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Ascolto Predatorio

“Knowledge is not free. You have to pay attention”
R.Feynman

Ho lasciato in lingua originale la frase dell’incipit perché, anche se in italiano tradurremmo correttamente con “la conoscenza non è gratuita, occorre prestare attenzione”, l’inglese “pay attention” dà davvero l’idea del prezzo da pagare e della moneta di scambio che bisogna mettere sul tavolo se si vuole ottenere qualcosa nello studio di un materiale o nello scambio/comunicazione tra persone.

Paghiamo con l’attenzione: ci impegniamo per comprendere e per uscire con qualcosa di buono dal lavoro di apertura che compiamo ogni volta che ci confrontiamo con un altro, ogni volta che entriamo in relazione. 

Tranne quando ascoltiamo solo per vincere, per prevalere, per avere ragione. 

Ascolto predatorio è il nome che è stato dato a questa modalità di relazione che sembra una partita di tennis in cui l’obiettivo è quello di segnare un punto il prima possibile e scoprire il punto debole dell’altro per metterlo alle strette e sconfiggerlo velocemente.

Ho letto qualche giorno fa un breve articolo che ne parla e l’ho tradotto per voi. Sapete che uno degli argomenti su cui più insisto nei miei post è proprio quello che riguarda il buon uso dell’attenzione: l’essere consapevoli-stare attenti al modo in cui ci si protende o ci si allontana da ciò con cui si entra in relazione. Per chi fa il mio lavoro è ovvio (dovrebbe esserlo!). Credo che molto dolore possa essere alleviato da un ascolto diverso da quello predatorio che troverete definito in questo articolo e penso che alcuni dei rimedi di cui l’autore parla andrebbero adottati come dei veri antidoti a molti dei veleni che circolano nel sistema in cui siamo immersi.

Chi preferisce l’inglese lo trova qui.

Difendersi dall’Ascolto Predatorio
di Oren Jay Sofer, 18 Febbraio 2021

È stato come pestare la parte sbagliata del rastrello.

Un mio parente mi ha chiesto un’opinione ma appena gliel’ho data si è lanciato in quello che sembrava un discorso fatto apposta per dissentire su ogni cosa che avevo detto e per criticare il mio carattere. Mi sentivo come se fossi caduto in una trappola.

Vi è mai capitata un’esperienza simile? State conversando ed è come se il vostro interlocutore stesse aspettando il più piccolo pretesto per saltarvi addosso, dimostrare che avete torto, sostenere il suo punto di vista o asserire la propria convinzione.

O magari siete stati voi “quel tipo di interlocutore”. Di sicuro io lo sono stato. Se sono arrabbiato, turbato o addolorato, mi viene la tentazione di ascoltare con un focus ipercritico invece che con curiosità. Se non sto attento la mia mente passa in modalità offensiva, pronta a costruire un caso selezionando solo le cose che convalidano la mia narrazione.

Questo fenomeno è noto come “ascolto predatorio” e nella modalità discorsiva odierna, tesa e frammentata, è diventato molto comune sia a sinistra che a destra e un po’ ovunque. L’ascolto predatorio può avere molte forme: ascoltare focalizzandosi sul trovare l’errore o il pretesto per litigare; stare in attesa di qualcosa per cui sentirsi offesi; cercare deliberatamente di beccare qualcuno in fallo; ascoltare solo per raccogliere elementi per obiettare o contestare.

I costi di questo modo di relazionarsi possono essere molto alti. L’ho visto fare a pezzi famiglie e trasformare sedi di attivisti in plotoni di esecuzione circolari. E non importa se viene da sinistra o da destra. Che si tratti di teorie di cospirazione, dogmatismo o moralismo le dinamiche sono le stesse: una miscela di fissazione mentale e volatilità emotiva, un’intensa pressione interiore che spinge ad asserire i propri punti di vista in modo conflittuale e il profondo desiderio di avere ragione. I bisogni dell’“ascoltatore” mettono in ombra valori relazionali quali la comprensione, la connessione, la cura o la mutualità. Nessuno vince.

Come possiamo gestire al meglio questo comportamento quando si presenta?

