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La “persona adulta”

“Il modo in cui gli altri trattano te è il loro karma;
il modo in cui tu reagisci è il tuo karma”
Wayne Dyer

Leggevo in questi giorni su un libro di Yalom un aneddoto che racconta dello scrittore francese André Malraux che intervistando un prete di parrocchia che aveva raccolto confessioni per cinquant’anni gli chiese che cosa avesse imparato del genere umano. Il prete rispose: “Innanzitutto, che la gente è molto più infelice di quanto si pensi […] e poi il fatto fondamentale è che non esiste quella che si definisce una persona adulta”.

È una frase che mi ha colpito ed è stata il pretesto per questo post che, come spesso mi capita, è anche un misto di cose di cui ho parlato recentemente con alcuni miei pazienti.

Dunque “l’adulto non esiste”: ci sono così tanti residui di infanzia in ognuno di noi ed è così facile regredire a livelli antecedenti alla nostra età cronologica che diventa difficile immaginare una persona completamente cresciuta, una sorta di essere “arrivato” e pienamente responsabile. Perché, in genere, questo si intende con la parola adulto: una persona che ha raggiunto il pieno sviluppo fisico e psichico, secondo la Treccani. Ed è su “psichico” che casca l’asino ché a diventare maturi fisicamente sono capaci tutti, basta aspettare e vivere in una condizione in cui il cibo sia sufficiente e il welfare discreto.

Ma nella “crescita psichica” ci sono passi che non sono così automatici, gradini ripidi che andrebbero scalati e che, invece, sono facili da evitare, consapevolezze o forse saggezze che dovrebbero essere attributi necessari dell’adulto ma che sono difficili da raggiungere e da acquisire. Pezzi di conoscenza su cui bisognerebbe insistere se non fosse che spesso c’è una grande resistenza a parlarne perché sono “passaggi difficili” punti su cui soffermarsi è… quasi doloroso. Tra questi la frase dell’incipit che letta da un bambino diventa la solita banalità sul fatto che quello che fai ti torna indietro, mentre ad un’analisi più adulta risulta essere un corollario della tautologia: non esiste un non-comportamento.  

“… non esiste qualcosa che sia un non-comportamento o, per dirla anche più semplicemente, non è possibile non avere un comportamento. Se si accetta che l’intero comportamento in una situazione di interazione ha valore di messaggio, vale a dire è comunicazione, ne consegue che comunque ci si sforzi, non si può non comunicare. L’attività o l’inattività, le parole o il silenzio hanno tutti valore di messaggio: influenzano gli altri e gli altri, a loro volta, non possono non rispondere a queste comunicazioni e in tal modo comunicano anche loro.” (P.Watzlawick). Sembra molto chiaro, no? Eppure i bambini fino a una certa età credono  che se nascondono il viso e non guardano nemmeno gli altri li vedranno. E molti adulti  direbbero che, sì, certo che lo sanno che se chiudi gli occhi gli altri comunque ti vedono, ma vanno avanti a credere che si possa non rispondere alle domande, fingere di non aver sentito, dare messaggi “neutri”.

Se non rispondi, se ti scansi o se ignori le comunicazioni gli altri se ne accorgono e reagiscono. Non sai se si offenderanno o se diventeranno  insistenti o se fingeranno a loro volta di ignorarti, ma qualcosa faranno e tu non potrai non reagire.

Tutti noi siamo dotati di una sorta di pelle psichica che risponde continuamente al mondo. Ci serve per mantenere una sorta di integrità e per stabilire dei confini. È utile per definire l’Io: il soggetto che siamo convinti di essere e che ci serve per distinguerci e per avere a che fare con gli altri. È fondamentale che, per un corretto sviluppo psichico, il bambino crei questo confine che lo differenzia dal mondo e che gli permette di rispondere nel suo modo originale e, tuttavia, comprensibile.

La differenza fra il bambino e l’adulto è che il primo crede che questo confine sia concreto e che questo guscio divida chiaramente l’Io dagli Altri. Il secondo dovrebbe sapere che il confine cambia in continuazione e noi possiamo decidere molto poco sulla sua permeabilità. Entra quasi tutto! Un adulto dovrebbe sapere che l’Io non è altro che “la struttura delle difese” (Freud) e che più le difese sono rigide più funzionano male. Più ci difendiamo più vediamo nemici; più diventiamo evitanti più ci crediamo subissati dagli impegni; più ci nascondiamo più ci sentiamo osservati, ecc.

Un adulto queste cose le dovrebbe sapere ma “non esiste quella che si definisce una persona adulta”. Dovremmo tenerlo presente e lavorarci promuovendo quella che in psicoanalisi si chiama responsabilità soggettiva: quel gesto che favorisce l’evoluzione e che riporta sempre il soggetto ad interrogarsi su ciò che lei/lui fa.

