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L’ansia, il corpo, la relazione

“Gli innamorati non si grattano”
R. Birdwhistell

La Cinesica è lo studio dei caratteri individuali attraverso i movimenti caratteristici del corpo. Il termine fu ideato dall’antropologo Ray Birdwhistell negli anni ‘50 del secolo scorso. Di lui si racconta che sapesse individuare la lingua usata da un soggetto semplicemente osservandone i gesti. 

La frase dell’incipit è tratta da un suo intervento in una discussione tenuta all’Università di Princeton a cui parteciparono illustri scienziati di diversi campi (tra loro Gregory Bateson e Margaret Mead). L’obiettivo della discussione era quello di definire in modo approfondito il concetto di gioco. 

Dice Birdwhistell: “Nelle ricerche di cinesica adoperiamo un proverbio: ‘gli innamorati non si grattano’. Una delle cose che (nelle nostre osservazioni sul campo) ci colpirono immediatamente fu che non si grattano mai né gli innamorati nel parco, né una mamma e un bambino che si stanno divertendo insieme. Negli esseri umani c’è un’irritazione della pelle, legata alla situazione; per esempio nella comunicazione, quando gli interlocutori stanno negando una comunicazione o se una persona pensa ‘sto mentendo’, osserverete che si gratta il naso o noterete qualche altra attività che indica prurito.” 

Durante un dialogo tra persone il messaggio è composto: dalle parole che vengono dette (la componente verbale), dal tono, timbro e ritmo del discorso (la componente vocale), dalla postura, i gesti, la mimica facciale, la distanza tra corpi (la componente non-verbale). Quest’ultima corrisponde a circa il 55% del messaggio e, gran parte di essa è “non voluta”. Non stiamo troppo a pensare a cosa fa il nostro corpo mentre siamo impegnati in uno scambio comunicativo: il corpo agisce la comunicazione, si prende lo spazio e… sperimenta una certa quantità di stress dovuto a quanta resistenza trova dall’altra parte (nell’interlocutore), quanto è “difficile/scottante/leggero” l’argomento, quale è lo scopo dello scambio (sedurre, vincere un round, impressionare, ascoltare attentamente ecc.).

Ogni comunicazione (anche certi silenzi che dicono e agiscono molto) contiene una certa quantità di stress a cui il corpo reagisce seguendo una regola implicita che, all’incirca recita così: “non lasciare che la sensazione sgradevole connessa a questo stimolo superi una certa soglia, sappi che la puoi sopportare per un po’ ma che, se dura troppo, diventa faticosa da reggere, provvedi ad alleviarla o dovrai combattere lo stimolo (Fight), o allontanarti/fuggire (Flee), o fingerti morto (Freeze)”. Prima di ricorrere ad una delle tre F di cui sopra ci sono una quantità di strategie che il corpo di chi è impegnato in uno scambio comunicativo può mettere in atto per abbassare lo stress. Tra queste il  tentativo di eliminare una certa irritazione grattandosi.

Sembra che per gli innamorati e per la diade mamma-bambino impegnata nel gioco la tolleranza allo stress sia diversa da quella di altri soggetti osservati e non perché l’attività in cui sono immersi sia in sé meno stressante di altre. Sia la relazione di una madre con il suo cucciolo che quella tra due persone che si amano implicano un grande coinvolgimento emotivo e una buona dose d’ansia: entrambi i rapporti coinvolgono profondamente i soggetti che vi partecipano che sono consapevoli dei premi e delle punizioni connessi al successo o al fallimento della relazione.

Eppure c’è un qualcosa che fa sì che lo stress presente nella relazione venga non solo sopportato meglio ma addirittura cercato. Uno dei fattori che più modifica la percezione della tensione, della fatica, dell’equilibrio precario e del rischio della relazione è la cosiddetta cornice del gioco: l’immersione in un contesto condiviso in cui si sa che si fa sul serio ma anche che si sta giocando. 

