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“… e in tal modo il bambino inganna l’uomo”

“E gli alberi votarono ancora per l’ascia,
perché l’ascia era furba e li aveva convinti che era una di loro,
perché aveva il manico di legno”
Proverbio turco

Le metafore veicolano significati attraverso immagini. Posso prendere quella dell’incipit e chiedermi cosa rappresenta chi al suo interno. Facendolo dal mio punto di vista, che è quello dello psicologo clinico, non posso non riflettere sull’identificazione e sul ruolo che essa gioca nella costruzione della personalità.

Molti dei pazienti con cui mi capita di ragionare su questo proverbio si mettono spontaneamente al posto di uno degli alberi e parlano di quanto si sentano più o meno plagiati dall’ascia: quanto credono che i loro pensieri siano originali e quanto sono più o meno sicuri che, alle prossime elezioni, voteranno in scienza e coscienza decidendo con la propria testa. Quasi nessuno si identifica con l’ascia o si addentra nella similitudine che, a mio parere, è il nocciolo della questione: il manico di legno, ciò che l’ascia usa come strumento di persuasione.

In fondo il primo passo verso l’identificazione lo compie l’ascia. È lei che dice “io sono come voi”. Facendolo, propone un’affinità. 

Uno degli istinti primordiali dell’uomo è quello aggregarsi con chi gli assomiglia. Il cucciolo resta nei pressi dell’adulto e, se anche si allontana, torna appena sente il bisogno di protezione o di rifugio. Identificarci con chi si è preso cura di noi è stato il nostro modo per  crescere. Abbiamo imitato i nostri genitori per apprendere e per fare nostre certe caratteristiche che ci sono servite per essere in grado di muoverci nel mondo indipendentemente da loro. 

Insomma: c’era un’affinità che ha favorito un processo di sviluppo che ha portato a un’autonomia. Se oggi mi imbatto in un percorso simile e se chi me lo propone è come me, se lo riconosco come parte della mia famiglia o del mio gruppo, beh, allora sarà probabilmente un buon percorso. 

Peccato che, come disse Dryden: “I più sono stati sviati dall’istruzione/ credono a questo e quello perché così li hanno educati./ Il prete continua ciò che iniziò la balia,/ e in tal modo il bambino inganna l’uomo.” Questo l’ascia lo sa bene e gli alberi… molto meno. Il problema è che “l’ascia è furba” ma il vero guaio, da un punto di vista psicologico è che gli alberi non sono veramente adulti

Raccontava Hillman in una conferenza della metà degli anni’90 che la maggior parte degli americani a cui fu chiesto che età avrebbero voluto avere se avessero potuto tornare indietro nel tempo rispondeva dicendo che gli sarebbe piaciuto avere tra i 16 e i 18 anni, l’età del college, quella in cui l’imitazione è una sorta di obbligo e in cui il pensiero viene considerato essenzialmente un limite all’azione. 

L’età in cui un’ascia furba vuole che gli alberi si fermino perché è più facile controllare un adolescente che non vede l’ora di agire che un adulto che si ferma a pensare. 

Naturalmente non parlo solo di età anagrafica ma, piuttosto, di disposizione mentale. Concordo con Chiara Valerio quando  nel suo La matematica è politica, scrive: “De Finetti diceva che l’incertezza non è eliminabile, solo misurabile. Il primo errore di valutazione nelle cose siamo noi. A vent’anni, non ero disposta ad accettarlo, non avevo smantellato la sovrastruttura di certezze alla quale davo il nome di idealismo.(…) A vent’anni, non ero disposta ad accettare che l’errore è la nostra caratteristica principale. Oggi, a quaranta, mi pare confortante.”

Un adulto sa stare nell’incertezza: sa adottare quella che Keats chiamava Capacità Negativa, può tollerare la frustrazione di non sapere e riesce ad applicarsi su un problema trattenendo l’impulso di buttarsi sulla prima certezza che gli viene offerta da… un’ascia qualsiasi. 

Non è una posizione facile da tenere ma è il principale antidoto contro l’identificazione, la cura che ci permette di differenziarci, non per sentirci migliori ma per mantenerci pensanti. 