È una forma di etica che si fonda sull’idea che non si può sfuggire a niente.

In una vecchia leggenda araba si racconta di quel servo che si recò trafelato dal padrone per dirgli che aveva incontrato la Morte al mercato e che voleva un cavallo veloce perché doveva scappare e correre a Samarcanda dove sarebbe stato in salvo. Il padrone glielo diede e poco dopo, recatosi anche lui al mercato incontrò la Morte. Le chiese come mai avesse spaventato così tanto il suo povero servitore. La morte rispose che non voleva spaventarlo ma che si era solo stupita di vederlo lì perché il loro appuntamento sarebbe stato, invece, la sera stessa a Samarcanda.

Queste cose un adulto dovrebbe saperle.

Lasciar andare: un’amplificazione

“Di solito le persone si sottopongono alla conversazione psicoanalitica perché a un certo punto la storia che raccontano a se stesse si interrompe o diventa troppo dolorosa, o per entrambi i motivi.”
A.Phillips

Uno dei personaggi di Infinite Jest entra in una stanza da letto in una centro di recupero per tossicodipendenti e vede sul muro un poster con la scritta: “Tutto ciò che ho lasciato aveva i segni delle mie unghie” (Everything I’ve ever let go of has claw marks on it).

Visto il contesto viene da pensare (come hanno fatto i traduttori) che le unghie siano quelle del soggetto della dipendenza: quelle di chi sta tentando dolorosamente di smettere con un comportamento che lo lega a una o più “sostanze” e che lo vincola a un irrinunciabile oggetto del desiderio.

Ma è anche vero che è la dipendenza a non lasciare la persona e espressioni come: “era preda dell’eroina; non riusciva a liberarsi del vizio dell’alcol; era completamente succube di quella persona” sembrano avvalorare questa seconda descrizione.

Come se fosse l’oggetto ad invischiare il soggetto e come se gli artigli che non lasciano andare fossero quelli dell’abitudine che non può essere interrotta, dell’ossessione che non si lascia lasciare.

Sono modi diversi per parlare di un legame e capita in seduta di sentire sia la prima che la seconda versione. Ci sono pazienti che si lamentano della loro scarsa volontà e chiedono di trovare la forza per cambiare e per smetterla di essere dipendenti da qualcosa o da qualcuno e ce ne sono altri che mostrano i segni delle unghie e che raccontano di quanto non dipenda da loro, di quanto non possano fare diversamente.

Uno psicoterapeuta alle prime armi (tutti abbiamo dentro di noi uno psicoterapeuta alle prime armi) cerca di rispondere infondendo volontà ai primi e dando fiducia nei propri mezzi ai secondi. Cerca, insomma di “usare il buonsenso” e di aiutare la persona sofferente facendo quello che genitori, amici, preti e angeli custodi hanno già fatto: rendere le unghie più affilate.

Lo psicoterapeuta in erba non sa che, come disse Jung: “Ciò a cui resisti non solo persiste ma tende a diventare più grande” e che, come invece ebbe a dire Einstein: “Non si può risolvere un problema usando lo stesso stile di pensiero che lo ha creato”. Non sa nemmeno, così come non lo sa il paziente, che la cura autentica non consiste nel dare un pesce a qualcuno che ha fame ma nell’insegnargli a pescare (qui invece ho parafrasato Heidegger e me ne scuso ma le amplificazioni funzionano così: vengono in mente cose che stanno intorno all’argomento e che lo allargano).

Quando si tratta di smettere il determinismo e l’autostima funzionano solo come delle resistenze al cambiamento. La Volontà e la Fiducia in se stessi sono ottimi strumenti per non lasciare andare, per tener duro e persistere.

Prendete il senso di colpa: il pungolo su cui si cerca di far leva per convincersi che è il caso di cambiare. Se bastasse il senso di colpa per smettere di bere o di fumare l’alcolismo e il tabagismo non esisterebbero (non dopo i quarant’anni, perlomeno). Il senso di colpa è molto spesso alla base della dipendenza e la rinforza: “mi sento così in colpa per aver mangiato troppo e sto così male che mi tocca fare un’altra abbuffata per togliere almeno un po’ del dolore che mi attanaglia; mi considero una merda per quello che ho combinato sotto l’effetto dell’alcol e il modo più veloce che conosco per non sentirmi una merda è bere qualcosa; mi tratta male ma lo amo e ha bisogno di me, mi sentirei troppo in colpa se lo lasciassi.”

Occorrono altri strumenti per lasciar andare e non è un caso che il primo passo di ogni processo di riabilitazione parta dal riconoscimento della propria impotenza. Se accetto di non essere onnipotente, se la smetto di pensare che volere è potere e vedo che la strada che ho percorso fin qua è lastricata di desiderio di potenza, sono a buon punto. Ho capito che questa storia non sono più in grado di raccontarla o che la racconto sempre nello stesso modo: noioso e doloroso.

