Tag Archives: Mindfulness

Sulla dissociazione: frammenti

Non è che tu non sia reale. Pensiamo
tutti di essere reali e non c’è niente
di sbagliato. Sei reale. Ma quando
pensi di essere realmente reale, esageri”
Un Lama Buddhista citato da R.Thurman

Dicevo in uno degli ultimi post che “L’interfaccia che determina il modo in cui noi siamo nel mondo, il nostro esserci, è così come ci viene data ed è il punto di partenza da cui il bambino inizia, già immerso in un mondo che non è geometrico e in cui più che diventare geometri dobbiamo imparare ad essere dei bravi giocolieri.” Mi riferivo alla fragilità e alla fallacia di aspettarsi un equilibrio stabile e all’inutilità di irrigidirsi nell’aspettativa di una realtà misurabile e controllabile in ogni momento e, mentre scrivevo la frase di cui sopra, pensavo già al “geometra”: quella parte di noi che, incurante di ogni consiglio di flessibilità e di ogni invito alla consapevolezza del mutamento, erige muri che dovrebbero separare il bene dal male e garantire durata e benessere a chi sta… protetto.

Protetto da cosa? Cosa mettiamo dall’altra parte e cos’è questa suddivisione per parti: dentro/fuori, io/gli altri, familiare/perturbante? Continua a leggere

Fragile

Come un pesce gettato sulla terraferma
si dibatte tremando tutto il giorno e lottando”
Dhammapada

Sono un ex fumatore, uno che fumava davvero tanto. Ho smesso una prima volta tanti anni fa, poi ci sono ricascato e poi ho smesso di nuovo. Quando qualcuno mi chiede come si sta senza sigarette la mia risposta è: “Appena tollerabile”. E’ una citazione, tra l’altro, la traduzione di un termine con cui, nei primi testi buddisti, si definiva il mondo che abitiamo: tollerabile, nel senso di appena sostenibile, difficile da reggere e in equilibrio precario. Non proprio terribile (quasi mai) ma sicuramente non facile, pervaso, secondo il Buddha, da dukkha, parola erroneamente resa con il nostro “sofferenza” ma che invece ha un significato più sottile: “Il prefisso ‘duh’ significa male o difficoltà, mentre il suffisso ‘kha’ può riferirsi al foro al centro di una ruota in cui si inserisce l’asse. Il vocabolo sta quindi a significare che, non essendoci corrispondenza perfetta tra le due parti, durante il viaggio gli scossoni non mancheranno” ( M. Epstein).

Fuori squadro, insomma, un po’ instabile e mai del tutto allineato, con momenti rari in cui tutto fila liscio e c’è quasi un senso di perfezione, di grazia ed altri pieni di inciampi e di correzioni necessarie: aggiustamenti e riparazioni in corso ed equilibrismi sui tratti più accidentati. Continua a leggere

Su “La banalità del male”: una riflessione psicologica

 

Ho visto recentemente un film di Margarethe Von Trotta intitolato Hannah Arendt. E’ un’opera incentrata sulla figura della filosofa tedesca e sulla sua presa di posizione nei confronti della condanna che lo stato di Israele comminò ad Adolf Eichmann. La Arendt non contestò la condanna in sé quanto le motivazioni che, dal suo punto di vista, non rendevano conto del vero motivo della malvagità della figura che veniva giudicata. Secondo l’autrice, che per la sua tesi si inimicò parecchi amici ebrei e mise a repentaglio la sua stessa carriera giornalistica, ritenere Eichmann colpevole senza capirne la profonda mediocrità e la sconcertante inconsapevolezza, condannarlo osservando l’ovvia manifestazione del male che egli incarnava senza riflettere sulla genesi di tale male era un errore: un fallimento del pensiero e, paradossalmente, un rinforzo dell’inconsapevolezza in cui il gerarca e con lui tantissimi rappresentanti del potere e della cultura tedesca del periodo nazista, erano immersi.

Mi è tornato in mente, questo film, vedendo le immagini tremende dell’esecuzione del giornalista americano James Foley e ascoltando, da spettatore impotente come tutti gli altri, gli ultimi episodi di cronaca nostrana: delitti che tutti definiscono inspiegabili e su cui spesso colleghi, psicologi e psichiatri, vengono interrogati da giornalisti in cerca di diagnosi che rassicurino. Continua a leggere

Mindfulness: un antidoto alla paura

 

Muoviti, ma non muoverti nel modo in cui le paure ti muovono”
Rumi

Il premio Nobel Aung San Suu Kyi, una che di coraggio se ne intende, nel suo libro “Libertà dalla paura”, parlando del potere e del rapporto fra chi lo esercita e chi lo sopporta o subisce, dice: “Non è il potere che corrompe ma la paura. La paura di perdere il potere corrompe chi lo detiene e la paura delle punizioni date dal potere corrompe chi a quel potere è soggetto.”