Il primo passo di un potenziale dittatore, subito dopo averci fatto credere di essere uno di noi, è quello di chiederci di assomigliargli sempre di più: vestirci in un certo modo, ripetere i suoi slogan, “fare come fa lui”. Sa che se ci convince a prendere una certa postura avrà il nostro voto. Per questo occorre pensare sui nostri gesti e capire quali ci appartengono e quali, invece, sono solo imitazioni e ripetizioni.

È una strada faticosa ma, facendola, ci si imbatte in pensieri davvero pensati, in idee originali e solitudini feconde.

Le porte della percezione

“La mia forma è ben più
del modo in cui sono stato assemblato”
James Hillman

“Le porte della percezione” è il titolo di un saggio breve di Aldous Huxley.

Scritto nel 1954 tratta delle esperienze che l’autore ha vissuto tramite l’utilizzo di mescalina ed è un resoconto di come, per Huxley, l’uso di questa sostanza psicotropa abbia rappresentato una vera e propria esperienza mistica che gli permise di entrare in contatto con stati di coscienza non usuali e, in seguito, di ragionare sulla consapevolezza, sul ruolo del cervello nell’elaborazione delle informazioni che provengono dai sensi e su quanto l’immagine del mondo sia una costruzione: un prodotto non tanto di “ciò che entra” quanto del modo in cui lo stimolo viene lavorato dal sistema che lo riceve.

Per il titolo “Porte della percezione” Huxley si ispirò ad un verso di William Blake che recita: “Se le porte della percezione venissero pulite e purificate tutto apparirebbe all’uomo come è, infinito.”

Insomma: uno scrittore che promuove l’uso di droghe che si ispira ad un poeta visionario del XXVIII secolo (per non parlare di Jim Morrison, il musicista che ispirandosi ad entrambi fondò The Doors).

Tutti e tre, con modi diversi, evocano una metafora che vede la porta, il canale, la soglia non come un semplice punto di passaggio ma come un luogo speciale: un laboratorio in cui prende forma ciò che chiamiamo realtà.

E se è vero che “La mente è quel processo che modula il flusso dell’energia e dell’informazione” (Siegel), se è vero, cioè, che in ogni istante qualcosa in noi interviene per dirigere l’attenzione, per escludere certi stimoli e lasciare che altri ci influenzino, per aggiungere o togliere emozioni, affetti e desideri a ciò che i nostri sensi colgono, non si può negare che ogni intervento sul modulatore dell’informazione sia anche un intervento sul mondo: una modificazione della porta che cambia il contenuto e il rapporto fra dentro e fuori, fra osservatore e osservato.

Lo studio di questo processo parte dalla constatazione che il postulato di un mondo esterno misurabile e oggettivo va bene per le scienze esatte ma smette di dare frutti non appena si ragiona sugli esseri umani, sul loro modo di interpretare la realtà, di fare scelte e di rispondere alle sollecitazioni dell’ambiente.

L’idea stessa di oggetto misurabile va messa tra virgolette quando ci si accorge che per un essere umano ogni oggetto percepito è un aggregato: non solo peso, misura, colore, intensità, temperatura ma anche e soprattutto bellezza, piacevolezza, utilità, possesso…

Ho visto colleghi del laboratorio di psicologia sperimentale esasperati dalle risposte di studenti/cavia che alla richiesta di dare la loro  valutazione sull’intensità dello stimolo fornito rispondevano cose tipo: “è un’intensità fastidiosa, è uno stimolo stupido, bello questo suono, ecc.”.

Risposte molto umane, considerazioni sull’aggregato invece che sull’oggetto, materiale sperimentale pieno di “scorie” perché è con ciò che uno sperimentatore chiama scorie che gli individui arricchiscono e sporcano gli oggetti rendendoli soggettivi, poco misurabili, emotivi, bizzarri a volte, poetici altre.