Una piccola paziente in seduta con lo psicanalista Adam Phillips, descrivendo una situazione di gioco con la madre, diceva: “Quando giochiamo coi mostri e la mamma mi cattura, non mi uccide mai, mi fa solo il solletico”. È una descrizione perfetta di cosa sia il fare-come-se: il bambino per divertirsi deve credere che essere catturato sia spaventoso ma deve anche poter sentire che il legame è sicuro e che, quindi, la punizione sarà il solletico: un “prurito piacevole”, una tortura innocua.

Non con tutti i genitori questa cornice rassicurante si viene a creare e non in tutte le relazioni amorose si riesce a giocare senza farsi male. Ci sono rapporti in cui il possesso e la gerarchia diventano più importanti della reciprocità. In questi rapporti la capacità di giocare viene come amputata e lo stress della relazione diventa pericoloso. 

Una madre depressa o un partner geloso e possessivo agiscono, spesso inconsapevolmente, un sabotaggio della cornice, un disturbo che, come un prurito, toglie energia e rovina il gioco. 

Pensate all’ansia che può provare un bambino che sente che la madre o il padre diventano distanti o minacciosi o ambigui (come negli abusi) o allo stress che si genera in una coppia quando uno dei due attori cerca di imporre all’altro il proprio volere. 

Le rassicurazioni del legame così come gli attacchi al legame sono quasi sempre dei metamessaggi. Più che dire a una persona che le vogliamo bene o che la detestiamo compiamo una serie di gesti che intendono quella cosa: creiamo o togliamo il contatto visivo, ci avviciniamo o ci allontaniamo più o meno bruscamente o delicatamente, teniamo conto intuitivamente dello stress che c’è nella relazione e agiamo per abbassarlo o per aumentarlo. Se la relazione è buona questo lavoro sulla tensione diventa una danza condivisa, una sintonizzazione come quella che si verifica tra due innamorati o in un gioco tra adulto e bambino. 

La cornice fa la differenza. Quando stiamo giocando entriamo in uno scenario che ha come sfondo la consapevolezza che  ciò che si sta facendo contiene tante cose tra cui, sicuramente: il corpo dei giocatori, l’ansia della sfida, la relazione che, nel gioco, viene messa alla prova e che dal gioco deve uscire temprata

Volendola mettere in termini clinici, credo che possiamo dire che il gioco è uno stato di coscienza in cui gli attori sono uno di fronte all’altro ma, nello stesso tempo,  sanno di essere affiancati. La relazione viene sia sfidata che rassicurata e… appresa.

L’ansia in questo scenario non è che un ingrediente necessario che si trasforma da stimolo nocivo in piacevole eccitazione. Gli innamorati non si grattano. 

Sui sentimenti: omeostasi

“Non saprai mai cosa sia abbastanza, se non saprai cos’è più che abbastanza”
William Blake

L’omeostasi è la capacità di un organismo di mantenere un equilibrio interno pur nel variare delle condizioni dell’ambiente esterno. Sudare quando fa molto caldo e avere i brividi (e arruffare il pelo o vestirsi) quando fa freddo; bere quando si ha sete e mangiare per placare la fame; questi e molti altri gesti sono modi per sopravvivere, risposte a stimoli esterni o interni che indicano una perdita di equilibrio e a cui il corpo e i comportamenti pongono rimedio per ricreare uno stato ottimale.

Antonio Damasio nel suo ultimo libro Lo strano ordine delle cose, dice: “L’omeostasi è un potente imperativo, inconsapevole e inespresso, il cui assolvimento implica per ogni organismo vivente, piccolo o grande che sia, il semplice perdurare e prevalere”.

I termini “inconsapevole e inespresso” sono, per me che faccio lo psicologo (e per una mia particolare predilezione), le parole chiave della frase, quelle su cui vale la pena riflettere. È ovvio che non abbiamo bisogno di metterci a pensare per cominciare a sudare quando fa molto caldo ed è evidente che non ci siano gesti consapevoli che regolano la pressione arteriosa o la secrezione di insulina dopo un pasto abbondandante. Sono  processi che avvengono indipendentemente dalla volontà e, come ebbe a dire Bateson, per fortuna la mano sinistra non sa cosa fa la destra: ci sono rimedi che il corpo applica senza che “l’io” faccia niente, senza che occorra un intervento consapevole da parte di un soggetto che, in genere è impegnato in… altro.