Questa affermazione è terribilmente reale per chiunque viva o abbia vissuto in un regime come quello a cui la scrittrice si è opposta ma credo sia altrettanto vera per noi che, in un contesto molto meno autoritario e relativamente liberi dalle pressioni di un potere non democratico, riusciamo comunque a farci corrompere dalla paura.

Dal punto di vista di uno psicologo la paura, oltre ad essere una delle cosiddette emozioni primarie, è, nell’interazione con i pazienti e, in generale, come oggetto di studio, una costante dello sfondo.

C’è la paura del depresso che si ritira e sente di non avere la forza di vivere, quella dell’ossessivo che crede che solo un mondo stabile e immutato possa garantire un minimo di sicurezza, quella dell’ansioso che la paura la rumina nell’anticipazione degli eventi o nel tentativo di allontanare la minaccia di… ciò che vuole evitare. E c’è una sorta di paura sociale, qualcosa in cui tutti siamo immersi e che, credo, alimentiamo ogni volta che dimentichiamo di rendere abbastanza denso il nostro pensiero. Continua a leggere

Flow

ChagallBacheca

 

Il flusso è una metafora, un modo per esemplificare uno stato in cui mente e corpo, sintonizzati fra loro e con l’ambiente, sembrano scorrere liberamente e senza sforzo regalandoci momenti un cui è un piacere fare esattamente ciò che si sta facendo. Il flusso capita e a volte quasi ci sorprende: magari stiamo correndo o ballando, leggendo o scrivendo, studiando, giocando… e ci ritroviamo ad essere immersi in uno stato che è, contemporaneamente, leggero e intenso, coinvolgente e poco impegnativo.

“Il flusso avviene quando la mente esce dai propri confini e libera l’immaginazione. Il flusso non si cura delle barriere, le supera. Il flusso è essere assorbiti, senza sforzo, nel compito, nel momento, nel potenziale. Il flusso è forza emozionale fluida che dà energia e rende sinergici fra di loro gli interessi, le attitudini e i talenti che si allineano perfettamente con il compito e sono completamente assorbiti in esso. Quando gli studenti, ad esempio, sono completamente presi dal processo di apprendimento e lavorano per trovare una soluzione o finire un progetto, lì accade il flusso di apprendimento. Quando il suo cuore, la sua mente e i suoi muscoli e la sua anima si sincronizzano sull’apprendimento, si può dire che lo studente sta fluendo al meglio delle sue potenzialità.”

P. O’Grady “The Positive Psychology of Flow” citato in Writing and the Creative Life: Flow

Vedi anche il mio post “Il flusso di energia e di informazione”.

 

Emozioni nel corpo

Solo il vero sapere ha potenza sul dolore”
Eschilo

In uno studio di “mappatura delle emozioni nel corpo” un gruppo di scienziati Finlandesi ha chiesto a 700 volontari di indicare dove sentivano nel loro corpo certe specifiche emozioni. Hanno quindi messo a disposizione di ogni persona due silhouettes bianche chiedendo di disegnare su una di esse le parti del corpo che sentivano stimolate e sull’altra quelle che sentivano disattivate quando pensavano e cercavano di sentire ciascuna delle 14 emozioni che venivano loro presentate.

Non tutti hanno rappresentato la stessa emozione nello stesso modo. Ma quando i ricercatori hanno messo a confronto le mappe e costruito una media ne sono usciti dei modelli di rappresentazione che fanno vedere come mediamente le persone percepiscono nel corpo certe emozioni più o meno complesse.

Emozioni nel corpo2

Le persone hanno disegnato mappe dei punti del corpo nei quali percepivano emozioni di base (riga superiore) e emozioni più complesse (riga inferiore). I colori caldi indicano regioni che le persone considerano stimolate durante l’emozione. I colori freddi indicano aree considerate non attivate.

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Meditazione istantanea

La “meditazione istantanea” (uno dei titoli che apparirà spesso in bacheca) è un selfie interiore: un autoscatto di te stesso immerso in… ciò in cui sei immerso in questo momento. Sei tu che metti a fuoco, che decidi il tempo di esposizione e l’ampiezza del diaframma. Nel Buddismo Zen viene spesso chiamata Koan e consiste in un’affermazione paradossale o in un racconto usato per aiutare la meditazione e per risvegliare una consapevolezza profonda.

Questa è facile e ripetibile, più volte al giorno. Parte dalla famosa proposizione dello scienziato e filosofo, Wittgenstein, e se fosse un Koan sarebbe uno di quelli atti a realizzare l’unità di tutto il reale.