Quando sento crescere in me la tendenza a comportarmi in questo modo riconosco che ci vuole molta consapevolezza e controllo per sopportare il disagio della pressione interna a parlare senza sfogarla. Ma se riesco a fermarmi abbastanza a lungo da considerare il mio scopo, le cose cominciano a cambiare. A cosa sto davvero mirando? Voglio che questa persona consideri un altro punto di vista? Che cambi il suo comportamento? Se quello che sto cercando è un qualche tipo di comprensione o trasformazione è spesso più efficace uscire dalla modalità offensiva di predazione e passare ad un atteggiamento di curiosità e connessione.

Quando l’ascolto predatorio compare negli altri, suggerisco le seguenti strategie.

La prima cosa da sapere è che demonizzare questo comportamento o sfidarlo apertamente non risolverà il problema. Non si può combattere l’ascolto predatorio argomentando. È come buttare benzina sul fuoco: brucerà solo più furiosamente.

Quindi per aggirare questo modo di relazionarsi abbiamo bisogno di uscire dal gioco di chi ha ragione e chi ha torto e mettere l’attenzione su cosa sta succedendo a livello umano.

Molti modelli culturali e psicologici ci insegnano che ogni comportamento umano può essere ricondotto a più profondi e universali desideri radicati nel bene. E se sotto a tutto quel vetriolo ci fossero valori e vulnerabilità di cui la persona non è magari del tutto consapevole? Per esempio potrebbe esserci un bisogno di essere visti o un desiderio di essere considerati e di avere voce. Potremmo scorgere un forte impegno ad essere onesti, giusti, dediti alla comunità o alla famiglia. O potrebbero esserci dolorose cicatrici di ferite emotive, personali o collettive, che reclamano empatia.

Allora, invece di discutere, invitiamo l’altra persona a condividere di più. Se ciò di cui ha veramente bisogno è esprimersi e sentirsi ascoltato, dategli l’opportunità di farlo (a meno che questo non danneggi voi o qualcun altro). Ascoltate ciò che è importante per lei. Cosa le interessa? Cosa la appassiona? Riconoscete le intenzioni positive, i valori o i bisogni che scorgete in ciò che dice.

Potete anche chiedere direttamente qual è il suo obiettivo. Io direi una cosa tipo: “Ho l’impressione che tu ci abbia pensato molto e che tu abbia delle opinioni molto chiare. Cos’è che vorresti che io sapessi o capissi? Dove vogliamo arrivare?” Oppure: “Cosa posso fare che sia d’aiuto in questo momento?” A volte una domanda diretta e onesta può smascherare la finzione che si tratti di un dibattito, rivelare cosa sta accadendo e porre fine alla discussione o aprire spazio per nuove possibilità.

Naturalmente ci vuole consapevolezza (mindfulness), forza e presenza per resistere alla tentazione di buttarsi nella mischia, di fare a pezzi il ragionamento dell’altra persona o fargli notare quanto possa essere dannoso il suo approccio. E, se il discorso diventa pericoloso, può essere che sia il caso di togliersi dalla situazione. Soprattutto se siete i destinatari di questo tipo di comportamento cercate di non prenderla sul personale, prendetevi cura di voi stessi e ricordatevi che rendere l’altro un nemico non serve a nulla e non fa bene al vostro cuore.

Oren Jay Sofer è uno stimato insegnante di meditazione, di mindfulness e di Comunicazione Non Violenta. Collabora attivamente con l’App Ten Percent Happier. È un membro del corpo insegnanti dello Spirit Rock, tiene un corso in Religioni Comparate alla Columbia University ed è l’autore di “Say What You Mean: A Mindful Approach to Nonviolent Communication” e coautore di “Teaching Mindfulness to Empower Adolescents”. Inoltre insegna online nei corsi di Mindful Communication.
Social: @Orenjaysofer

Forme dell’attenzione: il Domandare

“The soul should always stand ajar”
(Dovrebbe sempre star socchiusa, l’anima)
Emily Dickinson

Ci sono molti modi di chiedere, molte sfumature che siamo in grado di usare quando, in una relazione, ci mettiamo dalla parte di chi si aspetta una risposta. 

In inglese, ad esempio, si distingue tra Ask (chiedere gentilmente per avere una risposta) e Demand (pretendere, chiedere insistentemente e con forza per ottenere ad ogni costo).

Quando cerchiamo di insegnare a un bambino ad aggiungere “per favore” alle proprie richieste gli stiamo chiedendo di modulare la propria forza tenendo presente la resistenza e la sensibilità di colui a cui si sta rivolgendo. Tutti (o quasi tutti) ci siamo fatti, crescendo, un’idea di cosa siano la confidenza, la soggezione, il rispetto, la complicità, l’ossequio, l’insolenza… Chiediamo più o meno timidamente a seconda dell’interlocutore, del contesto e della nostra tolleranza del rifiuto.  