È dopo questa fase che si inizia ad uscire dalla spirale autoreferenziale che caratterizza ogni dipendenza ed è grazie a questo primo passo che si va verso un nuovo inizio.

Ogni rito di iniziazione simula una morte: sembra che la ragazza o il ragazzo debbano “morire” prima di accedere al mondo adulto. Pare che ad un certo punto del suo tragitto ogni eroe debba andare incontro ad una sconfitta che lo faccia riflettere sui suoi limiti e che gli insegni a… diventare un altro. La presa sulle cose deve cambiare perché il mondo possa essere descritto in modi diversi.

Non è una questione di volontà ma di attenzione (gli “eroi” sono fin troppo volitivi e afflitti da vari disturbi dell’attenzione).

Una delle cose che un paziente capisce (se il suo terapeuta non fa l’errore di lavorare  sulla volontà e sull’autostima) è che l’Io che cerca di uscire dal problema è lo stesso Io che l’ha costruito. Quell’Io non ha bisogno di stima ma di profondità.

Per raccontare la storia in un modo diverso, per riaprirla o per renderla almeno tollerabile occorre cambiare linguaggio. Come disse Cavell: “L’ignoranza di me stesso è qualcosa su cui debbo lavorare: è una cosa che va studiata come una lingua morta.”.

Sul buon uso degli ostacoli

“Io so cos’è una cosa o chi è qualcuno scoprendo ciò che si interpone tra noi”
Adam Phillips

Primo atto del Riccardo Terzo di Shakespeare: uno dei due assassini inviati da Riccardo per uccidere suo fratello, il Duca di Clarence, parlando con il complice che azzarda dubbi sull’opportunità di colpire un innocente, dice: “La coscienza è un compunto spiritello dal volto sempre rosso di pudore, che fa il ribelle nel petto dell’uomo creando all’uomo una massa di ostacoli.”

In quanto ostacolo la coscienza di un bravo sicario va repressa: superata per far sì che egli possa raggiungere l’obiettivo di uccidere la vittima designata.

In questa scena il sicario è il soggetto, la vittima è l’oggetto e la coscienza è l’ostacolo. Se applicassimo come un teorema la frase dell’incipit potremmo dire che l’assassino percepisce chi ha di fronte a seconda dell’ostacolo che si trova a dover superare. La persona diventa la mia vittima se ciò che devo superare per interagire con lui o lei è… solo la mia coscienza, solo un’istanza interna che posso zittire o ascoltare e che, a seconda di come entro in relazione con essa, determinerà la percezione di ciò che mi sta davanti. Se accetto che la coscienza sia un ostacolo non sarò più un omicida e la vittima smetterà di essere tale ma se riuscirò ad ignorarla niente si metterà fra me e il mio obiettivo e anche le mie percezioni saranno diverse: di fronte non avrò più un altro essere umano ma un oggetto, qualcosa su cui è facile smettere di riflettere.

L’ostacolo crea la differenza. Mettendosi in mezzo rallenta l’azione e quasi costringe a pensare.

In terapia si osserva una massiccia presenza di ostacoli  nella depressione e una loro patologica assenza negli stati maniacali. Ho visto persone depresse immobilizzarsi davanti a scelte banali inventando ostacoli su ostacoli. Ragionamenti tipo: “ma poi, se vado… anche se mi hanno invitato magari sperano che non vada… lo so, lo sento che darei fastidio; posso dire che sto male e stare a casa ma farò la solita figura di quella che rifiuta gli inviti… ecco se non vado starò male ma non me la sento di andare, sono disperata…”. E ho assistito a deliri maniacali in cui niente poteva fermare l’ideazione grandiosa: “sì, vabbè, non ho studiato niente ma risolverò tutto, non ho  nemmeno un piano ma inventerò al momento, non possono non capire che sono la persona perfetta…”.

Tra questi  due estremi, tra la completa assenza di spazio e la terribile costrizione del depresso grave e le sterminate praterie dei deliri del maniaco, si delinea un continuum in cui gli ostacoli diventano, per uno psicoterapeuta, una benedizione: qualcosa su cui iniziare un discorso e immaginare un progresso.

“Quando in analisi ‘spacchettiamo’ gli ostacoli –quando pensiamo agli ostacoli come a una via e non come a qualcosa che sta in mezzo alla via –li troviamo, come il vaso di Pandora, pieni di cose insolite e proibite.” (Adam Phillips)

Spacchettare è riflettere. È sia smettere di vedere l’ostacolo nel modo in cui lo vede  il maniaco, come qualcosa da rimuovere senza precauzioni, un contrattempo da distruggere con la volontà, sia evitare di soccombere di fronte ad esso come il depresso che lo trasforma in un’insormontabile costrizione.

