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Pelle psichica II Parte

“Dire che c’è un “io” non risponde a verità.
Dire che non c’è un “io” non risponde a verità.
Allora che cosa risponde a verità?”
Ajahn Chah

Dopo l’ultimo post (Pelle psichica I Parte) ho ricevuto alcuni commenti e obiezioni che mi spingono a scrivere questa seconda parte tenendo conto di ciò che è risultato oscuro o ostico a quelli che me ne hanno parlato.

Questo post sarà quindi, più che la continuazione che avevo previsto, una digressione e un’amplificazione di alcuni temi che ho toccato la volta scorsa.
E’ una variazione sul tema e un modo di procedere a cui, in quanto sostenitore della teoria Bioniana secondo la quale un terapeuta non deve porsi verso il paziente con un piano prestabilito ma con l’apertura necessaria a cogliere ciò che l’altro porta, sono abituato.
Seguendo il consiglio di J.Martin la domanda che mi pongo prima di una seduta è “Chi sono questa volta?”.
Questo mi permette di ascoltare, di sentire e di rivolgere la mia trance prima sul paziente e, poi, su di me.

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Pelle psichica I Parte

“Così come ossa, carne, intestini e vasi sanguigni sono racchiusi nella pelle che rende sopportabile la vista della persona umana, così inquietudini e passioni dell’anima sono avvolte dalla vanità che dell’anima è la pelle”
F. Nietzsche

Questo post nasce come commento e amplificazione dell’aforisma di Nietzsche che ho trascritto nell’incipit e in cui inciampo periodicamente nel corso della mia vita.
E’ una frase che considero ricca di implicazioni e che, nel lavoro psicoterapeutico, trova costanti e fertili applicazioni.

Ho incontrato “pazienti senza pelle” e “pazienti con la pelle da rinoceronte”.
I primi sembrano indifesi e vien quasi voglia di coprirli; i secondi, apparentemente impenetrabili, sono spesso così permalosi che vien da pensare che tutta quell’epidermide non ripari affatto dal dolore del contatto ma sia solo un bluff, uno stratagemma per sembrare invulnerabili che, tuttavia, si sgretola non appena qualcuno osa toccare l’intoccabile.

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Cosmesi: un’amplificazione

L’idea di questo articolo mi è venuta dopo aver assistito alla performance di Silvio Berlusconi alla trasmissione di Santoro il dieci gennaio scorso.

Berlusconi da SantoroÈ un’amplificazione nel senso Junghiano del termine: un insieme di link e di associazioni, di riferimenti mitologici, etimologici e clinici che hanno l’intento di espandere ed approfondire un argomento fornendo a chi legge o ascolta altri punti di vista su ciò di cui si sta parlando. Amplificare è non fermarsi sulla superficie e, allo stesso tempo, usare la superficie per comprendere più profondamente. Ciò che appare è parte integrante di ciò che “è”.
Le cose che arrivano ai nostri sensi ci influenzano al di là delle inferenze che possiamo fare su cosa sono realmente.

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Il Perturbante

“E’ detto unheimlich tutto ciò che potrebbe
restare segreto, nascosto, e che invece
è affiorato”
F.W.Schelling

Nella letteratura psicoanalitica la parola Perturbante è  usata per tradurre il tedesco “Das Unheimliche” che letteralmente significa il non familiare o, meglio, ciò che era familiare e che di colpo è diventato in qualche modo estraneo o sinistro.

E’ un termine che Freud ha adoperato per indicare quello specifico stato d’animo di spaesamento che ci assale quando ci troviamo di fronte ad uno spostamento di significato: qualcosa che ritenevamo assodato e sotto controllo si rivela, invece, in grado di turbare il nostro equilibrio e la nostra interpretazione della realtà .

Di fronte al Perturbante ognuno di noi reagisce attivando delle difese che tentano di riportare la situazione ad uno stato in cui possiamo rilassarci: una sorta di normalità  senza emergenze che in tanti racconti corrisponde al lieto fine e al “e vissero felici e contenti”.
Sembra che il ” felici e contenti ” sia possibile solo dopo che un Perturbante è avvenuto ed è stato ricondotto alla normalità .
Un epilogo che corrisponde, in genere, al momento in cui gli eroi della rappresentazione mettono su famiglia e in cui lo spettatore dopo aver sofferto con loro può tornare alla sua solita vita.