E poi ci sono le richieste che facciamo a noi stessi: pretese più o meno gentili nei nostri confronti, aspettative interne, minimi sindacali irrinunciabili, residui di ciò che ci è stato sempre chiesto e che “abbiamo fatto nostro”, domande a cui non abbiamo ancora risposto o che rifiutano più o meno garbatamente i nostri tentativi di esaurirle. 

Se la domanda fosse una porta, nel neonato la vedremmo spalancata. I cuccioli di essere umano sono infatti altamente bisognosi e all’inizio della loro vita non fanno che chiedere limitandosi a piccole risposte istintive come il riflesso di suzione o, un po’ più avanti, il “sorriso a specchio” o le prime piccole imitazioni di gesti o suoni.

Anni dopo, in seduta, capita di vedere un quarantenne che parla di sé come di un neonato che ha sempre fame o che, senza accorgersene, si comporta come se i suoi bisogni fossero così particolari e impellenti da non poter essere capiti o contenuti. 

O capita, all’opposto, di osservare certi adulti che fanno di tutto per non chiedere o che trovano doloroso aprirsi per protendersi verso qualcosa che desiderano. 

Possiamo leggerle come forme diverse dell’attenzione: posture che abbiamo assunto e che più o meno consapevolmente indossiamo, modi che manteniamo e che determinano il nostro protenderci o ritirarci.

Il goloso, l’avaro, il lussurioso; lo spirito famelico, il narcisista geloso, l’insaziabile invidioso… sono stati di coscienza (o incoscienza) in cui tutti possiamo soggiornare più o meno a lungo.  Sono anche modi di relazionarci e ognuno di essi potrebbe essere collocato su un continuum che valuta quanto domandiamo: quanto, riguardo al chiedere, siamo aperti o chiusi, affamati/sazi, ansiosi/evitanti.

Immaginate a un estremo il neonato “innocente” che sa solo chiedere e, all’altro, il cinico incallito che crede di avere tutte le risposte. E immaginatevi in qualche  punto sulla linea immaginaria che li collega. 

Come si sta dalle parti del bambino bisognoso? E come ci si sente quando si crede di avere la verità in tasca? Come si sentono gli altri quando hanno a che fare con le nostre personali versioni del bambino o del vecchio? Esiste una posizione ottimale in cui si possa smettere di chiedere compulsivamente e, tuttavia, non smettere di indagare?

Sono solo alcune delle possibili domande sul Domandare. Credo che le riposte non possano che essere soggettive e credo che per dirla con Gadamer: “… colui che sa domandare, sa tener fermo tale domandare cioè sa tenere la direzione verso l’aperto indicato dalla domanda. L’arte del domandare è l’arte del domandare ancora, ossia l’arte stessa del pensare.”

Si tratta di non cadere nella tentazione della risposta e di chiedersi in che modo si sta chiedendo. È uno stare aperti senza essere spalancati, senza diventare solo dei consumatori inconsapevoli (la versione “adulta” del bambino affamato).

Credo che per tenere l’anima socchiusa occorra cimentarsi nel compito di affinare la domanda: non rispondere subito o, anche dopo aver trovato una prima risposta, adottare l’atteggiamento che suggeriva Feynman: “Quando lo scienziato non sa la risposta a una domanda, è ignorante. Quando ha una vaga idea del probabile risultato, è incerto. E quando è sicuro del risultato, maledizione, gli rimane ancora qualche dubbio.” 

In molti contesti conviene concentrarsi sulla propria “postura”.

State socchiusi! Tanto la risposta… vola nel vento. Auguri, drdedalo 

Oggetti interni

“Del resto, una delle poche cose che la letteratura
può ancora fare è creare
tra chi legge e chi scrive
una intimità non superficiale”
David Foster Wallace

La frase dell’incipit è contenuta in un’intervista pubblicata, in Italia, su Il manifesto il 1° Luglio 2006. Wallace parla del tentativo di rappresentare, nella sua prosa, più il modo in cui pensiamo che ciò che pensiamo. Dice: “… non mi interessa ricalcare il modo in cui le persone parlano, i loro dialoghi realistici, preferisco cercare di riprodurre il suono dei pensieri e il modo in cui procedono. Quindi affido i discorsi tra le persone a una scrittura rapida, molto densa, che procede per associazioni di idee, perché ognuno di noi quando parla al tempo stesso proietta i propri pensieri in direzioni diverse da ciò che sta dicendo…”.

