Podcast8: Centro di gravità permanente – Parte 1

“Occorre un certo distacco, un po’ di tempo e uno sforzo di immaginazione
per realizzare che il mondo che ci viene incontro e verso cui andiamo,
per mezzo di mille contatti, con un ‘io’ in bilico, sballottato tra flusso e riflusso,
invaso da mille sensazioni, percezioni e pensieri, altro non è che un montaggio,
o meglio, per riprendere un termine tecnico del buddhismo,
un mulinello di ‘aggregati’ (khandha) sprovvisti di realtà propria”
Hervé Clerc

Un podcast sull’impossibilità di “non cambiare mai idea sulle cose e sulla gente”.

Ascolto Predatorio

“Knowledge is not free. You have to pay attention”
R.Feynman

Ho lasciato in lingua originale la frase dell’incipit perché, anche se in italiano tradurremmo correttamente con “la conoscenza non è gratuita, occorre prestare attenzione”, l’inglese “pay attention” dà davvero l’idea del prezzo da pagare e della moneta di scambio che bisogna mettere sul tavolo se si vuole ottenere qualcosa nello studio di un materiale o nello scambio/comunicazione tra persone.

Paghiamo con l’attenzione: ci impegniamo per comprendere e per uscire con qualcosa di buono dal lavoro di apertura che compiamo ogni volta che ci confrontiamo con un altro, ogni volta che entriamo in relazione. 

Tranne quando ascoltiamo solo per vincere, per prevalere, per avere ragione. 

Ascolto predatorio è il nome che è stato dato a questa modalità di relazione che sembra una partita di tennis in cui l’obiettivo è quello di segnare un punto il prima possibile e scoprire il punto debole dell’altro per metterlo alle strette e sconfiggerlo velocemente.

Ho letto qualche giorno fa un breve articolo che ne parla e l’ho tradotto per voi. Sapete che uno degli argomenti su cui più insisto nei miei post è proprio quello che riguarda il buon uso dell’attenzione: l’essere consapevoli-stare attenti al modo in cui ci si protende o ci si allontana da ciò con cui si entra in relazione. Per chi fa il mio lavoro è ovvio (dovrebbe esserlo!). Credo che molto dolore possa essere alleviato da un ascolto diverso da quello predatorio che troverete definito in questo articolo e penso che alcuni dei rimedi di cui l’autore parla andrebbero adottati come dei veri antidoti a molti dei veleni che circolano nel sistema in cui siamo immersi.

Chi preferisce l’inglese lo trova qui.

Difendersi dall’Ascolto Predatorio
di Oren Jay Sofer, 18 Febbraio 2021

È stato come pestare la parte sbagliata del rastrello.

Un mio parente mi ha chiesto un’opinione ma appena gliel’ho data si è lanciato in quello che sembrava un discorso fatto apposta per dissentire su ogni cosa che avevo detto e per criticare il mio carattere. Mi sentivo come se fossi caduto in una trappola.

Vi è mai capitata un’esperienza simile? State conversando ed è come se il vostro interlocutore stesse aspettando il più piccolo pretesto per saltarvi addosso, dimostrare che avete torto, sostenere il suo punto di vista o asserire la propria convinzione.

O magari siete stati voi “quel tipo di interlocutore”. Di sicuro io lo sono stato. Se sono arrabbiato, turbato o addolorato, mi viene la tentazione di ascoltare con un focus ipercritico invece che con curiosità. Se non sto attento la mia mente passa in modalità offensiva, pronta a costruire un caso selezionando solo le cose che convalidano la mia narrazione.

Questo fenomeno è noto come “ascolto predatorio” e nella modalità discorsiva odierna, tesa e frammentata, è diventato molto comune sia a sinistra che a destra e un po’ ovunque. L’ascolto predatorio può avere molte forme: ascoltare focalizzandosi sul trovare l’errore o il pretesto per litigare; stare in attesa di qualcosa per cui sentirsi offesi; cercare deliberatamente di beccare qualcuno in fallo; ascoltare solo per raccogliere elementi per obiettare o contestare.

I costi di questo modo di relazionarsi possono essere molto alti. L’ho visto fare a pezzi famiglie e trasformare sedi di attivisti in plotoni di esecuzione circolari. E non importa se viene da sinistra o da destra. Che si tratti di teorie di cospirazione, dogmatismo o moralismo le dinamiche sono le stesse: una miscela di fissazione mentale e volatilità emotiva, un’intensa pressione interiore che spinge ad asserire i propri punti di vista in modo conflittuale e il profondo desiderio di avere ragione. I bisogni dell’“ascoltatore” mettono in ombra valori relazionali quali la comprensione, la connessione, la cura o la mutualità. Nessuno vince.

Come possiamo gestire al meglio questo comportamento quando si presenta?

Quando sento crescere in me la tendenza a comportarmi in questo modo riconosco che ci vuole molta consapevolezza e controllo per sopportare il disagio della pressione interna a parlare senza sfogarla. Ma se riesco a fermarmi abbastanza a lungo da considerare il mio scopo, le cose cominciano a cambiare. A cosa sto davvero mirando? Voglio che questa persona consideri un altro punto di vista? Che cambi il suo comportamento? Se quello che sto cercando è un qualche tipo di comprensione o trasformazione è spesso più efficace uscire dalla modalità offensiva di predazione e passare ad un atteggiamento di curiosità e connessione.

Quando l’ascolto predatorio compare negli altri, suggerisco le seguenti strategie.

La prima cosa da sapere è che demonizzare questo comportamento o sfidarlo apertamente non risolverà il problema. Non si può combattere l’ascolto predatorio argomentando. È come buttare benzina sul fuoco: brucerà solo più furiosamente.

Quindi per aggirare questo modo di relazionarsi abbiamo bisogno di uscire dal gioco di chi ha ragione e chi ha torto e mettere l’attenzione su cosa sta succedendo a livello umano.

