Tag Archives: Resilienza

Fermezza: un’amplificazione

“L’impedimento all’azione fa avanzare l’azione. Ciò che si frappone diventa la strada.
L’ostacolo è la via.”
Marco Aurelio 

Nel post precedente, parlando della capacità di stare (stay) contrapposta alla reazione di immobilizzarsi (freeze), dicevo che “L’obiettivo di questo star fermi non è l’immobilità ma la fermezza”. Giorni dopo un paziente mi ha chiesto come fare per allenarsi alla fermezza, dove trovare, in questa emergenza, la forza per non “congelarsi”.
È una domanda difficile e da tempo (e per lavoro) ho imparato a non rispondere subito ma ad ascoltare bene. Lascio che la domanda attivi in me delle idee, delle immagini e delle associazioni che condivido con il paziente. In questo modo amplifichiamo insieme ciò su cui stiamo riflettendo: aggiungiamo ciò che viene in mente. Questo procedimento permette di stare sul concetto e sulle immagini che lo accompagnano per lasciare che la psiche ne venga influenzata e… nutrita.
Condivido anche con voi alcune di queste libere associazioni.

Leggevo giorni fa un tweet in cui Vito Mancuso riporta parte di un articolo intitolato “Saggezza Stoica per tempi caotici” e, siccome penso che gli Stoici la sapessero lunga sulla fermezza, parto da lì.
Lascio la traduzione di Mancuso che mi sembra un po’ libera ma bella (tanto trovate anche la versione originale nel link):

  1. preoccupati solo delle cose sotto il tuo controllo 
  2. prendi coscienza che l’unica fonte delle tue emozioni sei tu
  3. lavora 
  4. sii presente 
  5. coltiva desideri realizzabili 
  6. sii giusto 
  7. fa’ degli ostacoli il tuo sentiero 
  8. ringrazia

Io credo che il punto 7 raccolga tutti gli altri. L’ostacolo, ciò che si mette per traverso sulla nostra strada, è infatti semplicemente ciò che sta! Ci è dato qui e ora ed è necessario nel senso che i greci antichi davano a Necessità intesa come il presupposto: ciò che è così-e-basta. Se non ci si difende dalla consapevolezza dell’inevitabilità dell’ostacolo gli altri consigli diventano quasi ovvi.

Se accettiamo che l’ostacolo è la via:

  1. Dovremo preoccuparci solo di ciò che abbiamo di fronte restringendo il campo della nostra attenzione ed occupandoci innanzitutto di cosa possiamo davvero fare.
  2. Nel farlo terremo presente che l’emozione non è il risultato di ciò che accade ma la conseguenza della risposta che diamo al mondo. Fu il Buddha a intuire che il dolore è inevitabile ma che la sofferenza può essere mitigata e superata; la nostra risposta al dolore funziona come una seconda freccia. Siamo colpiti dagli avvenimenti ma è il modo in cui reagiamo ad essi che li rende più o meno terribili, più o meno soverchianti. 
  3. Se l’impedimento fa avanzare l’azione dobbiamo “solo”: riflettere, progettare e mettere in atto per proseguire ed eventualmente andare oltre. 
  4. L’essere presenti ci permette di non disperdere l’energia e di mantenere il focus. L’ostacolo è qui, non nel futuro né nel passato. Stare nel presente è il modo per non perdersi nel rimuginio e per avere a che fare il più possibile con ciò che è. 
  5. Non si può vivere senza aspettative ma si può riflettere su ciò che ci aspettiamo e sulla qualità dei nostri desideri. Sono bisogni o capricci? Obiettivi raggiungibili o deliri di onnipotenza? Ci rendono protesi o famelici? Ci attivano o ci intrappolano? Quanto ci distolgono dal lavoro o quanto, invece, possono contribuire a renderlo più sensato. 
  6. L’etimologia di virtù rimanda al concetto di Forza (Vis, plurale Vires, in latino) e a quello di coraggio/virilità (Vir, in latino). Essere virtuosi e giusti significa schierarsi e prendere parte riflettendo sulla direzione verso cui ci si sta muovendo. Significa anche tener presente che non siamo soli e che “Nel momento in cui proviamo della rabbia, abbiamo già smesso di lottare per la verità e abbiamo iniziato a lottare soltanto per noi stessi”. Questa rabbia egoica non è che il tentativo di tenere la posizione ed è solo una mimica della fermezza, una pretesa di “essere giusti”.
  7. Per essere grati occorre almeno un po’ farsi piccoli. È un gesto interno che considero uno dei migliori esercizi per riconoscere di far parte di qualcosa di più vasto. È anche uno dei più efficaci antidoti alla solitudine.