Era, insomma, impegnato nella missione impossibile di far vedere il “pensare” per quello che è: qualcosa di indescrivibile che le parole non riescono a trasmettere nella sua pienezza, qualcosa che la comunicazione lascia per la maggior parte sullo sfondo, qualcosa che gli scrittori, di solito, alleggeriscono, facendo per noi (a volte magistralmente) il lavoro di estrarre una parte di ciò che è stato pensato e di renderlo come se fosse il succo, ciò che meritava di essere espresso.

In questa pulizia, in questa azione di alleggerimento che facilita la vita al lettore molte cose vanno perse. Secondo Wallace (e secondo me che ne parlo, qui, ad una platea  molto ristretta  e con intenti solo un po’  diversi dai suoi) per approfondire l’intimità occorre svincolarsi dal bisogno di alleggerire e sforzarsi di comunicare ciò che avviene dentro.

Perché intimo è questo oggetto interno che si forma in continuazione: un nucleo di pensiero, emozione, desiderio che si abbozza e si compone, che si aggruma attorno ad un argomento magari piccolo che, tuttavia, è, in quel momento, ciò che una persona sente e pensa di qualcosa, fosse anche la minuscola opinione sul sapore di ciò che sta mangiando. Se nella mente ci fossero oggetti simili agli oggetti fisici, cose con dei confini e una forma, che si stagliano su uno sfondo e che si riconoscono rispetto al resto, il pensiero non sarebbe poi così difficile da esprimere. Ma nella mente gli oggetti sono relazioni: ogni “cosa” nella psiche è correlata con il resto, è corredata da opinioni che la riguardano, è bella/brutta/neutra, esprimibile o meno… a seconda, a seconda di chi ho davanti, di cosa penso di lui e di cosa penso che potrebbe pensare di quello che sto pensando. Riguarda sempre anche l’interlocutore e viene detta o trattenuta, ammorbidita o resa aspra, asciugata o inumidita, condivisa solo in parte, accompagnata da scuse, giustificazioni e distinguo… ecc.

Insomma, tutte cose che sapete! Ciò che ho appena descritto è una piccolissima parte sia di ciò che facciamo con i pensieri sia di ciò che succede ai pensieri. Nella mente ogni oggetto è relazione ed è ingenuo pensare che esistano contorni netti e che ciò che viene espresso sia ciò che è stato pensato. Certi filtri li mettiamo consciamente, altri scattano da soli ed è come se certe cose nemmeno volessimo permetterci di pensarle. Le emozioni sono forze che intervengono e che aggiungono colore e densità. I pensieri hanno un tono, un peso e una portata.

Se date un’occhiata a ciò che avviene, se prestare ascolto al suono dei pensieri, state rendendo l’intimità meno superficiale, con voi stessi e con l’interlocutore con cui provate ad entrare in contatto.

Da un punto di vista clinico state anche facendo un lavoro sulle resistenze. State cioè facendo caso a tutto quel dramma emotivo che accompagna l’atto di esporsi agli occhi e al giudizio di qualcun altro, (non importa se reale o immaginario).

Questo è uno dei miei “post difficili” perché tratta di un argomento a cui è più facile avvicinarsi con il romanzo, con il racconto, che con il saggio. In seduta le cose sono diverse: c’è il contatto, l’esposizione, il setting.

Giorni fa leggevo, non ricordo dove, un articolo sulla Foca Monaca (Monachus monachus) un mammifero marino in via di estinzione presente nel bacino del mediterraneo. Tranne nel periodo riproduttivo e durante l’allattamento, che si svolgono sulla terraferma, sulle poche spiagge non frequentate che rimangono nel mediterraneo, vive principalmente in mare. E in mare ci dorme, sott’acqua, salendo periodicamente in superficie per respirare. Provate ad immaginare questo modo di abitare e di “riposare”: giù in profondità con tanto di sogni, poi verso la superficie non proprio svegliandosi, poi, dopo un respiro, ancora giù. Cosa sogna? Quanto si avvicina alla veglia per risalire e come si riaddormenta? Ci sono esemplari insonni? Come si sincronizzano, sono soli quando risalgono, dormono vicini? Le loro trance assomigliano alle nostre?