In psicologia clinica ci si abitua a questa mancanza di precisione: una paziente porta in seduta se stessa e si descrive come qualcosa di coerente ma inafferrabile, riconoscibile ma mutevole con parti incomprensibili per se stessa ma irrinunciabili, con qualità che diventano difetti e con sintomi a cui è… così affezionata. Le  porte della percezione continuamente modulano la nostra immagine di noi stessi, delle relazioni e di ciò in cui siamo immersi. Certe parti finiscono sullo sfondo e altre si stagliano con forza in primo piano e spesso la tonalità emotiva colora la descrizione e la descrizione influenza il sentire e viceversa.

James Hillman parlando di se stesso che invecchia si racconta e parlando del rapporto con il proprio corpo, dice: “Io mi considero un essere corporeo il cui sapere più avveduto e vitale, detto anche istinto, deriva da questo mio corpo. Un essere corporeo, tuttavia, comprende qualcosa di più che il mero essere fisiologico, perché il corpo è una forma, un campo psichico, una casa di anime che si accasano in tutte le sue stanze. In quanto campo psichico, il corpo fisico è una cittadella di metafore che possono essere lette per scoprirvi intelligenza psicologica, oltre che informazioni biologiche.” E’ un cenno alla complessità  soggettiva del corpo che tutti noi viviamo come una casa di anime perché è sempre pieno di umori, di sensazioni, di ansie e di aspettative; perché ha sete, fame, voglia di muoversi, fastidio, disagio, desiderio. E per chi guarda con attenzione ciascuna di queste impressioni è a sua volta una metafora, qualcosa che sta per qualcos’altro: una fame che non verrà sfamata solo dal cibo, un desiderio che non viene davvero soddisfatto dalla conquista dell’oggetto, un disagio che solo per un po’ è alleviato dalla distrazione o da un qualche tipo di anestetico.

L’energia e l’informazione continuamente si intrecciano. Ogni pensiero è accompagnato da una sensazione o da uno stato d’animo ed è difficile trovare un momento senza pensieri, un attimo in cui il flusso di coscienza non stia aggiungendo qualcosa a ciò che accade. Quando Hillman parla di corpo come forma e come campo psichico sta usando un’immagine molto simile a quella di porte della percezione. Sta dicendo che quando si descrive un essere senziente non si può prescindere dalla sua soggettività. Vedere solo l’organismo o, all’opposto, guardare solo la psiche e perdere di vista la fisicità sono errori che derivano da un gesto che scinde l’uomo in corpo e mente, in “dentro e fuori” perdendo di vista il processo e il continuo scambio fra le due facce della stessa medaglia.

Riflettere sul passaggio e su ciò che avviene mentre stiamo vivendo, mentre stiamo facendo esperienza momento per momento del nostro essere nel mondo,  fa parte della Cura di questa scissione.

Rob Gonsalves

Focus: la natura raccolta della mente

Il vecchio stagno
una rana si tuffa
un suono d’acqua”
Matsuo Basho

La minuscola poesia dell’incipit è un Haiku: un componimento di poche sillabe che coglie una porzione ristretta di realtà focalizzandosi su quel poco che conta per l’autore.

Diceva Hillman in un suo libro del 1967 che: “L’attenzione è la virtù psicologica cardinale, da cui dipendono forse tutte le altre, perché non possono esservi né fede, né speranza, né carità per alcuna cosa se questa non riceve prima attenzione.”

E il focus è il gesto dell’attenzione: il modo in cui ignoriamo il resto e incorniciamo un aspetto, una cosa, un oggetto che diventa specifico perché su di esso abbiamo diretto (o forse perché ha attirato) qualcuno dei nostri sensi. Mettere a fuoco, concentrarsi, stare attenti e protesi verso l’oggetto del nostro interesse modella il mondo escludendo intere parti della realtà che finiscono sullo sfondo rispetto a ciò su cui stiamo.

Spesso l’attenzione vaga e, con la sua danza, ritaglia i soliti spazi, ripete percezioni che diventano abitudine e passano inosservate. Percorriamo interi pezzi di ambiente senza notare la rana che si tuffa nello stagno che è “vecchio” proprio perché quasi non viene visto. A volte un evento è più forte del solito e siamo costretti ad osservare attentamente ma se tutto procede all’interno del conosciuto, se non ci sono sbalzi nel mondo, può capitare che il focus non cambi e che intere parti di realtà quasi si dissolvano: scontate, opache, poco visibili.