Le cose insolite e proibite che si scoprono insieme al paziente in questo lavoro sugli ostacoli sono tutte connesse al desiderio perché non esiste ostacolo senza desiderio e perché gli ostacoli sembrano fatti apposta per attivare il desiderio.

“Cosa voglio superare? Cosa c’è di là, dall’altra parte di ciò che ora  mi impedisce di sentirmi ‘bene’? Chi mette l’ostacolo? Voglio davvero toglierlo? Davvero starò bene senza di esso o il vero gioco è  nel progetto, nell’insieme di cose che devo mettere in atto per superarlo?”

Guardare gli ostacoli ponendosi queste domande è un modo per pensare ad essi come a degli strani oggetti che ci possono rivelare cose su noi stessi e su cosa vogliamo. È anche un modo per curare la mancanza di pensiero. Sia quella tipica della sindrome maniacale che si limita all’andare oltre senza riflettere, sia quella degli stati depressivi in cui il pensiero si riduce a sterile ruminazione.

Quanto curiosi siete quando state per spacchettare un regalo?

La curiosità è, insieme al desiderio, uno degli ingredienti fondamentali per  sviluppare la capacità di vedere gli ostacoli non come qualcosa che ostruisce la via ma come la via stessa. È anche ciò che ci ricorda che “la prima relazione non è con gli oggetti ma con gli ostacoli”.  Ogni oggetto ci è stato dato impacchettato: sempre abbiamo dovuto protenderci verso qualcosa, sempre è stato necessario muoversi per attraversare uno spazio, anche da infanti, per raggiungere il seno. E per incrociare uno sguardo o per farsi sentire.

Nella relazione con l’ostacolo (prima ancora che con quella con l’oggetto) si possono escogitare modi per esaudire desideri difficili. Molto spesso la saggezza sta non nell’eliminazione di ciò che sta in mezzo ma nella capacità di vederlo come una risorsa: cosa insolita e curiosa, significativa, promettente…

Il buon uso degli ostacoli.

Un po’ di pazienza…

“… le emozioni, anche le più anomale, vanno prese
terribilmente sul serio prima di
diagnosticarle come aberranti o immature”
James Hillman

Sono convinto che gran parte dell’ansia che si incontra in terapia, quella di cui i pazienti si lamentano, quella che perturba le loro vite e di cui non vedono l’ora di liberarsi, non sia che sforzo per liberarsi dall’ansia.

Il bisogno di sollievo immediato è tale che non appena un’emozione indesiderata si presenta si mettono in moto una serie di difese che mirano ad abbassare lo stato di attivazione e a ritrovare velocemente la quiete. Spesso queste stesse difese sono così piene di impazienza, così solerti nell’intraprendere la “lotta contro lo squilibrio” che il loro stesso attivarsi non fa che alzare il livello dell’ansia.

Come ebbe a dire Hillman: “Oggi ci si aspetterebbe quasi che gli amici di Giobbe o i compagni di Gesù nel Getsemani avessero pronta la loro brava confezione di tranquillanti”. Tranquillizzare, acquietare, spegnere l’ansia e, subito dopo, trovare un nuovo stimolo perché anche troppa quiete mette agitazione. La noia diventa la spia di nuove ansie all’orizzonte: quelle connesse al vuoto e all’assenza di qualcosa che lo riempia. Lo spazio fra troppo-agitato e troppo-quieto si stringe fino a diventare una sottile intercapedine e mi è capitato di lavorare con pazienti che stanno sempre tra Scilla e Cariddi, con l’ansia per il vuoto o con l’ansia per il pieno e che non si rendono conto di quanto l’agitazione che provano è data proprio dall’incapacità di tollerare: starsene lì per un po’ con la noia o con la fretta. Pazientare, insomma, visto che sono pazienti!

Ciò che sfugge in questa lotta per lo stato mentale perfetto è che è ciò che facciamo con le emozioni a renderle più o meno persistenti, più o meno intense, tollerabili, dolorose.

Prendiamo la collera, per esempio. La collera è di per sé una difesa: un’emozione primaria al servizio del nostro amor proprio. L’abbiamo usata per cacciare e per difenderci, per proteggere noi e i nostri cari da una minaccia, per reagire velocemente contro un pericolo attaccando o per sostenere la nostra parte in una causa che abbiamo ritenuto degna di essere impugnata. Serve per combattere e se ne sta, insieme alla paura, racchiusa nei nostri riflessi. Nel mondo in cui viviamo non c’è molto spazio per la sua espressione più manifesta: raramente si viene alle mani, non si può picchiare impunemente un proprio simile e non ci si sfida più a duello; rimane lo scarico verbale, un po’ di lotta dialettica o alcune lecite sublimazioni (lo sport, il tifo, la competizione “civile”). In questa parte del mondo la collera non ha quasi mai occasione di esplodere con tutta la sua violenza e così abbiamo imparato a trattenerla.

