“Degli oggetti naturali si deve fare esperienza
prima che qualsiasi teorizzazione
su di essi possa essere fatta”
E.Husserl
Questo saggio ha lo scopo di dare alcuni cenni sul concetto di emozione e di definire sommariamente la categoria Emozioni Primarie. Può essere letto a sé ma, in questo contesto, rappresenta un’appendice alle cronache 14 e 15 e un ponte verso la prossima che parlerà della Teoria dell’Attaccamento. Gran parte dei concetti che contiene sono tratti dal libro “La Mente Relazionale” di D.J.Siegel ma troverete poche citazioni perché, considerato l’argomento, preferisco trattarlo con uno stile più emozionale evitando i vari “in altre parole” che mi sentirei in dovere di aggiungere alla fine di ogni definizione tecnico/cognitiva.
Ognuno di noi sa già tantissimo, a livello inconscio, sulle emozioni: siamo esperti nel sentirle, seguirle, modularle, negarle, rimuoverle, ecc.; ma, quando si tratta di parlarne, di definirle (e spesso anche di esprimerle) cadiamo in una sorta di letteralismo infarcito di luoghi comuni che mancano completamente il bersaglio. Nelle prossime righe vi imbatterete in definizioni che l’inconscio troverà assolutamente familiari e che il conscio, abituato a sorvolare sull’argomento, potrebbe, invece, ritenere strane o diverse.
“La ricerca di prossimità e dello sguardo del caregiver non sono comportamenti appresi ma sono inscritti nel cervello del bambino fin dalla nascita” (Siegel). E così i bambini, noi da bambini e ogni volta che siamo/entriamo in contatto con il bambino che “dentro” sempre ci accompagna, siamo lì a cercare la prossimità di qualcuno che ci faccia compagnia.
Da piccoli ci aspettavamo che ci contenesse e oggi… oggi abbiamo imparato quasi a vergognarcene (la vergogna è un’emozione complessa che ci spinge a nascondere e a mascherare altre emozioni) ma, sotto sotto, ancora contenimento andiamo cercando: le emozioni ci spingono verso o ci allontanano da qualcosa.
Abbiamo imparato, anche, a stare lontani da ciò che ci spaventa, ci irrita, ci indispone o… a fingere di stare lì ed essere, invece, distanti e protetti per evitare impatti, dispiaceri, traumi a noi o all’altro.
In questo balletto delle emozioni le emozioni svolgono il lavoro che da sempre hanno svolto: stabiliscono significati.
Tutto il “pensare” che elabora informazioni, la cosiddetta attività cognitiva, è basata sull’emozione. L’emozione è l’energia che dirige, organizza, amplifica e modula il pensare ed è anche ciò che accompagna come sensazione interna questa attività.
Prendiamo, tanto per cambiare, un bambino che arriva nel mondo con un piccolo ma importante corredo di cose che “già sa fare” come cercare lo sguardo del caregiver (della sua mamma, direbbe lui). Se vuole sopravvivere e aumentare questo corredo di cose che sa fare deve trovare un modo per capire cosa è importante e cosa non lo è nell’ambiente che lo circonda. Deve cioè fare una distinzione che determinerà le sue azioni: quali sono quelle “sensate”; da che parte mi volto e verso cosa mi devo protendere/da cosa mi devo allontanare?
Ci sono almeno tre gradini del processo emotivo che porta a questa scoperta di senso e a questa capacità di scegliere.
All’inizio c’è quella che viene chiamata risposta orientativa iniziale: potremmo definirla una “semplice percezione”: ci sono nell’ambiente determinati stimoli in seguito ai quali il cervello attiva dei sistemi dell’organismo che entrano in uno stato di aumentata vigilanza associata al messaggio “qualcosa di importante sta succedendo qui e adesso”.
Il bambino/adulto si accorge di qualcosa che là fuori sta succedendo e comincia a fare attenzione. Molto velocemente, nel giro di microsecondi, su questa attenzione si innesta un’altra fase del processo emotivo: la valutazione elaborativa che determina se uno stimolo è “buono o cattivo” e se quindi è qualcosa a cui avvicinarsi o da cui allontanarsi.
Subito dopo la valutazione scatta in ognuno di noi una preparazione all’azione, la fase di arousal (attivazione nervosa) in cui il corpo e la mente iniziano a protendersi o a ritirarsi dall’oggetto che è stato giudicato desiderabile o repulsivo.
Nel bambino va pressapoco così: vedo un oggetto messo proprio lì davanti a me, divento attento… sembra innocuo e forse anche buono (mangiabile? annusabile? piacevole?), do anche un’occhiata al viso della mamma che… sta sorridendo e… allora sento che è buono e… lo prendo.
Tutto questo “quasi inconsciamente” e molto velocemente. Vengono provate solo certe piccole ma significative differenze interne che portano il bambino a muoversi verso l’oggetto. Queste piccole differenze, questo osservare e sentire e, sentendo, attivarsi, sono quelle che vengono definite emozioni primarie.
Sono degli Stati della Mente (uno scienziato direbbe del cervello ma, soggettivamente, per noi che sentiamo da dentro e non stiamo guardando una TAC, sono stati della mente) che non sono verbali e molto spesso sono inconsci, nel senso che non hanno bisogno dell’intervento della coscienza.
Tra il dentro e il fuori, nella relazione e nella nostra vita tra gli oggetti e i desideri, c’è questo continuo flusso valutativo/emotivo che determina la nostra affinità.
Decido che questo oggetto, un giocattolo per un bambino o qualcosa magari molto più complesso per un adulto (una persona, una situazione, un contesto), è buono e allora mi avvicino: faccio in modo che ci sia poca distanza tra me e lui/lei; è cattivo e allora sto alla larga: lo/la evito. Cerco di circondarmi dagli oggetti che mi piacciono e mi rassicurano e prendo le distanze da ciò che non mi piace o mi spaventa.
Questo determina la mia affinità, il mio odio/amore su cui poi si stagliano, come su uno sfondo, altre emozioni e altri umori.
“Le emozioni primarie riflettono direttamente cambiamenti negli stati della mente; possono essere sottili o intense; fugaci o persistenti; possono continuare come sensazioni dolci e contenute, simili a onde tranquille o esplodere come un mare in tempesta. Ancora una volta non devono essere considerate come entità fisse ma come fluttuazioni nei flussi di energia e di informazione all’interno della mente.” (Siegel)
Le emozioni primarie sono, insomma, un continuo flusso. Sono l’atto incessante dell’emozionarsi: fare attenzione, decidere sentendo/pensando, muovermi “verso o via da” e assaggiare, esplorare ancora o togliermi tenendo d’occhio, ecc.
E’ su questo flusso che, poi, si innestano gli stati d’animo, le emozioni discrete: sono triste, contento, spaventato, arrabbiato… di cui parleremo.
Il coltivare l’intelligenza emotiva non può prescindere dalla consapevolezza dell’esistenza di questo continuo flusso.
Credo che osservarlo sia un ottimo esercizio per cogliere quanto dietro ad ogni nostro stato d’animo siano all’opera una serie di gesti interni che lo determinano.