Se questa disattenzione è verso l’interno, se è la psiche a non essere guardata, succede che: “la vita interiore diventi scolorita e inconsistente (come lo è il mondo esterno negli stati depressivi)” (Hillman). Continua a leggere

Storytelling: la terra di mezzo

La vita è ciò che facciamo di essa.
I viaggi sono i viaggiatori.
Ciò che vediamo non è ciò che vediamo
ma ciò che siamo”
F.Pessoa

L’idea che la mente non sia che il prodotto dell’attività del cervello è un osso duro da masticare.

E’ formalmente vera: per tanto che si cerchi non si riuscirà a trovare-misurare-riprodurre una “mente disincarnata”, un software senza hardware, qualcosa che prescinda da un substrato fisico. Ad oggi non si è riusciti e le disquisizioni su anima e spirito rimangono questione di fede o di opinione non certo materia di indagine scientifica.

E’ inutile negare la necessità di un organo per pensare, sentire e percepire ma, quando ci si ferma al corpo, quando si perpetua la distinzione fra il mondo e chi lo abita, si compie il solito sbaglio. Si traccia un confine che serve per spiegare qualcosa ma che, facendolo, oscura l’altra faccia della medaglia. Non mi ci addentro, non sul piano filosofico, almeno (e non qui). Vi rimando, per questo aspetto, ai libri di Antonio Damasio, in particolare a L’errore di Cartesio mentre, con questo post, mi limito a girare intorno alla frase dell’incipit e a ribadire un sintomo di cui anch’io soffro e in cui mi imbatto, più volte al giorno, seguendo i miei pazienti: l’idea di una separazione concreta, la convinzione di un fuori oggettivo e di un Io soggetto che… viene al mondo.

E’ l’idea di un eroe che se ne va in giro in una terra in cui è di passaggio e che può usare a piacimento e che gli deve qualcosa perché è in qualche modo solo una valle da attraversare, solo un viaggio verso. Un mito che esige una lotta e un raggiungimento, un percorso ad ostacoli e una meta al di là, un protagonista con degli antagonisti… Questa storia, insomma, in cui siamo immersi che è un modo di raccontarsela e che porta con sé certi dolori e che, descrivendo così le cose… Continua a leggere

Titani: un commento

Se un’idea è più moderna di un’altra è segno
che non sono immortali né l’una né l’altra”
Carlo Emilio Gadda

Enrico Marani, @SamoraSOUND ha scritto un interessante post su “Titani e Titanismo” e, in un tweet successivo, si è detto alla ricerca di uno “junghiano” che lo commentasse.

Ho messo tra virgolette il termine junghiano perché, fedele alla massima di Jung che disse che non conosceva altri junghiani al di fuori di se stesso, mi astengo dal definirmi tale e perché non so se il mio commento sarà in qualche modo sintonico con ciò che Jung avrebbe detto se le domande che vengono poste nell’articolo gli fossero state rivolte.

Certo ne seguirà, in piccolo, il metodo: l’amplificazione. Girerò un po’ attorno all’idea e all’immagine del Titano e, partendo dalla descrizione di Enrico, che vede questa figura in termini più politici che psicologici, mi sposterò sul mio piano (altrettanto inclinato) che, invece, si concentra sulla soggettività, sulle sindromi e sulle resistenze e sintomi che ai “Titani” si accompagnano.

Si chiede Enrico: “Dove si nasconde ora la ribellione dei Titani contro tutte le forze superiori (divinità, destino, natura, potere dispotico ecc.) che dominano e opprimono gli slanci vitali e la libertà stessa? Nella postmoderna erosione di senso, in un capitalismo ridotto a monarchia di banche centrali e oligopolio di multinazionali, nel comunismo Cinese o nel dispotico postcomunismo Putiniano c’è ancora posto per i Titani? Dov’è la loro ribellione che frantuma muri, sradica eserciti e blocca miniere? Dov’è quel combustibile per combattere ed inveire contro il cielo e gli elementi?[…] Dove pulsa l’urlo di un’epoca nuova che incanali la furia dei Titani nell’alveo di un nuovo orizzonte?” Continua a leggere

Cronaca 21 – Persuasione I Parte: Sirene

La persuasione, specie nelle sue forme più alte,
non può essere raggiunta senza il senso della bellezza”
Sir A. Quiller-Couch

Peitho era, secondo gli antichi greci, la divinità della persuasione. I Romani la chiamavano Suada (da cui persuadere, appunto) ed era spesso rappresentata insieme ad altre divinità, al seguito di Venere/Afrodite, la dea della bellezza e dell’amore.