Cosa usiamo per trattenerla? Cosa facciamo con la rabbia e cosa diventa quando invece di scaricarsi sul suo oggetto (preda, nemico, bersaglio) viene posticipata, repressa, rimossa? Dove va a finire, come si trasforma?

Dipende! Dipende dalla presa che si esercita su di essa: dentro a quale contenitore la mettiamo? Pensate alla differenza fra una rabbia desiderata o una rabbia inibita. La prima è come una risorsa: la grinta che mi serve per vincere una sfida, qualcosa che cerco e che diventa uno strumento da usare verso un fine; la seconda è qualcosa che non posso esprimere che devo “mandare giù” e che potrebbe intossicarmi. In origine sono la stessa energia, lo stesso livello di attivazione, lo stessa forza grezza che si presenta nel corpo come disponibilità all’azione e al movimento. Ma diventano diverse a seconda di come le tratto ed è probabile che la prima si trasformi in spinta agonistica e che la seconda diventi irritazione. Cosa faccio con l’emozione?

Pensate ad una collera completamente rifiutata. Come si sente un bambino furente che non viene accolto nella sua manifestazione di lotta contro ciò che lo sta facendo arrabbiare? Cosa succede se la madre invece di comprendere tutta quella rabbia rimane indifferente o reprime l’espressione dell’emozione? Cosa succederebbe se, invece di censurarla, fosse curiosa e se il bambino capisse che la mamma vuole combattere con lui? Cosa viene fatto sull’emozione? Quale gesto viene compiuto e cosa diventa la rabbia dopo il gesto?

Succede in questo modo: facciamo inconsciamente (automaticamente e implicitamente) un sacco di cose sulle emozioni e  andiamo avanti a credere che le emozioni siano grezze  e che occorra dare sollievo non appena disturbano. E va a finire che, nella smania di fare qualcosa, si fanno, con le emozioni, molte cose a casaccio senza accorgersene.

L’ansia, quella patologica, è il ronzio di tutto questo lavoro inconsapevole e spesso inutile: una reazione emotiva al presentarsi di un’emozione, un’azione inconsulta che assomiglia più a un dimenarsi che ad un prendere provvedimenti.

Le emozioni andrebbero, invece, prese terribilmente sul serio.

Vanno ascoltate con calma e non vanno razionalizzate. La razionalità sta alle emozioni come l’acqua all’olio, al più le fa galleggiare. Ciò che serve con le emozioni è un contenitore diverso, più vicino  alla loro forma vitale. Come hanno dimostrato secoli di poesia, di pittura e di musica il miglior contenitore per un’emozione è un’immagine.

Fate una prova: se state un po’ di tempo con un’emozione compare un’immagine che l’accompagna, qualcosa che la rappresenta e che in genere dà origine ad una storia. Stanno insieme come in un film o in un mito perché si evocano a vicenda. E se, come si fa in terapia, avete la pazienza di aspettare (se siete pazienti), quando esce l’immagine e quando inizia la storia, l’ansia se ne va, il sollievo arriva da solo, lo spazio si allarga.

Vi lascio con un’immagine proposta da Hillman che proprio di questo stare con le emozioni parla: “Dei centauri si diceva che fossero capaci di catturare tori selvaggi, esprimendo con ciò l’idea che un’emozione allo stato selvatico può essere addomesticata da un’emozione cosciente, ovvero ‘le emozioni possono essere curate solo attraverso le emozioni’. E fu un centauro, ci racconta la mitologia, a insegnare al genere umano i rudimenti delle arti, della musica e della medicina, come a dire che le origini della possibilità di guarire il nostro malessere emotivo si trovano nell’unione della mente con la carne, della saggezza con la passione.”

L’ego e l’arte del Monopoly

“Se si insegnasse la bellezza alla gente,
la si fornirebbe di un’arma
contro la rassegnazione, la paura e l’omertà”
Peppino Impastato

E invece della bellezza una delle cose che viene più insegnata è l’arte di giocare a Monopoly: quel misto di aggressività, avidità e furbizia che serve a prevalere, ad accumulare e a confrontarsi con gli altri su un piano che contempla solo la logica del più forte, del più bravo ad approfittare della situazione e a ricavarne di più.

Non mi riferisco al gioco da tavolo. In quello almeno si parte tutti con le stesse risorse, il lancio dei dadi garantisce una certa dose di incertezza e, quando si inizia a giocare, si sa che… “questo è un gioco”.