Ecco! Una cosa così: ascoltare una storia, provare a immedesimarsi, superficie, profondità, sonno, veglia e “ciò che sta in mezzo”. Mettersi nei panni di un’altra creatura, confrontare i suoi oggetti con i nostri. Quello che fa un bravo lettore. Relazione. Intimità.

Remedios Varo. Creation of The Birds (1957)

Kairos

“Non è il carico che ti spezza ma il modo in cui lo porti”
Lena Horne

Quando ho letto la frase che riporto nell’incipit mi è tornato in mente un ricordo di molti anni fa: un piccolo fatto che è stato, per me, un chiaro esempio di quanto il problema con ciò che la psiche deve reggere non stia nel peso in sé ma nella posizione mentale di chi lo sta portando.
Viaggiavo in India su una corriera affollata sulla strada tra Agra e Jaipur.
Non è una tratta lunga, meno di trecento chilometri ma, allora (e forse anche adesso sui bus non turistici) era un viaggio da sei o sette ore; una sorta di gimcana fra gli ostacoli più svariati con decine di fermate per far salire persone su un mezzo che andrebbe alleggerito della metà del carico.
Ci eravamo seduti, due amici, mia moglie ed io, su un sedile da tre che trovavamo stretto ma che ci sembrò un’ottima postazione quando ci accorgemmo che strada facendo continuavano a salire persone che si sistemavano in ogni angolo occupabile. Dopo un’ora di viaggio all’ennesimo stop salì un altro gruppo di viaggiatori e, tra loro, quello che diventò il mio personale passeggero: un signore sulla settantina, arzillo e sorridente che non trovando posto e vedendo le mie comode gambe mi si sedette in braccio. Rimasi esterrefatto. Anni di mezzi pubblici a Milano insegnano a cercare di non urtarsi, a fare del proprio meglio per non invadere lo spazio degli altri e a difendere il proprio con occhiatacce, sbuffi e “muso duro” se qualcuno non rispetta le regola del sta sù de’ doss’ (il “non mi pesare-invadere-scocciare” detto in milanese).
Invece, il signore se ne stava seduto in grembo con il suo sorriso sdentato e con uno sguardo tra l’affermativo e l’interrogativo, una speciale espressione molto usata dagli indiani che, in quel frangente sembrava dire: “ I am welcome!/?”.
L’ho tenuto in braccio per un paio d’ore, non parlava una parola di inglese ma sorrideva ad ogni mio cenno di comunicazione e intratteneva brevi scambi con altri passeggeri senza troppo curarsi di me. Quando è sceso mi ha lasciato con il suo namasté, il saluto a mani giunte con piccolo inchino che significa, grossomodo, “mi inchino alle qualità divine che dimorano in te”.
E’ stato uno dei carichi più lievi che io abbia mai portato. Non perché pesasse sì e no cinquanta chili né perché la situazione me lo rendesse leggero ma perché, per una serie di ragioni già presenti dentro di me, quel peso spostò alcuni equilibri e, senza che me ne rendessi conto, determinò una direzione e alleggerì tante altre cose. Fu, per me, un punto di svolta. Continua a leggere

Arte del cambiamento

Cominciamo con un fatto: le persone
non sono preassemblate,
ma tenute insieme dalla vita”
Joseph LeDoux

LeDoux è uno dei più importanti studiosi di neurobiologia. Se parla di persone lo fa tenendo in mente, per mestiere: il cervello, le connessioni sinaptiche, i neurotrasmettitori, i geni e, insieme, ma un po’ dopo, l’ambiente. Quando dice che non siamo preassemblati intende porre l’accento sul ruolo dell’esperienza e ribadire che la relazione modella ed interviene continuamente nella modulazione di ciò che il patrimonio genetico che abbiamo ereditato fornisce fin dall’inizio. Partiamo con delle predisposizioni ma solo alcune delle tendenze che acquisiamo sono immutabili. Non possiamo fare nulla per intervenire sul colore dei nostri occhi ma possiamo dire che, per quanto riguarda tratti complessi come quelli che determinano aspetti del carattere, molto può essere appreso e la vita che conduciamo fa la differenza (tanta differenza).

Non ha senso, insomma, parlare del gene della depressione o della criminalità ed è ridicolo credere che ci sia una correlazione fra, per esempio, l’etnia di appartenenza e la propensione “genetica” a comportarsi in un certo modo.