Se si accetta che l’ostacolo è la via una quantità di piccoli impedimenti scompaiono e la fermezza diventa un effetto collaterale di questa posizione psicologica. L’applicazione della saggezza propugnata dagli Stoici va intesa come una disciplina naturale: non una costrizione ma una nuova indole, un modo di prendersi e di rapportarsi. 

Il  termine fermo deriva dal latino Firmus la cui radice sanscrita, Dhar, ha il significato di tenere strettamente, sostenere, contenere (da cui anche Firmamento e  dhar-ani: la Terra). 

La fermezza ricorda una canna di bambù che si piega quel tanto che basta per scrollarsi di dosso, d’inverno, la neve; che è leggera e vuota; che sembra cedere ma riprende prontamente  la propria forma; che radica a lungo ma poi cresce velocemente. 

Credo che, visto il momento storico che stiamo attraversando, possa essere utile stare anche solo per un po’ con questa immagine. Tenere strettamente, sostenere, contenere. 

Sul trauma: a mente serena

“La poiana non ha nulla da rimproverarsi.
Gli scrupoli sono estranei alla pantera nera.
I piranha non dubitano della bontà delle proprie azioni.
Il serpente a sonagli si accetta senza riserve.
Uno sciacallo autocritico non esiste.
La locusta, l’alligatore, la trichina e il tafano
vivono come vivono e ne sono contenti.
Non c’è nulla di più animale della coscienza pulita, sul terzo pianeta del sole”
Wisława Szymborska

La parola trauma deriva dal greco Trayma: perforamento, trafittura. Proprio come la parola trapano che ha la stessa radice, si riferisce al gesto di passare oltre, forare e, quindi, ferire, violare un involucro o una barriera.

È un termine che, anche etimologicamente, rimanda all’idea della perdita di integrità e al verificarsi di un danno.

Ho spesso a che fare con le conseguenze di traumi più o meno gravi ma la prima volta che ho ascoltato un racconto che parlava di un vero e proprio trauma ero bambino.

Raccontava mio padre di un episodio che gli accadde quando a vent’anni era prigioniero in un campo di concentramento nazista. Lavorava in miniera con turni massacranti e un giorno spostando una trave di legno che sosteneva la volta di un cunicolo che stava scavando si ritrovò con una grossa scheggia di legno conficcata sotto un’unghia. Non riuscendo a toglierla e pensando che, andando in infermeria, avrebbe forse ottenuto qualche giorno di lavoro meno pesante, marcò visita e, a fine turno, fu accompagnato da quello che definiva “il dottore del campo”. Questi esaminò la scheggia e la ferita, decise che era il caso di togliere l’unghia e, dopo aver chiesto a un aiutante di tenere fermo mio padre, gliela tolse, con una tenaglia e… a mente serena.

Diceva così: a mente serena. Intendeva senza anestesia ma anche “senza preavviso, a tradimento, in modo traumatico” ma, per me che ero un bambino e che non pensavo di chiedere cosa volesse dire, il termine a-mente-serena, rappresentò per anni un paradosso. Non capivo perché, ogni volta che raccontava di quell’episodio (e glielo ho sentito narrare diverse volte) mettesse l’accento proprio sulla “mente serena” e quando gli chiedevo cosa avesse fatto dopo che gli avevano tolto l’unghia, non rispondeva, diventava laconico e si limitava a un: “l’avrei ucciso!”. Ci misi anni a capire il contesto, a realizzare che non c’era niente che potesse fare e che in quel preciso momento sperimentò quel senso di impotenza che, insieme al dolore fisico e all’impatto psicologico, caratterizza il trauma. E ce ne misi molti altri per comprendere quanto il contorno di un evento doloroso possa fare la differenza. Ciò che sta attorno all’episodio, le persone che intervengono, il clima in cui l’incidente avviene, il sostegno che la persona traumatizzata sente o non sente di avere, il tempo… il tempo per riflettere o meno su cosa sia accaduto… tutte queste cose fanno parte della registrazione dell’evento: di cosa rimane impresso nella memoria e nel corpo. Ciò che rimane è ciò con cui la persona va avanti a fare i conti dopo che l’incidente è accaduto. Nel caso di mio padre l’attributo “a mente serena”, era il cuore del trauma. Spiega a me, oggi, come mai la sua serenità anni dopo fosse turbata da eventi anche piccoli, perché sembrasse sempre “senza anestesia”: pronto a prendersela per pochissimo e ad entrare in una modalità del tipo “potrei ucciderlo” quando qualcosa era per lui improvviso, fuori luogo o inaspettato.