Sia nella seduzione che nella retorica la capacità di persuadere è una risorsa irrinunciabile: solo se si riesce ad essere persuasivi si può, infatti, compiere quel gesto che ci permette di convincere l’altro e di portarlo dalla nostra parte , di renderlo partecipe di ciò che vogliamo comunicare o, a volte, di affascinarlo e… condurlo là dove vorremmo che fosse o dove ci piacerebbe essere insieme a lui.

Purtroppo, a forza di sentir parlare di “tecniche di persuasione-persuasori occulti-controllo della mente-plagio…”, capita che, appena si accenna a questo gesto, appena si considera la possibilità di far passare un messaggio e raccontare una storia che convinca, certe difese si alzino e certe resistenze si attivino come per delimitare bene i confini ed “evitare il contagio”.

Il muro di cui cantavano i Pink Floyd nel loro celeberrimo album (The Wall) con il coro di bambini che intona il ritornello che afferma quanto un bambino non abbia “bisogno di educazione e di controllo del cervello”, è come un manifesto di questa diffidenza nei confronti di una forza che, se non controllata o se usata disonestamente, potrebbe ridurci a marionette manovrate da chi è bravo nell’arte di persuadere.

Ma accade che la semplice diffidenza non funzioni. Continua a leggere

Su “La banalità del male”: una riflessione psicologica

 

Ho visto recentemente un film di Margarethe Von Trotta intitolato Hannah Arendt. E’ un’opera incentrata sulla figura della filosofa tedesca e sulla sua presa di posizione nei confronti della condanna che lo stato di Israele comminò ad Adolf Eichmann. La Arendt non contestò la condanna in sé quanto le motivazioni che, dal suo punto di vista, non rendevano conto del vero motivo della malvagità della figura che veniva giudicata. Secondo l’autrice, che per la sua tesi si inimicò parecchi amici ebrei e mise a repentaglio la sua stessa carriera giornalistica, ritenere Eichmann colpevole senza capirne la profonda mediocrità e la sconcertante inconsapevolezza, condannarlo osservando l’ovvia manifestazione del male che egli incarnava senza riflettere sulla genesi di tale male era un errore: un fallimento del pensiero e, paradossalmente, un rinforzo dell’inconsapevolezza in cui il gerarca e con lui tantissimi rappresentanti del potere e della cultura tedesca del periodo nazista, erano immersi.

Mi è tornato in mente, questo film, vedendo le immagini tremende dell’esecuzione del giornalista americano James Foley e ascoltando, da spettatore impotente come tutti gli altri, gli ultimi episodi di cronaca nostrana: delitti che tutti definiscono inspiegabili e su cui spesso colleghi, psicologi e psichiatri, vengono interrogati da giornalisti in cerca di diagnosi che rassicurino. Continua a leggere

Persistere e protendersi

                                                                                                    “La follia è l’assenza di opera”                                                                                                          M. Blanchot

Anni fa ho lavorato in un Centro Diurno che ospitava pazienti con gravi disturbi psichici: schizofrenie, psicosi maniaco depressive e altri stati spesso non ben diagnosticati che, tuttavia, rendevano le persone che ne erano affette non in grado di portare avanti un lavoro, di avere una vita autonoma o di coltivare relazioni stabili al di fuori dell’ambiente protetto della loro famiglia d’origine o del centro in cui venivano ospitati e in cui lo staff di medici, psicologi ed educatori si prendeva cura di loro.