L’informazione che arriva dal mondo conta moltissimo e non c’è organismo che sia in grado di esistere separato dal mondo e dalla relazione e senza qualche oggetto che lo influenzi.

Per noi esseri umani la relazione è, dal punto di vista soggettivo, sempre una relazione-fra-soggetto- e-oggetto: anche se ho a che fare con la persona che amo di più, io resto comunque il soggetto e lui/lei l’oggetto. Vedo me come colui che svolge l’azione e percepisce e immagino che anche per l’altro sia così e magari desidero che le nostre sensazioni coincidano e che le emozioni di entrambi si sintonizzino ma, sempre, sento dentro di me la sintonia o la dissonanza tra di noi. Continua a leggere

Sulla comunicazione: forme vitali

Dobbiamo modellare le nostre parole finché non
diventino l’involucro più elegante dei nostri pensieri”
Clarice Lispector

Il secondo dei quattro assiomi che, secondo Watzlawick, regolano la comunicazione umana recita: “In ogni comunicazione si ha una metacomunicazione che regolamenta i rapporti tra chi sta comunicando”.

Continuamente nell’interazione con l’altro teniamo d’occhio lo spazio che ci separa e ci avvicina: tanti dei rituali che regolano la danza comunicativa fra le persone si svolgono a livello quasi-inconscio e sotto la regia di una parte di mente che più che del contenuto di ciò che viene detto si occupa del modo in cui l’altro può recepirlo e del rapporto che dalla comunicazione viene modulato. Fin da piccoli impariamo a tener conto dell’interlocutore e, man mano che affrontiamo situazioni diverse, collezioniamo una gamma di modi di fare che, mentre comunichiamo, si prendono cura del rapporto.

La Metacomunicazione è quell’insieme di gesti (tono della voce, postura del corpo, distanza dall’ interlocutore, ecc.) che modificano il messaggio al di là del contenuto dello stesso. Posso dire “ti amo” ma se nel farlo imposto la voce in modo che suoni come un affermazione distratta, piena di sufficienza o compiaciuta, chi sta dall’altra parte se ne accorgerà e ne terrà, più o meno consciamente, conto. Mentre interagiamo continuiamo a dare forma alla relazione e la forma… determina l’affinità: il grado di tolleranza di distanza che sentiamo confortevole, quanto ci sentiamo toccati o urtati, accolti o rifiutati, costretti o contenuti. Continua a leggere

Sull’adattamento: cose che non sappiamo di sapere

Non è un segno di buona salute mentale
essere ben adattati ad una società malata”
Jiddu Krishnamurti

Nel suo ultimo libro “Evento” il filosofo Slavoj Žižek, parlando di rapporti fra il noto e l’ignoto, elenca quattro possibili combinazioni di “conoscenza e ignoranza”: “Ci sono conoscenze note [known knowns]: ossia, ci sono cose che sappiamo di sapere. Ci sono ignoranze note [known unknowns], vale a dire: cose che adesso sappiamo di non sapere. Ma ci sono anche ignoranze ignote [unknown unknows]: ci sono cose che non sappiamo di non sapere […] E, poi, c’è la quarta possibilità della casistica, una possibilità fondamentale: le conoscenze ignote [unknown knows], ovvero le cose che non sappiamo di sapere.”

Queste cose che non sappiamo di sapere sono l’argomento di questo post, il postulato sotteso alla frase di Krishnamurti che ho messo nell’incipit e il compito principale del mio lavoro: il terreno sul quale uno psicoterapeuta deve muoversi se vuole che il proprio intervento abbia una qualche speranza di produrre dei cambiamenti nelle persone che… li chiedono. Le conoscenze ignote sono infatti, per citare ancora Žižek, “le credenze rimosse e le presupposizioni a cui aderiamo senza neanche esserne consapevoli”.