Possiamo leggere, interagire con i nostri simili, litigarci o giocare a carte mentre tutta una serie di processi opera per mantenere un equilibrio senza il quale non potremmo né perdurare né prevalere. Mentre tutto questo accade qualcosa dall’interno ci tiene informati su come vanno le cose. Questo qualcosa è ciò che chiamiamo sentimento.

“I sentimenti sono informazioni: essi rivelano a ciascuna mente la condizione di vita all’interno dell’organismo, una condizione espressa lungo un intervallo che va da valori positivi a valori negativi. Un’omeostasi insufficiente è espressa da sentimenti ampiamente negativi; i sentimenti positivi esprimono invece livelli appropriati di omeostasi e schiudono agli organismi opportunità vantaggiose. Sentimenti e omeostasi sono legati in modo stretto e coerente” (Damasio). Insomma, stando molto sul semplice (per ora): se non ho niente sullo stomaco, se ho riposato abbastanza e se mi sento in forze, parto per la prossima azione che ho deciso di intraprendere, che sia il prossimo capitolo del libro che sto leggendo o una giornata di lavoro, con un sentimento positivo: una rappresentazione mentale di come sto che giudico sufficiente o buona.

Il sentimento è una risonanza interna. Qualcosa che sta a metà tra passione e emozione. Se la passione è intensa e duratura e l’emozione è immediata e acuta, il sentimento è… lì in mezzo. Il termine risonanza rende bene l’idea perché se, ad esempio, vedo una persona per la prima volta e provo un’emozione che mi muove verso di lei (questo fanno le e-mozioni: muovono verso o via-da) se sto un po’ con l’emozione e lascio che risuoni dentro di me e giudico che mi sta simpatica, la voglio conoscere, so che la mia omeostasi migliorerà grandemente se avrò a che fare con lei… ecco un sentimento. Se lo coltivo per un po’ può diventare una passione, un innamoramento (o un’ossessione).

Credo che questo stare nel mezzo dei sentimenti sia ciò che li rende “sia fisici che mentali” o, come dice Damasio, dei rappresentanti mentali dell’omeostasi. Credo anche che proprio questa caratteristica di essere degli ibridi corpo/mente sia ciò che fa sì che le persone diventino suscettibili non appena si cerca di definire sentimenti complessi come l’amore o la gelosia in termini puramente fisici/ormonali o romantico/mentali. In quanto “esperienze soggettive dello stato vitale” i sentimenti sono, appunto soggettivi, personali, intimi.

Così, mentre l’omeostasi procede in modo inconsapevole e inespresso a regolare le funzioni vitali, qualcosa negli esseri provvisti di coscienza rivendica la libertà di spostare un po’ le soglie all’interno del continuum che va da  valori positivi a valori negativi di omeostasi. Ci specializziamo in limiti: possiamo mangiare ben oltre al livello di sazietà, superare l’iniziale disgusto verso sostanze tossiche fino a renderne piacevole l’uso e l’abuso, sforzarci di trasformare il dolore in piacere.

Capita così di affezionarci alle nostre dipendenze e di sperimentare stati rischiosi e piacevoli mentre qualcosa nel corpo cerca di far fronte allo squilibrio e di recuperare dopo una scorpacciata, una sbronza, un eccesso. Non sappia la tua destra…

In seduta lavoro molto sull’idea di risonanza. Non ci sono emozioni sbagliate: collera, paura, disgusto, tristezza, entusiasmo, gioia, tenerezza, sono più o meno appropriate a certi contesti, più o meno accettate o censurate. Una domanda interessante sulle emozioni è quanto a lungo vengono fatte risuonare? In cosa si trasforma una collera macerata a lungo? Perché l’entusiasmo “non dura”? Cosa rende cronica la paura?

Lasciar risuonare “dentro”, non lasciar andare, respingere, espellere, custodire; mischiare, diluire, saturare… Ognuna di queste azioni è un tipo di contenimento, un modo di non lasciare andare. Quanto basta? E perché non eccedere?