Ricordo che si cercava, all’interno di un programma riabilitativo, di assegnare ad ogni paziente un qualche tipo di lavoro che “lo tenesse impegnato” e che gli permettesse di sentire che stava dando un contributo e che il suo tempo e le sue energie erano tese a svolgere un qualcosa che aveva un senso: le azioni che faceva davano un prodotto che poteva essere esposto, commercializzato, venduto. Un’opera, insomma: un manufatto tangibile, frutto di applicazione e di ingegno, con una sua bellezza e una sua utilità. Carta da lettera ottenuta dal riciclo di altra carta, cornici di cartone, sacchetti di spezie, saponi artigianali, torte…

Ricordo anche che la maggior parte dei pazienti disdegnava qualsiasi tipo di impegno e vedeva le ore di lavoro come un’inutile costrizione, una fatica senza senso che andava fatta per soddisfare le richieste dell’ambiente e le regole della comunità.

Non intravedevano una meta e più di una volta nel tentativo di spiegare a qualcuno di loro perché fosse utile continuare ad impegnarsi, mi sono sentito stupido: adducevo spiegazioni monche, perché io per primo non credevo che si potesse andare da qualche parte senza protendersi. Era inutile che cercassi di convincerli quando io stesso mi rendevo conto di quanto fosse difficile per loro dare un senso al lavoro. Continua a leggere

La maggioranza è cattiva

Le domande che ci assorbono
ci sono state tramandate”
J.Hillman

Uno dei saggi dell’antica Grecia, tale Biante, uno il cui nome non è passato alla storia quanto quello di alcuni suoi colleghi, grandi saggi anche loro (Solone, Talete), un giorno in cui si era recato in visita al tempio di Delfi, fu invitato a scrivere una frase che restasse per i posteri e che fosse un po’ la sintesi della sua saggezza, qualcosa che stesse bene di fianco al famoso Conosci te stesso, di Solone.

Scrisse: Oi plestoi kakoi: La maggioranza è cattiva.

E’ una frase su cui si è discusso un bel po’ e che, dalla maggioranza, è stata tranquillamente rimossa.

Credo si possa dire che, in un certo senso, sia una frase che si rimuove da sola. Se la leggiamo come singoli individui il trucco per farla sparire sullo sfondo è di una facilità imbarazzante: “ Ah già… sì, banale… loro, la maggioranza, sono cattivi… io non sono la maggioranza, io sono io…”. Se invece la “prendiamo in esame” come membri di una qualche parte/partito/fazione, l’armamentario che abbiamo a disposizione per contestarla o per cavalcarla è variegato ed estremamente complesso: ci sono tomi di teoria politica, manifesti di partito, opinioni dei leader, fatti storici (sic), che “dimostrano” quanto la maggioranza di cui si sta parlando sia, a seconda delle intenzioni di chi parla, quella giusta, quella rivoluzionaria, quella per la prima volta nella storia “davvero buona”, oppure, al contrario, sì, quella cattiva che, presto verrà smontata da quella giusta… ecc. Continua a leggere

Un’evocazione

Al quinto piano del Museo di Arte Asiatica di Parigi, dopo enormi stanze, ai piani inferiori, colme di statue, vasellame, quadri religiosi, maschere… ci si imbatte in un’installazione che occupa due sale vuote con il soffitto occupato da decine di “aquiloni”: rappresentazioni di carpe volanti, pesci ben auguranti che, per i giapponesi, rappresentano i bambini, la loro vitalità, la loro capacità di crescere e di superare le difficoltà.

Carpe volanti

Entrando nelle stanze dalle cui finestre si scorgono, fuori, i tetti di Parigi, si ha l’impressione di uno spazio silenzioso e circoscritto. Un luogo occupato da immagini, messe lì ad arte, che comunicano qualcosa di lieve e, al contempo, denso di significati. E, come spesso accade con l’arte orientale che (per noi occidentali, almeno) sembra priva di riferimenti chiari, non si riesce ad intrappolare facilmente in un concetto ciò che l’opera vuole esprimere; diventa difficile compiere quel gesto rassicurante che ci fa dire: “ah, ecco: una crocefissione, una annunciazione, una pietà…”.

Certe immagini rimangono immagini. Non si assoggettano al lavoro costante della mente che definisce, non entrano subito a far parte del conosciuto e rimangono sospese come sogni, come immaginazioni senza parole. Continua a leggere