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Il flusso di energia e di informazione

“Mi piacerebbe avere capacità extrasensoriali?
Sinceramente mi sembra già difficile
gestire i cinque sensi”
C.Murphy

C’è un passaggio nella storia di Amore e Psiche in cui la giovane moglie di Eros è costretta da Afrodite ad affrontare l’impossibile compito di separare, in poco tempo, all’interno di un enorme mucchio confuso, un insieme di sementi che la suocera gelosa ha mischiato fra di loro.

Psiche rimane atterrita di fronte alla difficoltà dell’impresa e si dà per vinta ancora prima di iniziare. Solo l’intervento provvidenziale di un esercito di formiche le permetterà di completare l’opera in tempo e superare una delle sfide che rappresentano i passi obbligati della sua evoluzione.

E’ un lavoro che implica la capacità di riconoscere differenze e similitudini e di intervenire per mettere ordine in una confusione. Inoltre, su un piano più profondo che prende in considerazione non solo il risultato esterno (la consegna di chi vuole che il compito venga svolto) ma anche la trasformazione di chi il lavoro lo fa, questa prova rappresenta un esercizio fondamentale che la mente svolge per stare nel mondo.

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Emozionarsi: le emozioni primarie

Degli oggetti naturali si deve fare esperienza
prima che qualsiasi teorizzazione
su di essi possa essere fatta”
E.Husserl

Questo saggio ha lo scopo di dare alcuni cenni sul concetto di emozione e di definire sommariamente la categoria Emozioni Primarie. Può essere letto a sé ma, in questo contesto, rappresenta un’appendice alle cronache 14 e 15 e un ponte verso la prossima che parlerà della Teoria dell’Attaccamento. Gran parte dei concetti che contiene sono tratti dal libro “La Mente Relazionale” di D.J.Siegel ma troverete poche citazioni perché, considerato l’argomento, preferisco trattarlo con uno stile più emozionale evitando i vari “in altre parole” che mi sentirei in dovere di aggiungere alla fine di ogni definizione tecnico/cognitiva.

Ognuno di noi sa già tantissimo, a livello inconscio, sulle emozioni: siamo esperti nel sentirle, seguirle, modularle, negarle, rimuoverle, ecc.; ma, quando si tratta di parlarne, di definirle (e spesso anche di esprimerle) cadiamo in una sorta di letteralismo infarcito di luoghi comuni che mancano completamente il bersaglio. Nelle prossime righe vi imbatterete in definizioni che l’inconscio troverà assolutamente familiari e che il conscio, abituato a sorvolare sull’argomento, potrebbe, invece, ritenere strane o diverse.

La ricerca di prossimità e dello sguardo del caregiver non sono comportamenti appresi ma sono inscritti nel cervello del bambino fin dalla nascita” (Siegel). E così i bambini, noi da bambini e ogni volta che siamo/entriamo in contatto con il bambino che “dentro” sempre ci accompagna, siamo lì a cercare la prossimità di qualcuno che ci faccia compagnia.

Da piccoli ci aspettavamo che ci contenesse e oggi… oggi abbiamo imparato quasi a vergognarcene (la vergogna è un’emozione complessa che ci spinge a nascondere e a mascherare altre emozioni) ma, sotto sotto, ancora contenimento andiamo cercando: le emozioni ci spingono verso o ci allontanano da qualcosa.

Abbiamo imparato, anche, a stare lontani da ciò che ci spaventa, ci irrita, ci indispone o… a fingere di stare lì ed essere, invece, distanti e protetti per evitare impatti, dispiaceri, traumi a noi o all’altro.

In questo balletto delle emozioni le emozioni svolgono il lavoro che da sempre hanno svolto: stabiliscono significati.

Tutto il “pensare” che elabora informazioni, la cosiddetta attività cognitiva, è basata sull’emozione. L’emozione è l’energia che dirige, organizza, amplifica e modula il pensare ed è anche ciò che accompagna come sensazione interna questa attività.

Prendiamo, tanto per cambiare, un bambino che arriva nel mondo con un piccolo ma importante corredo di cose che “già sa fare” come cercare lo sguardo del caregiver (della sua mamma, direbbe lui). Se vuole sopravvivere e aumentare questo corredo di cose che sa fare deve trovare un modo per capire cosa è importante e cosa non lo è nell’ambiente che lo circonda. Deve cioè fare una distinzione che determinerà le sue azioni: quali sono quelle “sensate”; da che parte mi volto e verso cosa mi devo protendere/da cosa mi devo allontanare?

Ci sono almeno tre gradini del processo emotivo che porta a questa scoperta di senso e a questa capacità di scegliere.

All’inizio c’è quella che viene chiamata risposta orientativa iniziale: potremmo definirla una “semplice percezione”: ci sono nell’ambiente determinati stimoli in seguito ai quali il cervello attiva dei sistemi dell’organismo che entrano in uno stato di aumentata vigilanza associata al messaggio “qualcosa di importante sta succedendo qui e adesso”.

