raggiunta senza il senso della bellezza”
Sir A. Quiller-Couch

Peitho era, secondo gli antichi greci, la divinità della persuasione. I Romani la chiamavano Suada (da cui persuadere, appunto) ed era spesso rappresentata insieme ad altre divinità, al seguito di Venere/Afrodite, la dea della bellezza e dell’amore.

Sia nella seduzione che nella retorica la capacità di persuadere è una risorsa irrinunciabile: solo se si riesce ad essere persuasivi si può, infatti, compiere quel gesto che ci permette di convincere l’altro e di portarlo dalla nostra parte , di renderlo partecipe di ciò che vogliamo comunicare o, a volte, di affascinarlo e… condurlo là dove vorremmo che fosse o dove ci piacerebbe essere insieme a lui.

Purtroppo, a forza di sentir parlare di “tecniche di persuasione-persuasori occulti-controllo della mente-plagio…”, capita che, appena si accenna a questo gesto, appena si considera la possibilità di far passare un messaggio e raccontare una storia che convinca, certe difese si alzino e certe resistenze si attivino come per delimitare bene i confini ed “evitare il contagio”.

Il muro di cui cantavano i Pink Floyd nel loro celeberrimo album (The Wall) con il coro di bambini che intona il ritornello che afferma quanto un bambino non abbia “bisogno di educazione e di controllo del cervello”, è come un manifesto di questa diffidenza nei confronti di una forza che, se non controllata o se usata disonestamente, potrebbe ridurci a marionette manovrate da chi è bravo nell’arte di persuadere.

Ma accade che la semplice diffidenza non funzioni.

Ulisse fa mettere la cera nelle orecchie dei suoi marinai perché non ascoltino il canto delle sirene ma lui ascolta! Vuole ascoltare: forse vuole solo conoscere, capire di più, sentire che cosa hanno da dire queste voci così suadenti, forse vuole imparare, anche se già la sa lunga sulla capacità di ingannare e di dirigere gli altri, un altro incantesimo, un altro modo di dominarli senza la spada ma con le idee e con la loro espressione.

O, più probabilmente, (o così piace raccontarla a me per persuadervi un po’ in questo contesto) ha capito, Ulisse, il versatile, che non è stando sotto ad una campana di vetro che si diventa forti, non è evitando le voci e i discorsi e, addirittura, gli accenni, che si neutralizza l’influenza e ci si mantiene integri e sani e “se stessi”.

Chi è, innanzitutto, quel “se stesso” che ha bisogno di preservarsi, di non essere contaminato, di erigere difese? C’è davvero, “dentro”, un io che può non cambiare evitando di vedere, di assaggiare, di esporsi? Esiste un Sé individuale che, come una monade, se ne possa stare fermo e imperturbabile perché già abbastanza persuaso?

Non credo. C’è in ognuno di noi una parte che tiene saldi questi presupposti: uno stile di pensiero ostinatamente monoteista che considera che c’è l’Io e ci sono gli altri, si possono mettere dei confini, si può tener fuori il mondo. Considerazioni vere solo in parte; vere per un momento e false non appena, stanchi di isolarci, decidiamo di esporci. Possiamo per un po’ tappare le orecchie con la cera ma… vogliamo ascoltare. Fin da piccoli abbiamo voluto sentire il canto delle tante sirene che, intuivamo, avessero qualcosa da dire: qualcosa di interessante e di nuovo, di appassionante e di persuasivo.

Solo esponendoci abbiamo potuto costruire un sistema immunitario efficace e solo continuando ad esporci possiamo giungere ad una visione più sfaccettata e ad una descrizione meno primitiva e più esauriente della relazione fra “noi” e il mondo.