Idioletti

“Stupido è chi lo stupido fa”
Forrest Gump

L’idioletto è il linguaggio caratteristico di una persona o di un piccolo gruppo, una sorta di lessico familiare che, oltre alla lingua parlata dai connazionali o dai compaesani della persona in questione, contiene vocaboli o modi di dire che caratterizzano proprio quell’individuo o quel gruppo ristretto di persone che si esprimono così. È la lingua che parliamo in casa, quella che abbiamo appreso e pian piano costruito e che riserviamo solo ai più intimi. Spesso contiene termini usati per rassicurare il legame: piccole parole che a volte sono semplici intonazioni di voce e che si usano per dire implicitamente cose tipo “d’accordo, stiamo discutendo ma, di base, ti voglio bene”.

L’idioletto ha le sue regole. Fra partner si può quasi sempre dire “noo, dai… ‘fanculo, amore” e fra amici ci sta un “oh, ma che cazzo dici?” senza che nessuno si offenda. Ma man mano che si esce dalla ristretta cerchia dei propri cari, l’idioletto viene messo da parte e si passa ad un linguaggio che diventa più formale seguendo un continuum che va dai versetti con cui si intrattiene un neonato fino ai “modi corretti” che andrebbero usati con le persone da prendere con le pinze: quelle con una divisa o con un qualche tipo di titolo, quelle che, in certi contesti, rappresentano l’autorità, quelle che riteniamo pericolose.

Eppure lo portiamo inconsciamente sempre con noi. Non smettiamo mai del tutto di intercalare in un certo modo, di rassicurare o minacciare usando certe espressioni, certi toni o certe pause; senza volerlo ripetiamo parole che ci caratterizzano, usiamo una particolare punteggiatura, interveniamo nel ritmo del discorso proponendo o imponendo il nostro passo; alziamo e abbassiamo il volume, poniamo più o meno enfasi.

L’idioletto è un’impronta, una fisionomia che traspare ed è stato analizzato tra l’altro per  passare al setaccio gli scritti o le registrazioni di discorsi di persone che volevano mantenere l’anonimato ma che le forze dell’ordine volevano individuare (è grazie ad un’analisi minuziosa dei suoi scritti che il criminale americano noto come Unabomber è stato catturato).

Chi ci conosce è in grado di vedere questa fisionomia anche sotto le maschere più accurate e, siccome, come ebbe a dire Winnicott,  “nascondersi è piacevole ma non essere trovati è una tragedia”, è un sollievo sapere di potersi mascherare ma è una fortuna poter essere visti comunque, da qualcuno.

A volte, in seduta, uso uno  strumento diagnostico che si chiama Intervista sull’Attaccamento Adulto. È un modo di ascoltare notando i momenti in cui la persona che risponde, interrogata sul suo rapporto con le figure significative della propria infanzia, incespica, i passaggi in cui il linguaggio diventa meno fluido, meno corretto e preciso. Quando succede, quando la persona si impappina e il suo discorso diventa più incerto, il terapeuta ha un indizio che dice che qualcosa nella relazione con la figura di attaccamento di cui si sta parlando è andato storto. Il linguaggio riflette il legame: l’ansia che lo pervade, la paura, le difese messe in atto, i tentativi di trovare un accordo emotivo, le delusioni, la frustrazione delle aspettative e i sistemi per andare avanti lo stesso anche se il legame faceva acqua. Mi è capitato, con certi pazienti di trovarmi di fronte ad un adulto fatto e finito, finché si parlava del rapporto con la madre, e di avere a che fare, poco dopo, con un bambino che si esprimeva a fatica non appena iniziava a raccontare come si trovasse nella relazione col padre.  

Forrest Gump parla sempre nello stesso modo e se la cava bene senza doversi chiedere troppo, senza essere costretto ad interrogarsi sul rapporto fra sé e il mondo. Fa una “passeggiata selvaggia” nell’ambiente che continua a cambiare, restando sempre uguale e uscendone incolume. È l’immagine dell’ingenuo senza maschera che va bene così com’è. Uno che può restare ingenuo e che da bravo Puer Aeternus può prendere la vita come una scatola di cioccolatini che “non sai mai quello che ti capita”.

Lui può permettersi di lasciare che il suo idioletto resti inconscio, può non esplorarlo. Noi, non trovandoci in una fiction, non possiamo giocarcela nello stesso modo.