Molti modelli culturali e psicologici ci insegnano che ogni comportamento umano può essere ricondotto a più profondi e universali desideri radicati nel bene. E se sotto a tutto quel vetriolo ci fossero valori e vulnerabilità di cui la persona non è magari del tutto consapevole? Per esempio potrebbe esserci un bisogno di essere visti o un desiderio di essere considerati e di avere voce. Potremmo scorgere un forte impegno ad essere onesti, giusti, dediti alla comunità o alla famiglia. O potrebbero esserci dolorose cicatrici di ferite emotive, personali o collettive, che reclamano empatia.

Allora, invece di discutere, invitiamo l’altra persona a condividere di più. Se ciò di cui ha veramente bisogno è esprimersi e sentirsi ascoltato, dategli l’opportunità di farlo (a meno che questo non danneggi voi o qualcun altro). Ascoltate ciò che è importante per lei. Cosa le interessa? Cosa la appassiona? Riconoscete le intenzioni positive, i valori o i bisogni che scorgete in ciò che dice.

Potete anche chiedere direttamente qual è il suo obiettivo. Io direi una cosa tipo: “Ho l’impressione che tu ci abbia pensato molto e che tu abbia delle opinioni molto chiare. Cos’è che vorresti che io sapessi o capissi? Dove vogliamo arrivare?” Oppure: “Cosa posso fare che sia d’aiuto in questo momento?” A volte una domanda diretta e onesta può smascherare la finzione che si tratti di un dibattito, rivelare cosa sta accadendo e porre fine alla discussione o aprire spazio per nuove possibilità.

Naturalmente ci vuole consapevolezza (mindfulness), forza e presenza per resistere alla tentazione di buttarsi nella mischia, di fare a pezzi il ragionamento dell’altra persona o fargli notare quanto possa essere dannoso il suo approccio. E, se il discorso diventa pericoloso, può essere che sia il caso di togliersi dalla situazione. Soprattutto se siete i destinatari di questo tipo di comportamento cercate di non prenderla sul personale, prendetevi cura di voi stessi e ricordatevi che rendere l’altro un nemico non serve a nulla e non fa bene al vostro cuore.

Oren Jay Sofer è uno stimato insegnante di meditazione, di mindfulness e di Comunicazione Non Violenta. Collabora attivamente con l’App Ten Percent Happier. È un membro del corpo insegnanti dello Spirit Rock, tiene un corso in Religioni Comparate alla Columbia University ed è l’autore di “Say What You Mean: A Mindful Approach to Nonviolent Communication” e coautore di “Teaching Mindfulness to Empower Adolescents”. Inoltre insegna online nei corsi di Mindful Communication.
Social: @Orenjaysofer

Podcast7: Coni di luce

“Percezione Ecologica: avviene quando mentre percepisco il mondo ho anche la consapevolezza implicita della mia posizione, della mia postura e del movimento”
J.J.Gibson

Con cosa entro in contatto quando “mi connetto con me stesso”? Vi offro una piccola meditazione. Buon ascolto!

Broken Hallelujah

“C’è una crepa in ogni cosa. È così che entra la luce”
Leonard Cohen 

Foto di Harry Smith da Pexels

Se dovessi dedicare una canzone al 2020 che pezzo sceglieresti? Lo chiedeva non ricordo chi recentemente su Twitter. Non ho dovuto pensarci molto perché da giorni pensando a questo assurdo, per certi versi terribile e di certo insolito anno, mi viene in mente l’“Hallelujah” di Leonard Cohen. È una canzone del 1984. Ai tempi, non si poteva semplicemente googlare “lyrics…” per trovare il testo di un brano e ricordo i miei sforzi per capire cosa Cohen dicesse e per dare un senso a ciò che sentivo e che, anche  se non del tutto capito, toccava in me corde profonde. Ora è facile leggere ogni strofa e trovare anche molte di quelle che l’autore ha scritto ma non ha messo nella maggior parte delle versioni. E c’è un suo commento che dice molto sul significato di questa canzone: 

«Questo mondo è pieno di conflitti e pieno di cose che non possono essere unite ma ci sono momenti nei quali possiamo trascendere il sistema dualistico e riunirci e abbracciare tutto il disordine, questo è quello che io intendo per alleluia. La canzone spiega che diversi tipi di alleluia esistono, e tutte le alleluia perfette e infrante hanno lo stesso valore. È un desiderio di affermazione della vita, non in un qualche significato religioso formale, ma con entusiasmo, con emozione. So che c’è un occhio che ci sta guardando tutti. C’è un giudizio che valuta ogni cosa che facciamo.»

Le alleluia perfette e quelle infrante (broken)! Ecco: credo che “infranto/spezzato/ rotto” siano ottimi aggettivi per l’anno che sta finendo.

C’è sicuramente una crepa nel 2020 e non c’è nessun bisogno di spiegarla. Anzi, è stata spiegata fin troppo! Ho letto fiumi di parole e di commenti sui morti, sul vaccino, sul virus, sui “numeri”, ecc. Visti con gli occhi di uno che fa lo psicologo la maggior parte di queste opinioni e di questi giudizi non sono che una difesa: un modo per non guardare la crepa, un espediente comprensibile e a volte molto stupido per evitare l’angoscia. Davvero troppi giudizi. Affrettati e reattivi, non pensati, inconsistenti. Dice giusto Mafe de Baggis nel suo ultimo libro: “Il giudizio è il veleno che uccide la creatività. È un diserbante, un acido, una tossina. Avere una parola cattiva per tutti (gli altri) e tutto è il malcostume contemporaneo che, in cambio di una risata facile e di un senso di superiorità volatile, ci sottrae idee, soluzioni e un futuro migliore.”  E sottrarci idee, soluzioni e un futuro migliore è proprio ciò di cui non abbiamo bisogno. 

L’occhio che ci guarda tutti di cui parla Cohen, il giudizio che valuta ogni cosa che facciamo, non è un dio astratto e lontano che ci punirà o ci premierà. È, invece, la nostra capacità di cercare un senso e un rimedio, di sospendere il giudizio superficiale per giungere a una visione intelligente: quella che vede la crepa ma anche la luce che da essa entra.  

