“Così come ossa, carne, intestini e vasi sanguigni sono racchiusi nella pelle che rende sopportabile la vista della persona umana, così inquietudini e passioni dell’anima sono avvolte dalla vanità che dell’anima è la pelle”
F. Nietzsche
Questo post nasce come commento e amplificazione dell’aforisma di Nietzsche che ho trascritto nell’incipit e in cui inciampo periodicamente nel corso della mia vita.
E’ una frase che considero ricca di implicazioni e che, nel lavoro psicoterapeutico, trova costanti e fertili applicazioni.
Ho incontrato “pazienti senza pelle” e “pazienti con la pelle da rinoceronte”.
I primi sembrano indifesi e vien quasi voglia di coprirli; i secondi, apparentemente impenetrabili, sono spesso così permalosi che vien da pensare che tutta quell’epidermide non ripari affatto dal dolore del contatto ma sia solo un bluff, uno stratagemma per sembrare invulnerabili che, tuttavia, si sgretola non appena qualcuno osa toccare l’intoccabile.
Sono casi estremi, l’inizio e la fine di un continuum che va dallo Schizofrenico, completamente privo di difese o con difese così rigide da essere sempre sull’orlo di un crollo, al Narcisista patologico che si nasconde sotto una corazza che respinge e, al contempo, chiede venerazione e impunità.
Ma tutti noi ci avvolgiamo dentro qualcosa e sono convinto che Nietzsche abbia ragione quando afferma che la vanità è la pelle dell’anima.
La Psiche, che nella nostra cultura è la “rappresentante laica” dell’anima, ha bisogno di contenimento: non esiste bambino che non cerchi il contatto con la madre ed è dimostrato che la crescita in fondo non è che il passaggio da un contenitore all’altro ( il grembo, la madre, la famiglia, la scuola, le istituzioni ecc.).
Crescendo siamo andati incontro ad una serie di successivi svezzamenti ma anche il più misantropo degli uomini cerca un qualche tipo di pelle, qualcosa che lo contenga e lo faccia sentire al sicuro, non troppo esposto.
E la vanità, l’Eitelkeit di cui parla Nietzsche, è questa sorta di contenitore psichico: idee che ci siamo fatti riguardo a noi stessi, sensazioni di identità, modi di assemblare le difese (se faccio così tengo fuori questo e quest’altro, se mi metto in questo modo attiro certe cose/persone e ne respingo altre), strategie per piacere e metodi per apparire o nascondersi…
Abbiamo collezionato feed-back che ci hanno convinto della bontà di certi modi di essere e dell’inadeguatezza di altri e questo continuo lavoro, per lo più inconscio, ha costruito e continua a costruire la persona che siamo o che crediamo di essere.
Questa sorta di involucro differenzia noi dal mondo e il mondo da noi e ci dà quella illusione di separatezza che è necessaria per la vita psichica così come la conosciamo.
“Il mondo, per essere chiaro, deve essere distinto, e distinto soprattutto dal sé: la chiarezza si basa cioè sulla separazione tra soggetto-oggetto” (Girard).
Le pareti del contenitore sono, oggi, sempre più sottili e, a partire dal periodo storico in cui Nietzsche scriveva la frase di cui sopra – il periodo della “morte di Dio”, della disillusione e dell’abbandono delle certezze nella filosofia, nella politica e nella scienza – non è più stato chiaro chi o cosa fosse un “soggetto”, e nemmeno se ci fosse un “mondo là fuori” , distinto da chi osserva.
I filosofi del secolo scorso hanno scritto fiumi di parole su questo argomento che, a partire da Schopenhauer e da Nietzsche, ha smesso di essere pura disquisizione filosofica ed è entrato a far parte delle domande che riguardano la vita di tutti i giorni, l’angoscia dell’individuo non più sostenuto dalla fede nel Mondo, nella Storia e nella Salvezza.
Questo non è il luogo per riportare nemmeno alcune di queste riflessioni e non è il mio lavoro quello di pensare filosoficamente su argomenti di tale portata.