In un suo scritto del 1994 dal titolo Psicoanalisi, Sé e Comunità Hillman racconta la storia di un dissidente cinese Liu Qing che: “… aveva passato undici anni in una prigione di Weinan nello Shaanxi, dove per quattro anni e mezzo era stato letteralmente, inamovibilmente centrato, costretto a restare seduto, senza muoversi, su uno sgabello alto venti centimetri, dalle 8 alle 12, dalle 13.30 alle 19, e in seguito fino alle 21”. Chiedevano a Liu Qing una confessione che egli non rilasciò mai perché: “Mentre me ne stavo lì seduto, pensavo: ‘E’ una bugia, e loro sanno che è una bugia; dunque perché non farlo e smetterla di soffrire’. Mai poi immaginavo loro che entravano nella cella, mi mettevano davanti quel foglio, e a quel punto sapevo che non avrei potuto farlo”.

Hillman si chiede cosa sta alla base di questa eccezionale resistenza. “Cosa ‘dentro’ il signor Liu gli impedì di firmare quel foglio? Su cosa faceva affidamento Liu? E Liu non è che un esempio fra migliaia di individui isolati, in prigioni simili, in condizioni simili.”

Accenna, poi, a due risposte “classiche” basate sull’idea di un io che resiste e che si mantiene integro e non si fa persuadere: “Una classica risposta freudiana è: la silenziosa sottile voce di quell’unico Sé, prioritario rispetto a tutte le contingenze. […] Una classica risposta junghiana è: ‘la voce parla come il famoso daimon di Socrate, che gli diceva non che cosa fare, ma cosa non fare’ – una voce inibitoria. Non tanto propone l’azione giusta quanto impedisce l’azione sbagliata, facendo in modo che la persona non vada fuori strada ma resti correttamente centrata. E’ questa la verità interiore dell’archetipo dell’eroe. Come non indusse Socrate a fuggire dalla prigione, così non sollecitò Liu a rendere una falsa confessione per alleviare le sue sofferenze.”

Ma va oltre, Hillman. Cerca un altro punto di vista e, amplificando, prova a leggere più in profondità: “Accanto alla spiegazione freudiana e junghiana ce n’è una terza: una visione che parte dal fatto che il rifiuto di Liu di firmare era in primo luogo un atto immaginale. Lui immaginò il foglio che avrebbe dovuto firmare. Era qualcosa che aveva a che fare con l’immaginazione, qualcosa di immaginale, a non permettergli di firmare la finta confessione. Questo fa pensare che l’immaginazione possa essere una forza, anche una forza morale, superiore alle contingenze esterne, perché – è questo che adesso intendo sostenere – offre una comunità di esseri che non permette a Liu di tradirli. Sto cercando di proporvi l’ipotesi che l’eroico centro inamovibile non sia tanto un’unica monade, la replica interiore di un unico Dio, quanto un ethos di gruppo costituito dalle immagini del suo maestro Wei, anche lui prigioniero, e della donna che lo stava aspettando, sua moglie, nonché dalle figure che incarnavano i principi, gli ideali, i valori che condivideva – come le imagines della Verità, della Giustizia, della Dignità, dell’Onore, che nella civiltà classica venivano raffigurate come persone, con statue e altari – e forse anche dai suoi antenati morti, dall’altra sponda della tomba, così come dai suoi compatrioti dissidenti, dall’altra parte del muro.”

Questa spiegazione va oltre al Sé e “guarda alle sirene”! Quali potenti voci ha ascoltato Liu? Quali forze l’hanno spinto e sono state più persuasive dei suoi aguzzini?

E, venendo alla nostra, meno drammatica vita, cosa ascoltiamo quando siamo intenti a non ascoltare il canto di chi temiamo possa persuaderci? Quali “invisibili interni” suggeriscono le risposte che diamo e ci aiutano a inibire quelle che ci impediamo di dare? Quali Sirene?

Credo che occorra rispettare queste forze, partendo dall’idea che i persuasi e i persuasori nuotano nello stesso mare, e tenendo presente che un buon modo per non cadere nella prima persuasione è quello di immaginare sempre un’altra descrizione, trovare sempre un’altra storia.

Peitho

Peitho

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