Non occorre credere che l’occhio che ci guarda sia esterno per sentire l’Imperativo Etico, quello che Heinz von Foerster definì come l’intento e la determinazione di agire sempre in modo da aumentare il numero delle possibilità. 

Quando state per sparare il prossimo giudizio (lo facciamo tutti in automatico, più volte al giorno), chiedetevi quanto quella sentenza allarga il numero delle possibilità. Apre verso qualcosa? Abbraccia il disordine per porvi rimedio o si limita a criticare e a “mettere in risalto la crepa”/indicare il difetto? 

Quanta luce trapela dall’anno che ci stiamo lasciando alle spalle? Può essere riconosciuta, raccolta, usata?

Buon 2021! DrDedalo

Podcast6: Perfezionismo Malsano

“Ciò che turba gli uomini non sono le cose
ma le opinioni che essi hanno delle cose”
Epitteto

Ecco il podcast che approfondisce il discorso sul perfezionismo e alcuni link a dei post che in esso cito. Buon ascolto!
https://www.formevitali.it/2020/12/02/perfezionismo-malsano/ 
https://www.formevitali.it/2014/03/23/storytelling-suffer-vs-endure/
https://www.formevitali.it/2018/05/27/due-frecce/

 

Perfezionismo malsano

Quando la tempesta sarà finita, non saprai
 neanche tu come hai fatto ad attraversarla e a uscirne vivo.
 Anzi, non sarai neanche sicuro se sia finita per davvero.
 Ma una cosa è certa.
Ed è che tu, uscito da quel vento,
non sarai lo stesso che vi è entrato.
Haruki Murakami

Ho letto recentemente un articolo di Margaret Rutherford sul Perfezionismo Malsano e su quella che questa autrice chiama Depressione perfettamente nascosta. L’ho trovato molto interessante perché penso che, anche a causa del momento storico che stiamo vivendo, la richiesta più o meno soggettiva di perfezione e il continuo sforzo di essere all’altezza delle aspettative nostre ed altrui, sia una delle trappole in cui gli adulti e ancor di più i ragazzi/e possono cadere.  

Qui di seguito troverete la traduzione che ho fatto per voi e per i miei pazienti dell’articolo integrale (chi preferisce l’inglese lo trova qua).

È abbastanza lungo (non da leggere tutto d’un fiato) e abbastanza “americano”: molto esplicativo, con tanto di elenco dei tratti necessari alla diagnosi della sindrome e di esercizi per prendere consapevolezza e cominciare a fare qualcosa a riguardo. Può darsi che lo troviate un po’ ridondante ma lo consiglio caldamente soprattutto a chi ha figli e ai caregiver in generale. Mi sono già state fatte delle domande sui contenuti che troverete da persone con cui ne ho parlato e che l’hanno letto e ho deciso che risponderò in un podcast nei prossimi giorni. Sarà una sorta di amplificazione di alcuni punti con l’aggiunta di qualche esempio e di una visione un po’ più psicodinamica: più incentrata sul versante psichico interno che sul comportamento esterno. Sapete che sono un sostenitore dell’idea Batesoniana che “due descrizioni sono meglio di una”, due vertici da cui guardare aiutano nella percezione di “profondità” di un argomento. 

Se leggendo l’articolo anche a voi vengono delle domande mettetele nei commenti.
Mi aiuteranno nella riflessione e cercherò di rispondere nel podcast.
Buona lettura! 

Come superare il “non è mai abbastanza”

Imparare a riconoscere il perfezionismo malsano, capire le sue fonti emotive e trovare un modo per mettere a tacere la voce autocritica che ne deriva

di Margaret Rutherford

Cosa devi sapere

“Se vale la pena farlo, vale la pena farlo bene”. Quante volte l’ho sentito dire da piccola? I miei genitori cercavano di insegnarmi (nel caso in cui non l’avessi assorbito dalle loro azioni) l’importanza della ricerca dell’eccellenza. Incoraggiavano quello che alcuni psicologi chiamano “perfezionismo costruttivo” o “sano perfezionismo” – un tratto della personalità associato alla ricerca del piacere e all’idea di potersi realizzare nella vita facendo le cose al meglio. Con il “perfezionismo costruttivo” o “perfezionismo positivo” l’attenzione è orientata al processo; si impara dagli errori e addirittura dal fallimento. E’ generalmente considerato un tratto benefico della personalità legato all’essere coscienziosi e auto-disciplinati.

Tuttavia il perfezionismo può avere un lato oscuro. L’autrice americana Brené Brown nel suo primo libro “The Gifts of Imperfection” ha definito questo tipo di perfezionismo come “un sistema di credenze auto-distruttivo, che crea dipendenza e che alimenta una modalità di pensiero primario che dice: se sembro perfetto, vivo perfettamente e faccio tutto alla perfezione, posso eliminare i sentimenti dolorosi di vergogna, giudizio e colpa”. Questa forma di perfezionismo, nutrito da un sentimento di vergogna interiore che deve essere placato, ci costringe a tentare continuamente di soddisfare le aspettative connesse alla nostra idea di “cosa è perfetto”. Questo perfezionismo non è appagante ed è tutt’altro che piacevole. Eppure molte persone sentono l’obbligo di apparire come se tutto ciò che le riguarda fosse perfetto e considerano che non farlo mette in evidenza l’imperfezione.

Nella letteratura psicologica questo tratto è conosciuto come “perfezionismo malsano” o “perfezionismo distruttivo”. In questo tipo di perfezionismo ciò che conta non è il processo ma il risultato. Chi ne è affetto pensa solo all’obiettivo e da esso è guidato e ne subisce la pressione. Credo che stia contribuendo sempre più ai problemi di salute mentale.

Diciamo che i perfezionisti costruttivi, se sono nuotatori, vogliono battere il loro record personale. Questo intento porta con sé molte vibrazioni positive. E’ davvero fantastico vincere una gara!