Il nostro linguaggio crea un mondo con dei confini non molto chiari e con piccole aree protette in cui si può andare avanti a non pensarci troppo. Appena si comincia a far fatica, appena il nostro comunicare diventa difficile e sentiamo che potrebbero non capire o che per noi è complicato comprendere ciò che dicono… lì siamo su una soglia. Quello è il punto in cui diventa interessante chiederci come ci stiamo esprimendo. Farlo significa porsi un po’ fuori dal solito linguaggio e cominciare ad allenare l’attenzione ad un compito che, di solito, non svolge: l’analisi di che rapporti creiamo, l’osservazione del modo in cui la  nostra comunicazione lega o scioglie, comprende o allontana. Una soglia fra il familiare e il selvatico, tra il tranquillo conosciuto e il diverso esplorabile. Un buon posto in cui allenarsi.

Buon anno!

 

La soglia: contro le spiegazioni

… è difficile spiegare
è difficile capire se non hai capito già”
F. Guccini

Non si può spiegare una barzelletta. Se lo spirito di una battuta non è colto da chi ascolta, ogni chiarimento, ogni tentativo di portarlo con il ragionamento al succo della faccenda non otterrà il risultato. Può darsi che capisca ma la risata sarà una sorta di forzatura un “ah… ecco, era questo che intendevi”, un aborto, insomma.

Il motto di spirito è “di spirito” proprio perché dovrebbe muovere una funzione laterale: qualcosa che assomiglia a ciò che ci permette di godere di una poesia o di un’opera d’arte, più intuizione che raziocinio, più contemplazione e ricettività che analisi e deduzione.

Chi racconta deve essere bravo a portare chi ascolta su una soglia: una posizione nella quale la tensione della storia possa sciogliersi in una comprensione immediata che permetta il riconoscimento di un nesso imprevisto, nel caso della battuta, o di una diversa configurazione, una gestalt che ci lasci ammirati, nel caso dell’arte.

Si scoppia a ridere o si esclama “che bello” quando si ri-conosce qualcosa, come se si ritrovasse dentro di sé un oggetto che era già lì e che, quando viene visto, genera un moto. Qualcosa si muove nella psiche e questo movimento è fonte di piacere o di consapevolezza o di stupore.

Non è stato spiegato ma messo lì! Qualcuno lo vede altri no e credo che il tentativo di spiegare ai secondi ciò che per i primi è auto-evidente sia ciò che ha portato Guccini a scrivere le strofe che cito nell’incipit. Continua a leggere

Fragile

Come un pesce gettato sulla terraferma
si dibatte tremando tutto il giorno e lottando”
Dhammapada

Sono un ex fumatore, uno che fumava davvero tanto. Ho smesso una prima volta tanti anni fa, poi ci sono ricascato e poi ho smesso di nuovo. Quando qualcuno mi chiede come si sta senza sigarette la mia risposta è: “Appena tollerabile”. E’ una citazione, tra l’altro, la traduzione di un termine con cui, nei primi testi buddisti, si definiva il mondo che abitiamo: tollerabile, nel senso di appena sostenibile, difficile da reggere e in equilibrio precario. Non proprio terribile (quasi mai) ma sicuramente non facile, pervaso, secondo il Buddha, da dukkha, parola erroneamente resa con il nostro “sofferenza” ma che invece ha un significato più sottile: “Il prefisso ‘duh’ significa male o difficoltà, mentre il suffisso ‘kha’ può riferirsi al foro al centro di una ruota in cui si inserisce l’asse. Il vocabolo sta quindi a significare che, non essendoci corrispondenza perfetta tra le due parti, durante il viaggio gli scossoni non mancheranno” ( M. Epstein).