Il bambino/adulto si accorge di qualcosa che là fuori sta succedendo e comincia a fare attenzione. Molto velocemente, nel giro di microsecondi, su questa attenzione si innesta un’altra fase del processo emotivo: la valutazione elaborativa che determina se uno stimolo è “buono o cattivo” e se quindi è qualcosa a cui avvicinarsi o da cui allontanarsi.

Subito dopo la valutazione scatta in ognuno di noi una preparazione all’azione, la fase di arousal (attivazione nervosa) in cui il corpo e la mente iniziano a protendersi o a ritirarsi dall’oggetto che è stato giudicato desiderabile o repulsivo.

Nel bambino va pressapoco così: vedo un oggetto messo proprio lì davanti a me, divento attento… sembra innocuo e forse anche buono (mangiabile? annusabile? piacevole?), do anche un’occhiata al viso della mamma che… sta sorridendo e… allora sento che è buono e… lo prendo.

Tutto questo “quasi inconsciamente” e molto velocemente. Vengono provate solo certe piccole ma significative differenze interne che portano il bambino a muoversi verso l’oggetto. Queste piccole differenze, questo osservare e sentire e, sentendo, attivarsi, sono quelle che vengono definite emozioni primarie.

Sono degli Stati della Mente (uno scienziato direbbe del cervello ma, soggettivamente, per noi che sentiamo da dentro e non stiamo guardando una TAC, sono stati della mente) che non sono verbali e molto spesso sono inconsci, nel senso che non hanno bisogno dell’intervento della coscienza.

Tra il dentro e il fuori, nella relazione e nella nostra vita tra gli oggetti e i desideri, c’è questo continuo flusso valutativo/emotivo che determina la nostra affinità.

Decido che questo oggetto, un giocattolo per un bambino o qualcosa magari molto più complesso per un adulto (una persona, una situazione, un contesto), è buono e allora mi avvicino: faccio in modo che ci sia poca distanza tra me e lui/lei; è cattivo e allora sto alla larga: lo/la evito. Cerco di circondarmi dagli oggetti che mi piacciono e mi rassicurano e prendo le distanze da ciò che non mi piace o mi spaventa.

Questo determina la mia affinità, il mio odio/amore su cui poi si stagliano, come su uno sfondo, altre emozioni e altri umori.

Le emozioni primarie riflettono direttamente cambiamenti negli stati della mente; possono essere sottili o intense; fugaci o persistenti; possono continuare come sensazioni dolci e contenute, simili a onde tranquille o esplodere come un mare in tempesta. Ancora una volta non devono essere considerate come entità fisse ma come fluttuazioni nei flussi di energia e di informazione all’interno della mente.” (Siegel)

Le emozioni primarie sono, insomma, un continuo flusso. Sono l’atto incessante dell’emozionarsi: fare attenzione, decidere sentendo/pensando, muovermi “verso o via da” e assaggiare, esplorare ancora o togliermi tenendo d’occhio, ecc.

E’ su questo flusso che, poi, si innestano gli stati d’animo, le emozioni discrete: sono triste, contento, spaventato, arrabbiato… di cui parleremo.

Il coltivare l’intelligenza emotiva non può prescindere dalla consapevolezza dell’esistenza di questo continuo flusso.

Credo che osservarlo sia un ottimo esercizio per cogliere quanto dietro ad ogni nostro stato d’animo siano all’opera una serie di gesti interni che lo determinano.

Cronaca 15 – Emozioni e Memoria

Le connessioni umane portano alla creazione
di connessioni neuronali”
D.J.Siegel

Chiudevo l’ultima Cronaca ponendo la domanda: “Come mai certi aspetti dell’esperienza vengono ritenuti più di altri?”. Da un punto di vista clinico la domanda è tutt’altro che oziosa perché se certi eventi rimangono impressi nella memoria più profondamente di altri e, soprattutto, se rimangono nella memoria implicita e hanno la possibilità di irrompere nella vita di una persona non come ricordi evocati ma come sensazioni, emozioni o stati d’animo non ben definiti, queste “registrazioni” possono influenzare il suo umore e la sua capacità di giudizio.