Ma i perfezionisti distruttivi vogliono essere il nuotatore perfetto. E vincere ogni gara è l’obiettivo; se non lo fanno la vergogna li fa sentire di poco o nessun valore.

Molte persone perfezioniste si posizionano da qualche parte sullo spettro fra questi due poli. Ma nella mia pratica clinica ho notato un altro problema: per ironia della sorte i perfezionisti distruttivi non si riconoscono come perfezionisti perché non pensano che il loro meglio sia abbastanza. C’è sempre il prossimo traguardo da raggiungere. E poi il prossimo e il successivo.

Allora quali sono le radici del perfezionismo distruttivo? Credo che spesso le persone sviluppino questo modo di pensare e di essere quando crescono senza un senso di sostegno, di sicurezza e di nutrimento. Può essere anche una reazione a traumi infantili o ad aspettative culturali estreme dove la vulnerabilità è disprezzata e verso le quali apparire perfetti diventa una strategia obbligatoria per sopravvivere emotivamente.

Nell’ultimo decennio ho curato sempre più persone che non sapevano bene perché fossero venute in terapia. Avevano eretto enormi barriere contro la rivelazione di qualsiasi tipo di dolore emotivo; mi sono addirittura chiesta se avessero la capacità di esprimere certi sentimenti. All’esterno non sembravano affatto depressi; descrivevano i loro problemi più come il risultato di troppo lavoro, della stanchezza e di un’ansia moderata.

La mia interpretazione è che fossero dei perfezionisti distruttivi che stavano esaurendo le proprie forze ma che non capivano cosa ci fosse (e se ci fosse) qualcosa di sbagliato. Il loro dolore emotivo era sapientemente, e spesso inconsciamente, nascosto.

Se avessi chiesto loro se erano depressi avrei sentito una ferma negazione. “Ho troppe cose belle nella mia vita per essere depresso”. Se chiedevo se nella loro infanzia si erano sentiti sicuri e protetti ridevano e negavano o minimizzavano qualsiasi problema. A volte diventavano molto silenziosi e guardavano fuori dalla finestra come se avessero voluto essere ovunque tranne che nel mio studio.

Ma, se tornavano per un po’ di sedute, cominciavano pian piano a prendersi il rischio di condividere una serie di segreti pieni di vergogna. Il loro apparentemente impenetrabile mantello di silenzio scivolava lentamente via rivelando una tremenda solitudine e disperazione.

E in molti casi, mentre abbassavano la guardia, ho scoperto che erano in grado di capire che ciò che era “sbagliato” o malsano non rientrava nella descrizione della classica depressione. Ma era altrettanto reale e altrettanto dannosa.

Ho fatto delle ricerche nella letteratura su perfezionismo, vergogna e paura della vulnerabilità. Ho trovato un gran numero di ricerche e di scritti sull’importanza della vulnerabilità e sul costo della vergogna della già citata Brown, le vecchie riflessioni sulla “depressione nascosta” del terapista famigliare Terrence Real, e il libro Self-Compassion della psicologa Kristin Neff. Ma non ho trovato nulla per il grande pubblico sul rapporto tra perfezionismo e una forma potenzialmente grave di depressione.

Così, basandomi sull’esperienza e sulle storie cliniche dei molti clienti che ho visto nel mio studio in 25 anni, ho formulato le mie idee su questo specifico problema e su come possa essere affrontato nel modo più efficace ed empatico. Il mio lavoro – esposto nel libro Perfectly Hidden Depression (2019) – parla di come la pericolosa depressione alimentata dal perfezionismo può affliggere la vita di una persona; di quanto anche individui con un punteggio basso su un questionario che misura la depressione standard possano vivere portando con sé difficoltà emozionali profondamente radicate ed esperienze traumatiche irrisolte che sono in grado di minare la loro voglia di vivere. Ho chiamato questa sindrome “depressione perfettamente nascosta”.

Ho identificato dieci tratti che si manifestano nel comportamento e nel processo decisionale di persone che mostrano gli indicatori di questa sindrome:

  • Siete estremamente perfezionisti; spinti continuamente da una voce interiore critica che incute vergogna o paura.

  • Dimostrate un elevato o eccessivo senso di responsabilità e ricerca di soluzioni.

  • Avete difficoltà ad accettare o esprimere emozioni dolorose, cercate di rimanere analitici e “chiusi nella vostra testa”.

  • Minimizzate, cercate di ignorare o negate abusi subiti o traumi nel passato o del presente.

  • Vi preoccupate molto (ma nascondete questa abitudine) ed evitate situazioni in cui non siete in controllo.

  • Siete molto concentrati sui vostri compiti e sulle aspettative degli altri, usate il risultato come un modo per sentirvi apprezzati. Ma non appena l’ultimo risultato svanisce ritorna la pressione e tutti i successi diventano scontati.

  • Avete una solerte e sincera cura per il benessere degli altri, ma interiormente ve ne concedete poca, se non nessuna.

  • Siete profondamente convinti di “dover essere grati per quello che avete” e sentite che qualsiasi altro atteggiamento rifletta una mancanza di gratitudine.

  • Avete difficoltà emotive con l’intimità ma siete in grado di raggiungere un notevole successo professionale.

  • Possono associarsi a questi tratti dei disturbi mentali che comportano problemi d’ansia e di controllo come contemplati nel Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC) e nel Disturbo da Ansia Generalizzata (DAG), Panico e Disturbi Alimentari.

Se leggendo questi dieci tratti scoprite che molti o tutti vi corrispondono, sentitevi in qualche modo rassicurati: potrebbe illuminarvi sul perché vi sentite così, sul come mai non sapevate che cosa ci fosse di sbagliato e su perché vi vergognavate anche solo a considerare che ci fosse. Se vi si è accesa una luce – se riconoscete di non accettare di condividere nessuna vulnerabilità: o forse riconoscete questi tratti in qualcun altro, allora come prima cosa: respirate. E sappiate questo: ho scoperto che c’è un antidoto alla depressione perfettamente nascosta: l’accettazione di sé.