Il Disturbo da Stress Post-Traumatico (PTSD) è un disturbo che rappresenta la possibile risposta di un soggetto a quello che, per lui o lei, è un evento critico abnorme. Ci sono persone che “rispondono bene” ad eventi che per altri sono, invece, profondamente traumatici. Certi individui superano grandi traumi senza apparenti conseguenze e poi crollano o perdono il controllo di fronte a fatti che sembrano essere molto meno gravi di quelli che avevano “superato”. Ciò che rimane impresso nella mente fa la differenza e, in clinica, sappiamo che la maggior parte delle persone che vive sulla propria pelle fatti potenzialmente traumatici ha reazioni emotive che non durano molto a lungo. È come se la mente riuscisse a rendere transitorio l’episodio, come se ci fosse un processo digestivo che permette ai fatti di essere collocati nella memoria e magari catalogati come esperienze brutte o orribili ma… passate.

La risposta è il modo in cui, quel particolare sistema, quell’individuo che ha subito un evento avverso, riesce a gestire ciò che gli è successo. A volte intere parti dell’episodio non vengono digerite e rimangono ferme: come se si cristallizzassero nel tempo e continuassero a ripetersi.

Diceva Freud che “ripetiamo ciò che non ricordiamo”: ciò che non riusciamo ad elaborare è ripetuto senza variazioni come un solco troppo segnato su un vecchio disco, qualcosa in cui la memoria si inceppa e… non va oltre.

Nei film spesso il PTSD è rappresentato come la ripetizione quasi letterale di un grave evento di guerra: un ex militare sottoposto a fattori di stress che in qualche modo ricordano un episodio che ha vissuto al fronte, risponde con modalità violente di attacco-fuga mettendo a repentaglio la propria incolumità è quella di altri. Nella vita di tutti i giorni è difficile assistere ad una rivivificazione così drammatica e appariscente. Molto spesso solo certe parti del trauma vengono a galla entrando direttamente nelle azioni del paziente. È più probabile che la riattivazione di un trauma sia, invece, la re-stimolazione di certe sensazioni, di certi stati d’animo o di una serie di automatismi che riguardano il modo interno della persona. Capita che, quando eventi passati “non digeriti” si riattivano, la persona che ne subisce gli effetti si ritrovi ad affrontare non più la propria vita così com’è nel presente ma la somma di ciò che avviene più le scorie di ciò che è avvenuto. E, siccome ciò che non è stato digerito non è certo piacevole, la re-stimolazione di parti del trauma rende penoso il momento presente di chi la subisce.

Mentre la poiana, il serpente e gli altri animali della poesia dell’incipit possono, tranne casi di cattività, “vivere come vivono ed esserne contenti”, gli umani sanno che le loro risposte a ciò che li circonda possono essere pensate e che c’è o ci dovrebbe essere spazio per scegliere fra varie possibilità. Il trauma è, in misura più o meno seria, la perdita di questa libertà. Se non è superato si ripete e ci rende più automatici, meno liberi e più sofferenti. Andrebbe osservato a mente serena ma la domanda è: “com’è possibile essere lucidi, consapevoli e liberi dopo essere stati vittime di certe esperienze?”. Non si può certo rispondere con un singolo post. Ma si può cominciare a chiederselo e a pensarci per bene.

Maschera dipinta da un marine affetto da disturbo post-traumatico da stress durante l’arteterapia.