In psicologia si definisce Engramma come “L’impatto iniziale che un’esperienza ha sul cervello”: mentre viviamo la nostra vita c’è una funzione continuamente attiva che “prende nota” di ciò che avviene e, come abbiamo visto nella Cronaca 14, certe parti di questa impressione sono direttamente colte dall’ambiente, altre da sensazioni interne, altre ancora da significati che si sovrappongono, ecc. Come ben esemplifica Siegel: “Se avete visitato Parigi con un amico e mentre eravate con lui sulla torre Eiffel avete parlato di esistenzialismo e di pittura impressionista, il vostro engramma potrà includere vari aspetti che hanno caratterizzato questa esperienza e sarà il risultato dell’associazione di diverse forme di rappresentazione: semantiche (con riferimenti a dati che possono riguardare, per esempio, la filosofia, l’arte o l’architettura della Torre), autobiografiche (il senso di voi stessi in quel momento della votra vita), somatiche (sensazioni provate dal vostro corpo durante la visita) e comportamentali (che cosa stavate facendo)”.

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Cronaca 11 – Casa: il raccogliersi

“Home is where you feel at peace
with yourself”
Proverbio inglese

Parlare di casa dopo aver parlato a lungo, nelle cronache, di labirinto, può sembrare una contraddizione in termini. Ma chi mi ha letto fin qui sa che uso la metafora del labirinto per parlare della psiche e di alcune delle sue funzioni/predilezioni: l’esplorare, l’entrare in relazione, il ricercare.

Nel racconto greco di Eros e Psiche quest’ultima, dopo essersi accasata per un po’ con il dio (perché tale è Eros) è costretta, subendo un distacco doloroso dall’amato, ad una lunga ricerca nel mondo, sulla terra e negli inferi. E’ come se Psiche sapesse che la ricerca finirà solo dopo aver affrontato un percorso che prevede una serie di prove che, se superate, le permetteranno di ricongiungersi ad Eros e di sentirsi a casa e in pace con se stessa.

Il mito parla di un incontro, di un innamoramento, di una separazione, di una ricerca e di un’unione duratura dopo una trasformazione profonda.

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Emozioni in gabbia

“Non credo in cose come
“La tristezza”, “La gioia”,
“Il rimorso”. Probabilmente
la prova più evidente che il
linguaggio è patriarcale è che
esso banalizza i sentimenti.”
J.Eugenides

Liquidare come semplice paura o come collera certe emozioni è una violazione del terzo punto dell’esercizio R.A.I.N. di cui ho parlato nell’ultimo post.

C’è una storiella che si racconta in India su come catturare una scimmia: basta mettere un grosso pezzo di formaggio di cui è golosa in un vaso; la scimmia sente l’odore, si avvicina e lo afferra, ma la sua mano, ora che è aggrappata al formaggio, è troppo grande per uscire dalla piccola imboccatura del vaso; d’altra parte la scimmia non vuole lasciar andare il boccone e così rimane intrappolata ed è facile catturarla.

Quando dimentichiamo o tralasciamo di Investigare un’emozione spesso compiamo esattamente lo stesso errore: sentiamo, ad esempio, qualcosa che assomiglia alla paura e, senza chiederci altro, cominciamo ad essere spaventati; a questo punto la mente, che ha imparato a rifuggire di fronte a tutto ciò che la spaventa, inizia a dimenarsi e, facendolo, in qualche modo si fissa sulle proprie sensazioni: invece di lasciar andare e prendere distanza da ciò che sente e impegnarsi per capire, dà inizio a un lavorio, una sorta di rimuginazione più o meno frenetica che, molto spesso, ottiene come unico risultato quello di invischiarla ulteriormente nell’emozione.

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Dove si nasconde la felicità?

“Nulla è più difficile da sopportare
di una serie di giorni felici”
Proverbio Popolare

Capita, al ritorno dalle ferie, di interrogarsi, dopo un po’ di giorni di lavoro, su dove se ne sia andata a finire quel po’ di felicità raggiunta con le vacanze. Anche quest’anno l’immancabile ricerca ISTAT conferma che almeno un italiano su dieci soffre di stress post vacanze. Questa sindrome che “nei casi più gravi dura anche mesi” annovera fra i disturbi più comuni “mal di testa, stordimento, irritabilità, dolori muscolari, inappetenza e, nel peggiore dei casi, depressione” (dal sito “Nienteansia.it”).

Questo breve saggio non ha lo scopo di consigliare una serie di rimedi atti a superare quella che gli psichiatri Anglosassoni, sempre solerti nella catalogazione delle sindromi, hanno definito “Post-vacation blues”. Intende piuttosto riflettere su dove vada a finire la felicità: non solo quella che si incontra o si spera di incontrare durante le vacanze, ma anche quella che si mette nei pacchi dono a Natale, quella dei week-end, degli scatti di carriera e dei traguardi raggiunti.

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