Che cosa fare

Se credete di essere un malsano perfezionista e che questa condizione potrebbe mascherare i vostri ben radicati problemi emotivi, vi propongo cinque fasi che potrebbero aiutarvi: consapevolezza, impegno, confronto, connessione e cambiamento.

La prima fase: consapevolezza

Questa fase si riferisce all’importanza di diventare consapevoli innanzitutto del fatto che il vostro perfezionismo è un problema. Anche se il riconoscere i propri problemi fa parte di ogni processo di guarigione emotivo/mentale, questa fase potrebbe essere particolarmente complicata per voi a causa del fatto che vi siete convinti che i vostri tratti perfezionisti sono normali e non sono un problema. Vi chiedereste: “Non siamo tutti così?”. La risposta è un clamoroso: “No”. Inoltre rinunciare o modificare una strategia che vi ha portato al successo esteriore è probabilmente molto difficile. Di fatto il procedimento che usate per evitare ricordi o sensazioni dolorose potrebbe essere diventato qualcosa che fate inconsciamente.

Ci sono vari modi per sviluppare una maggior comprensione del ruolo che il perfezionismo distruttivo sta giocando nella vostra vita. Uno di questi, che potete fare da soli è la mindfulness (attenzione consapevole). Molti autori che scrivono di mindfulness spiegano che non si tratta di una attività in cui bisogna essere sempre concentrati su qualcosa. Essere mindful ha più a che fare con il cambiare il come prestate attenzione. La mindfulness approfondisce la vostra esperienza del presente.

Ecco una semplice tecnica: sedetevi in un posto comodo e tranquillo e mettete un timer per tre o cinque minuti. Respirate profondamente e chiudete gli occhi. State il più focalizzati possibile sui respiri, se serve contateli fino a dieci e poi ricominciate. Se la vostra mente vaga (e lo farà) lasciate andare dolcemente i pensieri che arrivano e concentratevi nuovamente sul respiro. Quando il tempo impostato finisce osservate le vostre emozioni con gli occhi ancora chiusi. Potrebbe esserci irritazione, sollievo, sentirsi ridicoli per ciò che state facendo. Notatele e guardatele dissiparsi.

Per prendere coscienza ci vuole pazienza. Più vi eserciterete in questa pratica, più vi accorgerete di come interagite con il mondo interno ed esterno, svilupperete inoltre una maggiore comprensione di come il bisogno di sembrare perfetti si sia insinuato in quasi tutti gli aspetti della vostra vita.

La seconda fase: impegno

Anche se diventate più consapevoli dei problemi che il perfezionismo vi causa, vi renderete conto che cambiare è difficile. Ironicamente (e distruttivamente) questo può trasformarsi in un altro obiettivo da raggiungere per… essere perfetti. Ho scoperto che ci sono cinque grandi ostacoli da superare per arrivare a mettere in dubbio la presa che il perfezionismo esercita sulla vostra mente e sul vostro cuore:

  1. Essere così dediti al compito che se si vacilla o se non lo si compie perfettamente si lascia perdere o si cerca di non pensarci più.

  2. Iniziare con un obiettivo troppo difficile o troppo vasto.

  3. Andare avanti da soli e non chiedere aiuto nel cammino.

  4. Fare i conti con la paura e la vergogna di dover rinunciare al proprio personaggio pubblico e alle proprie strategie di gestione man mano che lo stress aumenta.

  5. Altri precedenti disturbi mentali, tipo un DOC o disordini alimentari, che potrebbero peggiorare a causa dell’aumento di pressione.

Una delle migliori strategie per superare i primi due potenziali ostacoli è quella di trasformare l’idea di “impegno” in quella di “intenzione”. L’idea di intenzione è meno tirannica di quella di impegno. Contiene più grazia e più perdono (n.d.t.: Pensate alla differenza tra “commitment/impegno”, che implica l’idea di impegnarsi come in una promessa riguardo al raggiungere un obiettivo, e “intention/intenzione” che invece rimanda a interesse, curiosità, voglia di andare verso). Guardando più da vicino il terzo ostacolo provate a fare questo esercizio scritto: riflettete e scrivete i casi che riuscite a ricordare in cui non avete chiesto aiuto ma, col senno del poi, sarebbe stato utile farlo. Ritornate a quel momento e ripensate a quello che avreste potuto dire o chiedere. Provate a dire a voce alta e ad ascoltare cosa avreste detto. Come vi fa sentire? E nel presente in quale situazione potreste chiedere aiuto?

In questo modo aumenterà la vostra consapevolezza di come il bisogno di sembrare in controllo vi abbia impedito di chiedere aiuto. Quando iniziate a fare pratica sul chiedere aiuto fatelo come se fosse un attore che ripassa le proprie battute. Fare questo esercizio può aiutarvi a creare una nuova percezione di voi stessi: una persona che può chiedere aiuto e che lo fa.

Il quarto ostacolo della lista potrebbe essere il più difficile. Abbandonare le vostre tendenze perfezioniste vi farà sentire come se vi toglieste l’armatura mentre siete nel bel mezzo di una battaglia – le avete usate come strategia di adattamento per tanto tempo, anche se erano controproducenti. Tenere un diario è uno dei modi migliori per iniziare a buttare giù sulla carta quando, dove e come si è tentati di rimettersi questa maschera. Sarà più facile prevedere i momenti in cui si rischia di vacillare. Se questo succede ricordatevi delle complesse ragioni che stanno dietro a questo comportamento abituale e cercate di trattarvi in modo compassionevole.

Il quinto punto della lista è un promemoria che vi ricorda che affrontare il vostro perfezionismo non sarà facile e che potreste dover interrompere questo lavoro per un po’ e occuparvi del peggioramento di sintomi clinici di ansia o di altri disturbi. Se siete preoccupati chiedete l’aiuto di un professionista della salute mentale. Ma non demoralizzatevi – ricordatevi che la guarigione è un processo, non una destinazione da raggiungere; avete bisogno di stare al sicuro mentre guarite.