SpiaggiaBacheca3

E, in tutto ciò che accade, la nostra, puntiforme, esperienza; il piccolissimo morso che selezioniamo e tutto quello che succede e a cui rispondiamo e verso cui l’inconscio e il corpo e l’abitudine rispondono… frammenti dell’esistente, percezioni e vaghi sprazzi di “quello che, in questo momento, colgo”. Cosa sente quella piccola parte della pianta del mio piede mentre tocco, calpesto, calco…? Cosa posso sentire e quanto sto attento nell’istante; cosa mi perdo e quanto, poco o tanto, conta?
Stare presente a questo, a come posso ignorarlo, a quanto stringo o allargo il puntino minuscolo dell’attenzione, verso fuori, verso dentro… sulla soglia che sono, qui, ora!

L’Io e il Mondo: una discutibile dicotomia

Il leone ruggisce al deserto esasperante”
Wallace Stevens

Con questa frase che cito nell’incipit James Hillman, in un suo breve saggio del 1989 “And Huge is Ugly”, invita il lettore ad osservare e sentire il mondo: rendersi conto di quanto le emozioni non siano tanto qualcosa di “chiuso dentro la nostra testa”, quanto una reazione al contesto in cui siamo immersi.

Tutto il saggio, breve in verità (sei intensissime pagine), è un’esortazione a smetterla di dividere: un invito a non cadere nella trappola di vedere il Sé e il Mondo come entità staccate e a non rispondere automaticamente a ciò che ci circonda ma, piuttosto, a riflettere e psicologizzare, tenere a mente Psiche e tralasciare L’Io e l’enfasi sull’individualità. Dice Hillman: “Da lungo tempo mi trovo in posizione critica nei confronti del disastroso polarizzarsi della terapia sul sé: quella malattia che è il narcisismo psicoanalitico, il narcisismo insito, cioè, nella nostra ossessione della soggettività. Il fascino per il sé, tuttavia, non potrà scomparire finché non riconosceremo che ciò di cui si occupa la psicoterapia non è il sé ma la psiche”. E siccome “Fin da Platone ‘psiche’ è stata riferita a un’anima avvolgente, esterna e al di là della nostra testa e della nostra pelle umani, al di là dei confini di ‘me’, al di là delle mie relazioni intra e interpersonali, perfino al di là del mondo in quanto mio ambiente ecologico e mio campo proiettivo”, mettere l’attenzione su psiche significa, necessariamente, smettere di dividere.

Significa smettere di credere che isolandoci dal mondo e combattendolo o reprimendolo si possa allentare la sua presa, si possa sfuggire al dolore che ci causa l’immersione nel deserto esasperante da cui, a volte, ci sentiamo circondati.

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Attenzione: liberamente fluttuante

“… il cambiamento può essere un atto di volontà
o un flusso, ma l’atto di volontà è più complicato”
Mafe

Parlare di attenzione è parlare della più fondamentale delle attività psichiche: senza l’attenzione non ci sarebbe il linguaggio, non sarebbero possibili i pensieri, i sogni, la “percezione della realtà”.

E’ modulando la quantità di attenzione che rivolgiamo ad un qualsiasi oggetto, fisico o mentale, reale o immaginario, è indugiando su di esso, scrutandolo, osservandolo, assaggiandolo, studiandolo, che possiamo portarlo dentro, e illuminarlo, renderlo più o meno interessante, vivido, familiare, caro.

E l’attenzione, come tutte le funzioni fondamentali, tende a restarsene sullo sfondo, ignorata e usata quasi automaticamente come uno strumento così scontato che, come un braccio, una gamba o un occhio, non ha bisogno di niente a meno che si guasti, si deteriori o smetta di funzionare.

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Forme Vitali e… ciò in cui sono immerse

“La libertà di essere tutti sovrani dei nostri minuscoli
regni 
formato cranio, soli al centro del creato”
D.Foster Wallace

Questo post è a suo agio nella categoria pandemonio. È infatti un ibrido, anche nel senso etimologico del termine. Hybris, da cui ibrido deriva, sta per forza tracotante, atto di sfida e di arroganza, qualcosa che ha la pretesa di essere nuovo e che non dovrebbe stare al mondo ma, “creato dall’uomo” con un gesto di auto determinismo e di forza, esiste come esistono certi animali mitici frutto di incroci impossibili e forzati.

La sua tracotanza sta nella pretesa di mettere l’accento su cose che tutti sanno e di presentare il banale come qualcosa su cui riflettere profondamente…. e di pensare che la riflessione profonda possa cambiare qualcosa, renderci diversi, un po’ meno troppo umani.

Inizio, presuntuosamente, con una storiella che David Foster Wallace raccontò nel 2005, all’inizio del suo discorso ai laureandi del Kenyon College.
“Ci sono due giovani pesci che nuotano e a un certo punto incontrano un pesce più anziano che va nella direzione opposta, fa un cenno di saluto e dice: ‘Salve, ragazzi, com’è l’acqua?’ I due pesci giovani nuotano un altro po’, poi uno guarda l’altro e fa: ‘Che cavolo è l’acqua?’ “.

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