Fuori squadro, insomma, un po’ instabile e mai del tutto allineato, con momenti rari in cui tutto fila liscio e c’è quasi un senso di perfezione, di grazia ed altri pieni di inciampi e di correzioni necessarie: aggiustamenti e riparazioni in corso ed equilibrismi sui tratti più accidentati. Continua a leggere

Il Vuoto: abitare

“… così come i cavernicoli sentivano il bisogno di fare sulle
fredde pareti delle grotte per padroneggiare l’angosciosa estraneità
minerale, familiarizzarle, rovesciarle nel proprio
spazio interiore, annetterle alla fisicità del vissuto”
I. Calvino

C’è nel gesto del cavernicolo di cui parla Calvino un profondo significato psicologico e sociologico: disegnare una scena di vita o una parte del corpo sulla parete di un posto chiuso e riparato ma non ancora vissuto è un atto fondante, una rappresentazione che rende il posto un luogo distinto rispetto al resto. Ha, inoltre, un valore apotropaico; serve cioè ad allontanare l’ignoto, il pericolo, ciò che si ritiene possa portar male o ferire.

Ci sono simboli che rassicurano e di cui spesso andiamo in cerca per esorcizzare il vuoto, per sentirci meno esposti e per sostenerci nei momenti in cui sembra che il mondo sia meno sicuro o che la nostra capacità di abitarlo venga meno. Vere e proprie coperte di Linus che brandiamo contro ciò che ci spaventa e che diventano rassicuranti anche se, razionalmente, sappiamo che difficilmente sarà un simbolo a salvarci ma che serviranno impegno, strategie, azioni, alleati, medicine…

Eppure gran parte della cosiddetta salute mentale (e anche un bel pezzo di quella che chiamiamo civiltà) dipende proprio dai simboli e dalla capacità di usare dei simboli invece di passare all’azione. Basti pensare all’arte: alla pittura, alla scrittura, alla capacità di trasferire un’idea o un insieme di idee senza doverle ogni volta ripetere ma consegnandole all’altro in un oggetto, un dipinto, uno scritto, un’opera della coscienza… qualcosa insomma che rimandi a qualcos’altro che l’interlocutore può “capire al volo”. Continua a leggere

Il Vuoto: un antipasto

… tutti i luoghi comunicano con tutti i luoghi
istantaneamente, il senso di isolamento lo si prova
soltanto durante il tragitto da un luogo all’altro,
cioè quando non si è in nessun luogo”
Se una notte d’inverno un viaggiatore.

Mi è stato chiesto di scrivere qualcosa sul vuoto, sul senso di vuoto e sul significato che questo stato d’animo ha in psicologia e in psicopatologia. E’ un argomento che mi interessa fin da quando ero ragazzo e mi imbatto quotidianamente in sintomi che con il vuoto hanno a che fare; alcuni miei pazienti soffrono di un senso di vuoto che non riescono a sopportare, altri patiscono le soluzioni che hanno adottato per “riempirlo”. Ho deciso quindi che, sì, ero contento di dire la mia sul soggetto e, come sempre mi succede quando decido di affrontare questa specifica questione, mi sono ritrovato vuoto e senza niente da dire.

Ci sono abituato! Capita spesso davanti al “foglio bianco”… che è un vuoto, appunto. Ma ancor di più quando il tema è proprio questo buco che risucchia e che svuota le idee rendendole inadatte, poca cosa di fronte all’abisso, un aeroplanino che non attraverserà lo spazio troppo grande che si apre quando si prova ad affrontare, tutto insieme, ciò che la natura aborrisce: quell’assenza che è mancanza di rifugio e di sostegno, panico e strana attrazione, soglia e inguardabile oltre.

Prendo rifugio, quindi. Inizierò con piccole cose e con il pratico principio che intima di non tentare di mangiare il bue tutto in un boccone ma un pezzo per volta, un primo pezzettino di vuoto. Continua a leggere

Ansia e desiderio

…l’opposto dell’ansia
non è la calma,
è il desiderio”
M. Epstein

Non mi sognerei mai di prodigarmi per aiutare un paziente ad affrontare uno stato d’ansia suggerendogli di stare calmo. Se lo dice già da solo: prova a fare dei respiri profondi, a distrarsi, ad isolarsi dalla folla e a ricercare situazioni rassicuranti; cerca contenitori familiari, posti in cui gli stimoli siano ordinari e le risposte conosciute; se proprio non ce la fa si rifugia in una calma artificiale propinandosi una benzodiazepina, una copertura dell’ansia che placa l’attivazione e ristabilisce uno stato di apparente tranquillità.