La terza fase: confronto

Parliamo della differenza tra le convinzioni personali e le regole. Le regole che vi date governano il vostro comportamento. E voi accettate le vostre convinzioni come se fossero vere. Le due cose interagiscono ed è probabile che le vostre convinzioni influenzino le regole che vi ponete. Allo stesso tempo le regole che seguite possono limitare o ampliare le vostre convinzioni. Per esempio potreste avere una regola che dice: “Cercherò di essere sempre sorridente”. E questa regola potrebbe essere collegata alla convinzione “Non piacerò alla gente se non sorrido”.

La fase del confronto consiste nell’identificare le regole con le quali vivete, magari senza rendervene conto – ciò che vi permettete o vi proibite, cosa dovreste fare, cosa dovete fare, cosa si dovrebbe sempre fare, cosa non bisogna mai fare. Sono sempre nella vostra testa, ma sono ancora regole che volete seguire? Potrebbero essere regole dettate dalla vostra famiglia, dalla cultura in cui vivete, dai pericoli che vi circondano, da ciò che ci si aspetta da voi – potrebbero essere non esplicite ma sottese.

Se decidi che una regola non ti è più utile scrivine una che potrebbe prendere il suo posto. La consapevolezza di poter sostituire una regola con una nuova può essere liberatoria. Potete iniziare a vedere come la vita può essere vissuta con più libertà, e questo può cambiarla.

La quarta fase: connessione

Se avete intrapreso questo viaggio e ne state seguendo le fasi può essere che stiate diventando molto più consapevoli della vostra vulnerabilità. Può essere terrificante pensare di entrare in contatto con sentimenti che avete a lungo soppresso. Potreste aver pensato che sembrare in controllo, compiacere gli altri, tenere sempre il piede sull’acceleratore, vi abbia protetto. Confrontare a testa alta la vergogna, entrare in contatto con la rabbia, ammettere la fatica, potrebbe farvi sentire fin troppo esposti.

Pensate a una tartaruga. Ad ogni segno di pericolo tira dentro la testa e aspetta. Allo stesso modo se siete inclini al perfezionismo distruttivo, causato da un passato difficile, è probabile che anche voi tendiate a ritirarvi nel primo guscio che trovate quando si risvegliano sentimenti dolorosi.

Il libro di Terrence Real I don’t want to talk about it ha una citazione appropriata su questo. Il terapeuta sta parlando della vulnerabilità emotiva con un paziente che sta cercando di capire perché è importante affrontare le proprie emozioni difficili. Questi alla fine dice “O lo senti o lo vivi, giusto? Il dolore: o sentirlo o viverlo. E’ questo che vuoi dirmi, vero?”

Il paziente ha colto il punto: se non ti connetti ed elabori il tuo dolore emotivo, la rabbia o la tristezza, questi governeranno la tua vita in modi che non puoi vedere – finirai per viverla alla cieca.

Se vi sentite sicuri e protetti e avete a portata di mano un aiuto in caso di bisogno, ecco un esercizio che vi aiuterà a connettervi meglio con le vostre emozioni difficili. (Per favore non fatelo da soli se avete un grave trauma nel passato. Avrete bisogno della guida e del sostegno di un esperto per entrare in contatto in modo sicuro con quel dolore).

Create una linea temporale disegnando una riga orizzontale divisa per età (anni): scrivete 2, 4, 8, 12, 20, ecc. Tornate indietro ai vari anni e scrivete le cose buone e quelle dolorose che vi sono capitate. E’ un esercizio di riconoscimento, non di biasimo. Riconoscete il buono, il cattivo e il brutto. Ci vorrà del coraggio per affrontare la negazione che potrebbe ancora emergere e protestare dicendo: “Beh… non era poi così male”. Non vi state lamentando, state riconoscendo le conseguenze emotive o il peso di un evento con la stessa compassione che mostrereste per qualcun altro. Comincerete a vedere schemi e connessioni fra gli eventi. Se tutto va bene questo vi aiuterà ad essere più comprensivi nei vostri confronti.

Questo esercizio può essere molto efficace. Mentre tornate indietro e scoprite le cose che vi hanno reso ciò che siete – sia i doni che avete ricevuto, sia i talenti e le capacità che vi hanno portato a dei risultati positivi – state anche riconoscendo il dolore del passato, quello che avete minimizzato o negato, dimenticato o evitato. Vi state permettendo di riconoscere che siete la somma di tutte le vostre esperienze. L’auto-compassione – riconoscere l’impatto di qualsiasi dolore abbiate provato e offrirvi la stessa gentilezza che avreste avuto per un altro – vi darà forza. Non serve più nascondersi. Potete accettare tutto quello che c’è. E tutto di voi stessi.

Nella precedente fase di confronto e in questa di connessione troverete il “motivo per cui” avete iniziato a dover sembrare perfetti. Usando come fondamenta gli esercizi che avete appena fatto, chiedetevi quali messaggi avete ricevuto nel passato sul vostro valore e su quanto le vostre relazioni erano sicure. E cominciate a capire che non dovete più vivere secondo le vecchie regole o fuggire dal dolore. La connessione con il dolore insegna che potete tollerarlo e che le vostre vulnerabilità non vi definiscono più di quanto lo facciano i vostri successi.

La quinta fase: cambiamento

Nei miei anni da clinica ho imparato i benefici dell’intuizione (che spero sia aumentata anche per voi dopo la fase di connessione e leggendo questa guida). L’intuizione (insight) crea un contesto e una comprensione. Ma la vostra speranza viene da un cambiamento di comportamento, cioè dal vedere i risultati positivi degli sforzi che state facendo. Questa fase finale è per trovarla.