Sono cioè una sorta di sfondo: una cornice inconsapevole che contenendo le nostre azioni e i nostri comportamenti, continua a dare significato e a determinare la nostra relazione con la realtà. Per fare un esempio, mettiamo che “senza saperlo” io accetti l’idea che quello che la società mi chiede è giusto e che è naturale (cito credenze che ho visto condividere da più di un paziente): “lottare per un posto di lavoro, fare un po’ di straordinari anche se non servono perché ‘è ben visto dall’azienda chi si ferma dopo l’orario canonico’, non esagerare nello zelo perché ‘se fai di più e non ti tieni un po’ di lavoro poi sembra che tutti non abbiamo niente da fare’, ecc…”. Continua a leggere

La Rêverie II Parte: Soglie e Figure

La poesia è un’anima che inaugura una forma”
P.J. Jouve

Non mi sono messo a fare il critico letterario né, parlando di anima, decido di uscire dall’ambito del mio seminato e di invadere quello della religione. Rimango uno psicoterapeuta e sto usando, in questi post sulla Rêverie, il termine “poesia” per distinguere un linguaggio e per accantonare un po’ il prosaico: quello stile, spesso usato dalla psicologia, per restare materialista, per togliere tracce di poesia e di sentimento e per ammantarsi di scientificità; per tentare di essere chiara, ripetibile, generalizzabile e… insegnabile.

Ha un senso, nella materia che professo, questa riduzione: serve a stabilire una diagnosi, a stabilire un percorso di cura, ad intendersi fra colleghi. Perde senso, però, ogni volta che le nostre categorie diagnostiche diventano troppo strette per contenere i sintomi dei pazienti o troppo rigide per aiutarli a far fronte ad un dolore che se ne frega dell’etichetta diagnostica sotto la quale è stato catalogato. Continua a leggere

La Rêverie I Parte

Le parole sono camaleonti
la musica ha il diritto di essere astratta
l’esperienza dell’inspiegabilità delle cose conduce al sogno
non spiegate la musica
non spiegate i sogni.
L’inafferrabile pervade tutto
bisogna sapere che ogni cosa fa rima.”
Wols

Tanti di voi ricorderanno una sequenza del film “L’attimo fuggente” in cui Robin Williams, nei panni del professore di lettere, invita i suoi studenti a strappare la prima pagina di un’antologia che ha la pretesa di insegnare un metodo efficace per interpretare un opera poetica.

Usare un metodo, applicare una tecnica, scegliere un algoritmo che, sovrapposto ad un evento, permetta di ridurlo ad un oggetto conosciuto, sono modi utili per capire e per rendere il mondo più “maneggevole”. Molto spesso funzionano, ci permettono di risparmiare tempo, di sentirci padroni del momento che stiamo vivendo e ci forniscono le risorse necessarie per liquidare la pratica e passare a quella successiva. Ma ci sono volte in cui il metodo può distruggere l’oggetto su cui viene applicato e la tecnica può, con la sua luce, diventare un abbaglio: qualcosa che svelando certi aspetti ne nasconde altri e facendo chiarezza su certi ambiti mette in ombra dettagli che, invece, non andavano ignorati.

E’ anche per questo motivo che il filosofo Gaston Bachelard, uno che di metodo se ne intendeva, mise, nell’incipit del suo libro su “La poetica della Rêverie” una frase del poeta Laforgue: “ Metodo, Metodo, cosa vuoi da me? Sai bene che ho mangiato il frutto dell’incoscienza.” Continua a leggere

Cronaca 20 – Desiderio di conoscere: leggere, scrivere, sognare

 “…non possiamo che essere tolleranti con noi stessi
e con gli altri, rinunciando a essere paladini della Verità
e gioendo dell’essere artigiani del grado di sviluppo
mentale tollerabile per i nostri pazienti e per noi stessi”
Antonino Ferro

Solo apparentemente questa Cronaca parla di psicoterapia, o meglio, ne parla per parlare della relazione, della cura e della psiche (quando si parla di queste tre cose insieme si sta sempre parlando anche di psicoterapia). Fare distinzioni è importante e aiuta a conoscere ma sono convinto che occorra combattere contro le distinzioni troppo nette, quelle che offrono una certezza che può, a volte, paralizzare il pensiero in un sapere angusto e stereotipato.

Leggere, scrivere e sognare sono, apparentemente, attività distinte… Anche ora, leggendo state un po’ scrivendo e un po’ sognando.

Dalì_La tentazione di Sant'Antonio

Dalì. La tentazione di Sant’Antonio

Dopo aver letto l’ultima Cronaca un’amica mi ha chiesto cosa intendo esattamente quando affermo che concordo solo in parte con un “collega coraggioso” che asserisce che il trattamento analitico non è una cura ma uno spazio dove il paziente lavora sulla propria volontà di ignoranza. Continua a leggere