Non si diventa calmi, non si può decidere la calma così come non si decide l’ansia: si fanno, sì, cose che favoriscono l’uno o l’altro stato ma, entrambi, sono un risultato. Ci sono fenomeni che non ascoltano la volontà e, mentre posso decidere di guardare in una certa direzione o di mettermi a camminare, non posso decidere un orgasmo, non posso “voler dormire”.

L’ansia è molto spesso il risultato di un tentativo, più o meno conscio, di controllare qualcosa che non è presente ( l’ansia anticipatoria) o di esercitare la volontà in contesti in cui la volontà non può fare la differenza (l’idea di avere “tutto in ordine” dell’ossessivo). Continua a leggere

Cronaca 22 – Persuasione II Parte: Alberi

Non smetteremo di esplorare.
E alla fine di tutto il nostro andare ritorneremo
al punto di partenza per conoscerlo per la prima volta”
T.S.Eliot

Riferendosi alla Cronaca precedente, la I parte sulla Persuasione, in cui usavo l’immagine di Ulisse e delle Sirene, un’amica mi ha scritto chiedendomi se l’albero della barca a cui Ulisse si fa legare non sia una metafora della “Realtà”, un punto àncora a cui restare saldamente attaccati per non lasciarsi trascinare dai canti suadenti che ci porterebbero lontano, troppo distanti dal terreno su cui poggia il nostro io.
Scrive Elena: “… E’ quell’albero che accompagna e, insieme, sostiene Ulisse dalle sue stesse paure, spingendolo sempre più dentro di sé ad “aderire a sé stesso”. Solo allora potrà arrivare ad Itaca. Riflettendo mi chiedo e ti chiedo se esista una differenza psicologica tra quell’albero e Itaca e se tra loro ci fosse un nesso, come tra i soggetti e i luoghi…”.

E’ una buona domanda, mi dà l’occasione di portare avanti un discorso che mi sta a cuore e che fa da cornice a tutta una parte del mio lavoro: quella in cui, ascoltando e persuadendo, osservando e fornendo chiavi di lettura, co-costruisco insieme al paziente un pezzo di realtà, un contesto in cui esprimerci. Mi dà, inoltre, lo spunto per riflettere sulle metafore: potenti immagini che, più che descriverla, costruiscono la realtà.

Il termine stesso “albero della barca/nave” è già una metafora (come gamba-del-tavolo o piedi-della-montagna). Sarebbe un palo, quello della barca, ma dicendo albero diciamo molto di più. È stato un albero e “lo è ancora” nella misura in cui, metaforicamente, ha radici, si erge, punta verso il cielo, evoca e conduce a terra. E’ da quell’albero che si può scorgere la terra, è su di esso, l’albero maestro, che si fa conto per la tenuta della nave e la capacità di prendere il vento, sull’albero si issa la bandiera, ecc. Dicendo albero significhiamo qualcosa di diverso e di “di più” rispetto a ciò che un più prosaico “palo centrale e più alto della nave” comunicherebbe. Continua a leggere

La Rêverie II Parte: Soglie e Figure

La poesia è un’anima che inaugura una forma”
P.J. Jouve

Non mi sono messo a fare il critico letterario né, parlando di anima, decido di uscire dall’ambito del mio seminato e di invadere quello della religione. Rimango uno psicoterapeuta e sto usando, in questi post sulla Rêverie, il termine “poesia” per distinguere un linguaggio e per accantonare un po’ il prosaico: quello stile, spesso usato dalla psicologia, per restare materialista, per togliere tracce di poesia e di sentimento e per ammantarsi di scientificità; per tentare di essere chiara, ripetibile, generalizzabile e… insegnabile.

Ha un senso, nella materia che professo, questa riduzione: serve a stabilire una diagnosi, a stabilire un percorso di cura, ad intendersi fra colleghi. Perde senso, però, ogni volta che le nostre categorie diagnostiche diventano troppo strette per contenere i sintomi dei pazienti o troppo rigide per aiutarli a far fronte ad un dolore che se ne frega dell’etichetta diagnostica sotto la quale è stato catalogato. Continua a leggere