Ecco quindi un ultimo esercizio: esaminate i dieci tratti che ho elencato e che sono associati alla depressione alimentata dal perfezionismo. Con degli amici fidati, con il vostro compagno/a, con un genitore o con un terapeuta, pensate a dei modi specifici per mettere all’opera le vostre intuizioni e rischiate un cambio di comportamento: vivere diversamente ogni giorno, prendere qualche decisione inconsueta, trattarvi con più gentilezza. Scegliete il cambiamento che vi sembra più semplice e provatelo. Non è qualcosa che dovete fare alla perfezione. Ricordatevi che siete in viaggio.

Spesso qualcuno entra in una seduta di terapia esordendo con: “Beh, ho provato a fare qualcosa di nuovo ma non è stato un granché.” Dico loro che ogni cambiamento in una direzione che si desidera è una gran cosa. Questa fase permette di scegliere ogni piccolo passo che si è pronti a fare, che sia dire di no, di permettere a qualcun altro di condurre il gioco o di rischiare di confidarsi con un amico. Vi chiede anche di apprezzare appieno questi cambiamenti.

Punti chiave

  • Se siete una persona con un tratto di perfezionismo positivo che è orientato al processo e alla ricerca dell’eccellenza, usatelo. Godetevelo e prosperate.

  • Al contrario il perfezionismo distruttivo comporta una concentrazione ossessiva su obiettivi irrealistici e ho individuato una sindrome che chiamo “depressione perfettamente nascosta” in cui lo sforzarsi di apparire sempre perfetti è una strategia controproducente che maschera un passato difficile e una vulnerabilità emotiva. Se vi identificate con questa descrizione sappiate che c’è una via di uscita. Non è facile, ma se siete pazienti con voi stessi potete farcela.

  • Il rimedio che io propongo si basa su cinque fasi interattive: consapevolezza (riconoscere il problema); impegno (superare gli ostacoli al cambiamento); confronto (cambiare le regole inutili con cui si vive); connessione (elaborare i sentimenti difficili che alimentano il proprio perfezionismo); e cambiamento (riconoscere e celebrare i propri progressi).

  • Potreste riconsiderare le relazioni inutili che vi impediscono di ottenere un cambiamento positivo. Potreste per esempio fissare nuovi confini.

  • Vale la pena lottare non nonostante le vostre imperfezioni ma per esse. Vale la pena volersi bene, non per quello che si fa ma per quello che si è.

Per saperne di più

Vari ricercatori in giro per il mondo stanno indagando le cause del perfezionismo, siano esse culturali, politiche, famigliari, sociali o un insieme di tutti questi fattori. C’è un certo disaccordo sul fatto che il perfezionismo sia un comportamento adattivo o quasi sempre disadattivo.

Tra i diversi tipi di perfezionismo distruttivo descritti in letteratura ci sono: il “perfezionismo auto-orientato” che spinge all’estremo; il “perfezionismo orientato all’altro” che consiste nell’aspettarsi il perfezionismo dagli altri; il “perfezionismo socialmente prescritto” caratterizzato dal sentire il bisogno di soddisfare le alte aspettative percepite degli altri. Quest’ultimo è il più pericoloso perché è associato con la tendenza al suicidio.

Ci sono anche altre distinzioni terminologiche. Ad esempio in una meta-analisi pubblicata nel 2020 gli autori hanno distinto tra “preoccupazioni perfezionistiche” (che includono il tentativo di raggiungere obiettivi/aspettative esterne fissate dagli altri, questa tendenza è simile al “perfezionismo socialmente prescritto”) e “sforzi perfezionistici” (spingersi alla perfezione come nel “perfezionismo auto-orientato”). Si è scoperto che entrambe queste forme di perfezionismo sono legate alla depressione e alla disconnessione sociale e che la preoccupazione perfezionistica è associata a un maggiore stress.

In generale tutti i tipi di perfezionismo distruttivo sembrano essere in aumento e molti studi lo associano alla tendenza al suicidio. Il tasso di perfezionismo malsano nelle giovani generazioni è particolarmente preoccupante e ci sono delle ricerche che lo considerano fuori controllo.

Spero di avervi aiutato a capire come il perfezionismo, che può sembrare una virtù, possa essere dannoso. Se credete di mostrare i segni di un perfezionismo malsano e soprattutto di una “depressione perfettamente nascosta” penso che gli esercizi di questa guida possano aiutarvi a creare un altro modo di vivere o di essere.

Tuttavia il lavoro più difficile non è fare un cambiamento ma mantenerlo. Ci sono così tanti tira e molla causati dalla voce perfezionista che crea vergogna, che mantenere una prospettiva e un comportamento nuovo diventa una vera sfida. Ma ci si può arrivare; ci vuole pratica, molta.

Inoltre a volte le persone nel vostro ambiente non sopportano i cambiamenti che avete fatto e può essere che vogliate riconsiderare le relazioni che sono troppo dannose e fissare dei limiti appropriati in quelle che rimangono.

Per esempio, può darsi che la vostra famiglia continui ad aspettarsi che facciate qualcosa per loro senza tenere conto dei vostri bisogni. Forse spendete ore al telefono con amici che richiedono tutta la vostra attenzione o che vi dicono cosa farebbero senza di voi. Può anche essere che le persone intorno a voi si siano così abituate a vedervi lavorare tanto e a dare troppo senza chiedere niente in cambio. Valutate se queste relazioni possono o meno nutrire il vostro “nuovo sé”, e dove serve stabilite nuovi confini.

Vale la pena lottare per voi stessi, non nonostante le vostre imperfezioni ma per esse. E vale la pena amarsi non per quello che si può fare ma per quello che si è. Si cresce e si acquisisce una vera forza non quando si sembra in controllo ma quando ci si accetta e si è in grado di ascoltare ogni parte di sé.