Kairos

“Non è il carico che ti spezza ma il modo in cui lo porti”
Lena Horne

Quando ho letto la frase che riporto nell’incipit mi è tornato in mente un ricordo di molti anni fa: un piccolo fatto che è stato, per me, un chiaro esempio di quanto il problema con ciò che la psiche deve reggere non stia nel peso in sé ma nella posizione mentale di chi lo sta portando.
Viaggiavo in India su una corriera affollata sulla strada tra Agra e Jaipur.
Non è una tratta lunga, meno di trecento chilometri ma, allora (e forse anche adesso sui bus non turistici) era un viaggio da sei o sette ore; una sorta di gimcana fra gli ostacoli più svariati con decine di fermate per far salire persone su un mezzo che andrebbe alleggerito della metà del carico.
Ci eravamo seduti, due amici, mia moglie ed io, su un sedile da tre che trovavamo stretto ma che ci sembrò un’ottima postazione quando ci accorgemmo che strada facendo continuavano a salire persone che si sistemavano in ogni angolo occupabile. Dopo un’ora di viaggio all’ennesimo stop salì un altro gruppo di viaggiatori e, tra loro, quello che diventò il mio personale passeggero: un signore sulla settantina, arzillo e sorridente che non trovando posto e vedendo le mie comode gambe mi si sedette in braccio. Rimasi esterrefatto. Anni di mezzi pubblici a Milano insegnano a cercare di non urtarsi, a fare del proprio meglio per non invadere lo spazio degli altri e a difendere il proprio con occhiatacce, sbuffi e “muso duro” se qualcuno non rispetta le regola del sta sù de’ doss’ (il “non mi pesare-invadere-scocciare” detto in milanese).
Invece, il signore se ne stava seduto in grembo con il suo sorriso sdentato e con uno sguardo tra l’affermativo e l’interrogativo, una speciale espressione molto usata dagli indiani che, in quel frangente sembrava dire: “ I am welcome!/?”.
L’ho tenuto in braccio per un paio d’ore, non parlava una parola di inglese ma sorrideva ad ogni mio cenno di comunicazione e intratteneva brevi scambi con altri passeggeri senza troppo curarsi di me. Quando è sceso mi ha lasciato con il suo namasté, il saluto a mani giunte con piccolo inchino che significa, grossomodo, “mi inchino alle qualità divine che dimorano in te”.
E’ stato uno dei carichi più lievi che io abbia mai portato. Non perché pesasse sì e no cinquanta chili né perché la situazione me lo rendesse leggero ma perché, per una serie di ragioni già presenti dentro di me, quel peso spostò alcuni equilibri e, senza che me ne rendessi conto, determinò una direzione e alleggerì tante altre cose. Fu, per me, un punto di svolta. Continua a leggere

Resilienza II parte: “suscitare invidia”

“A oltrepassare le porte del Paradiso
non sono le persone prive di passioni
o che le hanno domate, sono quelli
che hanno coltivato la capacità
di comprenderle”
W.Blake

C’è una sorta di corollario all’ultimo post che ho scritto. Un’idea che ha a che fare con l’invidia e che penso sia bene amplificare un po’ per tenere in moto il flusso di associazioni che derivano dall’analizzare certi modo di porci e di descriverci, di narrarci.

E’ l’idea che ci si possa mettere al riparo dall’invidia (dalla propria invidia) avendo così tanto successo da suscitarne negli altri, innalzandosi al di sopra e uscendo fuori dal mucchio così che, non desiderando più niente perché tutto è stato ottenuto, si potrà vivere, da lì in poi, “felici e contenti”.

Tanti di noi sono consapevoli del fatto che questa sorta di sogno americano, questa possibilità di assicurarsi un’esistenza serena in cui poter essere sazi e non più afflitti dal desiderio e dal dolore di non poterlo realizzare, sia una sorta di illusione, qualcosa da cui, con un po’ di disincanto, ognuno di noi può rendersi immune. Conosco tante persone che hanno capito che non è continuando a rincorrere i propri sogni e realizzandoli che si può raggiungere quello stato di tranquillità a cui, istintivamente, ognuno di noi tende.

Continua a leggere

Resilienza

“Tuo fratello la mattina si mette le scarpe
e tu ti metti le gambe; non bisogna
piangersi addosso.”
La madre di O.Pistorius

Quando parlo del “fiume di integrazione” e della capacità di mantenere un equilibrio fra uno stato di caos e una condizione di rigidità (cfr Sulla depressione II parte: antidoti), parlo anche della capacità di ognuno di noi di rimanere se stesso nonostante le pressioni che, inevitabilmente, l’ambiente esercita.

Queste pressioni sono spesso definite come degli stressor: delle forze che sono in grado di attivare nell’organismo e nella psiche una risposta (lo stress) che è di per sé sana perché tende a mantenere intatto lo stato interno nonostante le difficoltà in cui ci imbattiamo durante la vita.

In termini psicologici la resilienza è la capacità di mantenere una forma anche a dispetto di tutte quelle sollecitazioni che tenderebbero a deformarci o a romperci. Rimando all’articolo “Dopo il trauma la resilienza” per una definizione abbastanza completa di questa capacità che è in parte il risultato di una buona condizione fisica e mentale iniziale e in parte il prodotto di una serie di apprendimenti che ci hanno permesso di imparare a far fronte alle pressioni esterne ed interne, trasformando le nostre esperienze in conoscenza e distillandole in quella che definisco come “la capacità di resistere passando attraverso alla sofferenza senza perdere la propria integrità”.

Continua a leggere