Ciò di cui parlo è una modalità di relazione che accentua la distanza e che appiattisce il rapporto con l’altro, favorendo solo tre posizioni: sopra, contro, sotto.

Sono gli unici tre modi di relazionarsi che l’ego conosca: “sto sopra e domino; combatto per vincere o per non soccombere; sono sotto e provo invidia/gelosia”. Nessuno spazio per la collaborazione a meno che non implichi un’alleanza in una delle tre posizioni: stiamo insieme per dominare, per combattere, per rivendicare.

Questo fa l’ego perché questo viene insegnato, principalmente. Freud parlando dell’Io lo definiva un servo al servizio di due padroni: c’è l’Es la parte istintuale che ordina fai ciò che ti piace, e il Super-Io che insiste su fai la cosa giusta, e c’è questa sorta di arlecchino che si barcamena, che fa aspettare un po’ l’uno e un po’ l’altro e che, se chiede consiglio su come cavarsela fra Scilla e Cariddi, viene istruito prima di tutto sulla legge della giungla così che, come disse Dryden: “Il prete continua ciò che iniziò la balia, e in tal modo il bambino inganna l’uomo”.

Ci vengono, insomma, insegnate queste tre posizioni fondamentali e siccome queste conosciamo, andiamo avanti in automatico in un gioco che, essendo il gioco più giocato, lascia poco spazio a tutto il resto.

E’ così che l’Io si riduce ad una sorta di ingranaggio talmente preso dal compito da dimenticare la bellezza!

La maggioranza dei sintomi con cui chi svolge il mio lavoro si trova ad avere a che fare in fondo ripetono: “sono brutto, non mi sto piacendo, non trovo più il bello nella mia vita”. La depressione, il panico, l’ansia e l’ossessione sono, in questo senso, ricerche: tentativi storti, convulsi, insistenti, maldestri e a volte disperati di ritrovare un’armonia, uno spazio  libero dal sopra-contro-sotto.

Mi capita di incontrare pazienti che si descrivono come una macchina. Parlano di quanto bene stanno svolgendo il loro lavoro, degli impegni a cui fanno fronte e dei meriti che sentono più o meno riconosciuti e, poi, descrivono un sintomo: qualcosa che inspiegabilmente non va, una sorta di: “vedi, ho fatto per bene questo e quest’altro, lancio i dadi, passo dal via, ho comprato cose che dovevano garantire l’arrivo di altre cose, ho fatto del mio meglio per non stare sotto o per innalzarmi al di sopra e… non sto bene.” Spesso con loro cito una frase di Jung che dice che gli Dei sono diventati sintomi. Serve ad invitarli a riflettere sulla macchina e a cercare dentro al sintomo, per trovare una Forma Vitale, qualcosa che spinge per manifestarsi e che NON È uno sforzo per prevalere. Infatti il sintomo è un invito al pensiero e all’amplificazione: un’esortazione a smettere di ripetere e a fermarsi per scovare nella sofferenza una risposta. Il “dio” di cui parla Jung è qualcosa che va oltre al contingente, qualcosa che riguarda la profondità dell’individuo e che rimanda ad altro offrendo una via di uscita che passa per uno stile di pensiero, un’estetica diversa.    

Sotto agli ingranaggi e, a volte, direttamente dentro al sintomo, ci si imbatte in una pulsione che non lavora per il dominio ma per la risonanza: qualcosa che punta alla condivisione, all’affinità, alla sintonia.

Il problema non è la supremazia. Siamo animali sociali e sempre sentiremo una spinta per la visibilità, per il posto migliore, per la razione più succulenta. Il problema è l’ipertrofia dell’ego che oscura la consapevolezza del gioco. Prendiamo così sul serio le istruzioni che ci dimentichiamo della libertà di smettere di giocare.

E’ a questo che serve la bellezza: distrae dal compito, impedisce la rassegnazione e rompe con l’omertà. Spesso crea dei sintomi. Le macchine non soffrono e giocano sempre lo stesso gioco!

Pablo Picasso, Paulo vestito da Arlecchino

Forme Vitali: un’amplificazione

“Saremmo veramente poveri se fossimo solamente sani”
D.Winnicott

“Forme Vitali e… ciò in cui sono immerse” è un mio post di tre anni fa. Rileggendolo mi sono accorto di quanto per me l’idea di Forma Vitale sia un concetto in continua evoluzione.

Allora scrivevo: “Le forme vitali sono modi in cui possiamo modulare la nostra vitalità, stati di attivazione del corpo-mente, stili di nuoto, di cammino, di eloquio, di sintonizzazione con l’altro… modi in cui determino il mio avvicinarmi o tenermi a debita distanza, andarmene, fingere di essere lì, stare e non stare… centinaia di possibili combinazioni del mio sentire, agire, interagire… Il senso di vitalità permea tutta la nostra esperienza: possiamo svolgere un’azione o una serie di azioni in molti “modi soggettivi” diversi: possiamo sentirci fiacchi, pieni di forza, forzati, reticenti, distaccati… mentre compiamo ‘lo stesso gesto’ ”.