Mi interessa invece un’amplificazione psicologica, un po’ di domande sulla pelle dell’anima e sulla vanità.
Perché vanità, innanzitutto? Perché dovrebbe essere “vanitoso” il gesto di contenersi e di nascondere al mondo parti di sé? Se togliessimo la vanità cosa ci resterebbe per differenziarci dal mondo? Ci sono persone che riescono ad essere completamente senza maschera, completamente esposte e senza vanità?
Quando un Depresso grave viene in seduta so che un po’ di vanità gli farebbe bene, so che se comincia ad illudersi nuovamente uscirà almeno un po’ dal suo letto di dolore e tornerà a “vivere”.
Quando lavoro, invece, con un paziente che ha sofferto di Mania e che, in uno dei suoi deliri di grandezza, si è sentito il padrone del mondo, so che dovrò stare attento alla vanità e aiutarlo a comprendere quanto sia vano mettersi sopra e al di là del mondo.
“Vano” ( da cui vanità deriva) significa: vuoto, posticcio, vacuo, illusorio! Ma “illudersi” (dal Latino: in-ludo, nel gioco) significa, a volte, “saper giocare”.
Né il depresso né il il maniaco sanno giocare.
Il primo non ne ha le forze: non riesce a rappresentarsi il mondo come un teatro in cui poter indossare una maschera, assumere un ruolo, “lavorare e amare”, come diceva Freud. Il secondo è così identificato con la maschera da aver perso il senso del gioco: si prende talmente sul serio da non essere in grado di “staccare un attimo” per accorgersi che si tratta di un’illusione, uno dei tanti modi di rappresentare e rappresentarsi, passibile di errore, di correzione e di ridicolo!
Per entrambi il problema non è la vanità ma la mancanza di consapevolezza: non sanno che la pelle in cui si sentono o non si sentono contenuti è un insieme di pensieri, considerazioni, emozioni, che, qui e ora, costruisce il gioco in cui l’identità è immersa.
Sapere che è così, saperlo con il cuore e con la pancia oltre che con la testa, è ciò che ci dà la libertà di illuderci e di indossare o non indossare la maschera, rivelare parti di noi o proteggerle, donare a volte, volere e pretendere altre.
Assolutamente vano (“liquido”come direbbe Bauman) e, quindi, della stessa materia di cui sono fatti i sogni ma, appunto per questo, creabile e sostenibile quel tanto che serve a… vivere.
Il fatto che sia chi soffre di depressione sia chi soffre di mania (e il bipolare che soffre alternativamente di entrambe) abbiano bisogno di farmaci per stare meglio e per uscire dalla propria sofferenza non toglie niente alla teoria: il farmaco aiuta, nel caso del depresso, a costruire emotivamente quel tanto di maschera che serve per giocare, e, nel caso del “maniacale” a sciogliere un po’ di quella rigidità che impedisce la distanza necessaria all’insight, alla capacità cioè di vedere che le grandezze, le iperboli e le esaltazioni della mania sono la maschera.
Ciò che fa la differenza è, insomma, il sapere che “la pelle da cui siamo avvolti” è un gesto che noi, continuamente, compiamo; qualcosa che facciamo attivamente.
Quando una persona comprende profondamente questo gesto e si rende conto della sua “vanità” capisce che l’anima ha bisogno di un luogo, di una casa, di un contenimento. Darglielo è inevitabile e utile. Sapere che si sta facendolo è essenziale per la salute psichica.
Come dice Galimberti: “Non per disperazione, infatti, ma per celebrare la libertà umana Nietzsche poteva dire: “Dammi ti prego una maschera, e un’altra maschera ancora“. In questo modo Nietzsche definiva la nostra identità come disponibilità, più o meno sciolta, a indossare maschere, per essere più armonici con le situazioni più diversificate della vita.”
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Salve dunque cambiAre pelle psichica vuol dire cambiare modo di pensare !!