“… e in tal modo il bambino inganna l’uomo”

“E gli alberi votarono ancora per l’ascia,
perché l’ascia era furba e li aveva convinti che era una di loro,
perché aveva il manico di legno”
Proverbio turco

Le metafore veicolano significati attraverso immagini. Posso prendere quella dell’incipit e chiedermi cosa rappresenta chi al suo interno. Facendolo dal mio punto di vista, che è quello dello psicologo clinico, non posso non riflettere sull’identificazione e sul ruolo che essa gioca nella costruzione della personalità.

Molti dei pazienti con cui mi capita di ragionare su questo proverbio si mettono spontaneamente al posto di uno degli alberi e parlano di quanto si sentano più o meno plagiati dall’ascia: quanto credono che i loro pensieri siano originali e quanto sono più o meno sicuri che, alle prossime elezioni, voteranno in scienza e coscienza decidendo con la propria testa. Quasi nessuno si identifica con l’ascia o si addentra nella similitudine che, a mio parere, è il nocciolo della questione: il manico di legno, ciò che l’ascia usa come strumento di persuasione.

In fondo il primo passo verso l’identificazione lo compie l’ascia. È lei che dice “io sono come voi”. Facendolo, propone un’affinità. 

Uno degli istinti primordiali dell’uomo è quello aggregarsi con chi gli assomiglia. Il cucciolo resta nei pressi dell’adulto e, se anche si allontana, torna appena sente il bisogno di protezione o di rifugio. Identificarci con chi si è preso cura di noi è stato il nostro modo per  crescere. Abbiamo imitato i nostri genitori per apprendere e per fare nostre certe caratteristiche che ci sono servite per essere in grado di muoverci nel mondo indipendentemente da loro. 

Insomma: c’era un’affinità che ha favorito un processo di sviluppo che ha portato a un’autonomia. Se oggi mi imbatto in un percorso simile e se chi me lo propone è come me, se lo riconosco come parte della mia famiglia o del mio gruppo, beh, allora sarà probabilmente un buon percorso. 

Peccato che, come disse Dryden: “I più sono stati sviati dall’istruzione/ credono a questo e quello perché così li hanno educati./ Il prete continua ciò che iniziò la balia,/ e in tal modo il bambino inganna l’uomo.” Questo l’ascia lo sa bene e gli alberi… molto meno. Il problema è che “l’ascia è furba” ma il vero guaio, da un punto di vista psicologico è che gli alberi non sono veramente adulti

Raccontava Hillman in una conferenza della metà degli anni’90 che la maggior parte degli americani a cui fu chiesto che età avrebbero voluto avere se avessero potuto tornare indietro nel tempo rispondeva dicendo che gli sarebbe piaciuto avere tra i 16 e i 18 anni, l’età del college, quella in cui l’imitazione è una sorta di obbligo e in cui il pensiero viene considerato essenzialmente un limite all’azione. 

L’età in cui un’ascia furba vuole che gli alberi si fermino perché è più facile controllare un adolescente che non vede l’ora di agire che un adulto che si ferma a pensare. 

Naturalmente non parlo solo di età anagrafica ma, piuttosto, di disposizione mentale. Concordo con Chiara Valerio quando  nel suo La matematica è politica, scrive: “De Finetti diceva che l’incertezza non è eliminabile, solo misurabile. Il primo errore di valutazione nelle cose siamo noi. A vent’anni, non ero disposta ad accettarlo, non avevo smantellato la sovrastruttura di certezze alla quale davo il nome di idealismo.(…) A vent’anni, non ero disposta ad accettare che l’errore è la nostra caratteristica principale. Oggi, a quaranta, mi pare confortante.”

Un adulto sa stare nell’incertezza: sa adottare quella che Keats chiamava Capacità Negativa, può tollerare la frustrazione di non sapere e riesce ad applicarsi su un problema trattenendo l’impulso di buttarsi sulla prima certezza che gli viene offerta da… un’ascia qualsiasi. 

Non è una posizione facile da tenere ma è il principale antidoto contro l’identificazione, la cura che ci permette di differenziarci, non per sentirci migliori ma per mantenerci pensanti. 

Il primo passo di un potenziale dittatore, subito dopo averci fatto credere di essere uno di noi, è quello di chiederci di assomigliargli sempre di più: vestirci in un certo modo, ripetere i suoi slogan, “fare come fa lui”. Sa che se ci convince a prendere una certa postura avrà il nostro voto. Per questo occorre pensare sui nostri gesti e capire quali ci appartengono e quali, invece, sono solo imitazioni e ripetizioni.

È una strada faticosa ma, facendola, ci si imbatte in pensieri davvero pensati, in idee originali e solitudini feconde.

Podcast5: Il Ricettivo

“Primo, c’è l’umiltà; e non la propongo come principio morale,
sgradito a un gran numero di persone,
ma semplicemente come elemento di una filosofia scientifica”
G. Bateson

Un Podcast, caro Watson, sulla differenza fra vedere e osservare.

 

Podcast4: Storie che curano

“Il modo in cui raccontiamo la nostra storia
è anche il modo in cui diamo forma alla nostra terapia”
P.Berry

In che modo le storie possono curare? E si può curare una storia?

James Hillman completa la frase di Patricia Berry dicendo: “Il modo in cui immaginiamo la nostra vita è anche il modo in cui ci apprestiamo a viverla, perché la maniera in cui diciamo cosa sta accadendo è il genere per il cui tramite gli avvenimenti diventano esperienza. Non ci sono nudi eventi, fatti chiari, semplici dati; anche questa, semmai, è una fantasia archetipica: il semplicismo della natura bruta (o morta).”

Insomma, le storie determinano la qualità degli eventi. Ne parlo in questo podcast.

Podcast3: Legame K

Può darsi che proprio quando non sappiamo più
cosa fare siamo arrivati alla nostra vera opera,
e che quando non sappiamo più dove andare
siamo arrivati al nostro vero viaggio.
La mente non perplessa non si adopera.
Il torrente ostacolato è quello che canta”
Warren Berry

Continuo il discorso sui legami parlandovi del legame K e accennando a un’antica missione impossibile che proprio per la sua impossibilità ci insegna una disciplina fondamentale.