Questi modi di essere riverberano nell’ambiente e lo influenzano determinando, in parte, l’habitat che, a sua volta, ci influenza.

C’è, insomma, una ricorsività: un giro di feed-back fra l’individuo e il mondo in cui non si sa chi viene prima, chi compie il primo passo nella direzione del cambiamento, chi “scaglia la prima pietra”.

Quando Daniel Stern parlava di forme vitali si riferiva ad uno specifico modo di porsi con il corpo e nel corpo, raccontava di intensità dei gesti e di percezione soggettiva: quanta forza sento che sto mettendo in questa azione, in questo scambio con il mondo. Diceva, nel suo libro, che l’uso di questo modo di osservare l’uomo poteva aiutare il terapeuta a cogliere l’aspetto energetico, la valenza soggettiva dell’azione che, altrimenti, per chi guarda dal di fuori, può andare perduta.

Con me (e immagino con molti altri terapeuti) sfondava una porta aperta: spesso io ascolto più l’intensità con cui una cosa viene detta che il contenuto del messaggio; sono interessato all’emozione e all’affetto, al tono e al volume, alla densità con cui la comunicazione permea la relazione. Poi viene il significato semantico, ciò che le parole vorrebbero dire e che i gesti, la postura, il timbro, il ritmo, l’enfasi hanno veicolato e ampiamente/sinteticamente espresso. Continua a leggere

Al di qua del giudizio

Verità: l’invenzione di un bugiardo”
Heinz von Foerster

La frase di cui sopra è di uno dei padri della Cibernetica di Secondo Livello quella che invece di studiare i sistemi osservati si occupa dei sistemi che osservano e, se volessi perdere nelle prime righe la maggior parte dei lettori, ci proverei ad avventurarmi in uno “spiegone” su quanto i suoi studi abbiano influito su alcuni degli sviluppi più recenti della psicoterapia.

Ma questo post parte da domande che due diversi sistemi che osservano (due lettori di Forme Vitali) mi hanno rivolto dopo aver riflettuto su una bacheca di qualche tempo fa: Al di là del giudizio.

Entrambi chiedono come si possa non giudicare ed entrambi mettono in dubbio che si riesca a stare in una sorta di astensione in cui le cose e le persone smettono di essere viste come belle o brutte, buone o cattive, ecc. Uno di loro che è anche un mio paziente riferisce di un sintomo che, quando prova a non giudicare, lo affligge: “smetto di interessarmi, divento apatico, un po’ morto”. E’ a partire da questa sua osservazione che mi è venuta in mente la frase di von Foerster e l’amplificazione che segue.

Raccontava Platone di quanto, per Socrate, il luogo comune secondo cui Eros fosse il bellissimo dio dell’amore, il potente demone temuto da uomini e déi per la capacità di far impazzire chiunque colpisse con i suoi dardi, non fosse che una storia: un modo di descrivere qualcosa che, in realtà, sfugge. Diceva che, più probabilmente, è vera un’altra descrizione che lo vede come un poveretto sempre in giro a cercare ciò che gli manca: Eros, figlio di Poros (l’Ingegno) e di Penia (la Miseria); uno che ha ereditato dalla madre la continua fame per ciò di cui ha bisogno e, dal padre, l’arte di ingegnarsi, di inventare di tutto pur di conquistare ciò che ardentemente desidera. Eros che quasi non vede altro che l’obiettivo del suo cercare e che è preda di un giudizio che gli fa vedere bello e giusto e desiderabile ciò che insegue e insulso, pallido e banale ciò che non è nelle sue mire. Continua a leggere

Mezzi idonei

Sembra che i grandi insegnanti e terapeuti
evitino ogni tentativo diretto di influire sulle
azioni degli altri e cerchino invece di instaurare
le situazioni e i contesti in cui certi cambiamenti
(di solito specificati in modo imperfetto) possano avvenire”
G.Bateson

Giorni fa ho trovato, su un blog che frequento, un passo tratto dalle conferenze alla Tavistock Clinic in cui Jung, descrivendo la posizione che un analista dovrebbe tenere nella terapia con un paziente, dice: “Quando ho in analisi un individuo devo stare estremamente attento a non travolgerlo con le mie convinzioni o con la mia personalità, poiché egli deve combattere la sua battaglia solitaria nella vita e deve poter avere fiducia nelle proprie armi, siano anche rozze e incomplete e nella sua meta, anche se fosse molto lontana dalla perfezione. Se gli dico ‘questo non va bene e bisognerebbe migliorare’, lo privo del suo coraggio. Deve arare il suo campo con un aratro che forse non è del tutto adeguato; il mio potrebbe essere migliore del suo, ma a che gli servirebbe? Lui non ha il mio aratro, ce l’ho io, e non può chiedermelo in prestito. Deve usare i propri utensili per quanto incompleti, e deve lavorare con le capacità che ha ereditato, per quanto carenti.”

Mi sembra una buona metafora: mette l’accento su quella che, ai tempi (era il 1935), si chiamava neutralità del terapeuta e parla di lavoro che deve essere svolto e di mezzi con cui compierlo e non a caso fa riferimento all’aratro che, a sua volta, evoca la terra/coscienza che ha bisogno di essere smossa per dare dei frutti.

E’ improbabile che uno come Jung usasse metafore a caso. Il suo metodo di interpretazione faceva largo uso dell’amplificazione: un modo di procedere in cui, partendo da un’immagine o da una suggestione fornita dall’analizzato, l’analista risale a concetti universali validi in varie culture e in diversi momenti storici. Insomma quando Jung diceva “aratro”intendeva qualcosa di molto preciso e, al contempo, si riferiva ad un concetto che rimandava ad una quantità di altri e che era profondamente significativo per la psiche di… tutti. Continua a leggere

La soglia: contro le spiegazioni

… è difficile spiegare
è difficile capire se non hai capito già”
F. Guccini

Non si può spiegare una barzelletta. Se lo spirito di una battuta non è colto da chi ascolta, ogni chiarimento, ogni tentativo di portarlo con il ragionamento al succo della faccenda non otterrà il risultato. Può darsi che capisca ma la risata sarà una sorta di forzatura un “ah… ecco, era questo che intendevi”, un aborto, insomma.

Il motto di spirito è “di spirito” proprio perché dovrebbe muovere una funzione laterale: qualcosa che assomiglia a ciò che ci permette di godere di una poesia o di un’opera d’arte, più intuizione che raziocinio, più contemplazione e ricettività che analisi e deduzione.

Chi racconta deve essere bravo a portare chi ascolta su una soglia: una posizione nella quale la tensione della storia possa sciogliersi in una comprensione immediata che permetta il riconoscimento di un nesso imprevisto, nel caso della battuta, o di una diversa configurazione, una gestalt che ci lasci ammirati, nel caso dell’arte.

Si scoppia a ridere o si esclama “che bello” quando si ri-conosce qualcosa, come se si ritrovasse dentro di sé un oggetto che era già lì e che, quando viene visto, genera un moto. Qualcosa si muove nella psiche e questo movimento è fonte di piacere o di consapevolezza o di stupore.

Non è stato spiegato ma messo lì! Qualcuno lo vede altri no e credo che il tentativo di spiegare ai secondi ciò che per i primi è auto-evidente sia ciò che ha portato Guccini a scrivere le strofe che cito nell’incipit. Continua a leggere

La forza e la grazia

Se gli uomini tenessero in conto
più la casa che l’oro,
il mondo sarebbe un posto migliore”
Thorin Scudodiquercia

L’autore della frase dell’incipit è un personaggio di fantasia, uno dei protagonisti del libro di J.R.R.Tolkien “Lo Hobbit”. L’ho scelta perché questo post parla di immaginazione e di metafore e perché ha la pretesa di commentare dei duri fatti usando una modalità che con i fatti e con la realtà ha apparentemente poco a che fare. Sono uno psicoterapeuta e tanti dei problemi che i miei pazienti portano in seduta sono, a confronto di eventi sconvolgenti come quelli accaduti in Francia in questi giorni, cosette, dolori effimeri che, nella battaglia, nel momento in cui la vita è davvero a repentaglio, spariscono, evaporano nello sfondo drammatico del pericolo e della fine incombente.

Ho, insomma, a che fare con pene che sembrano immaginate e con sintomi sfuggenti che possiamo permetterci: sofferenze che nel Triangolo di Maslow (quello che mette i bisogni primari alla base e quelli più “sottili” nel vertice alto) stanno tutte in cima… qualche abbandono, sì, alcuni disturbi gravi, sintomi come il panico o la depressione che non sono fardelli facili da portare ma niente fame né indigenza né, tanto meno, proiettili, torture, schiavitù.

Cose da occidentali! Come può esserlo una vignetta che dovrebbe causare il dolore che causa una presa per il culo: una piccola ferita all’ego… “come ti permetti, stronzo… lascia stare i miei parenti, la mia squadra di calcio, il partito, il mio credo, dio…”. O più dolorosi, forse, perché una sindrome, una nevrosi, un’ossessione, è qualcosa di complesso che intrappola calamitando l’attenzione e costringendola come possono farlo un mal di denti o un’emicrania. Continua a leggere