Category Archives: Saggi semiseri

Confini dell’Io

“Se sei triste quando sei da solo probabilmente sei in cattiva compagnia”
J.P.Sartre

C’è un passaggio di Infinite Jest  che racconta di un vecchio allenatore che passeggia con un ragazzo nei campi dell’Accademia del Tennis. Il primo sta in parte rispondendo ad una domanda del secondo e in parte riflettendo tra sé e sé sull’agonismo e sul gioco del tennis come metafora. Dice: “Il vero avversario, la frontiera che include, è il giocatore stesso. C’è sempre e solo l’io là fuori, sul campo, da incontrare, combattere, costringere a venire a patti. Il ragazzo dall’altro lato della rete: lui non è il nemico: è piú il partner nella danza. Lui è il pretesto o l’occasione per incontrare l’io. E tu sei la sua occasione”.

Tanti dei racconti di lotta che mi capita di sentire mentre ascolto i miei pazienti sono solo in apparenza partite contro l’altro o contro un qualche tipo di ostacolo esterno. Certo c’è sempre un antagonista: un capo tiranno sul lavoro; un possibile partner perfetto che non la vuole capire di tirare fuori le caratteristiche che, finalmente, soddisferebbero i desideri del soggetto; un alleato che ha tradito; una scalata in cui gli appigli scompaiono; un deserto in cui non si fanno incontri significativi; selve più o meno oscure.

In terapia l’oggettività di ognuno di questi ostacoli viene messa in discussione. Non per negarne l’esistenza ma per distinguere: per togliere all’oggetto un po’ del suo potere e per mettere in evidenza il soggetto, l’Io. Poi, siccome l’oggetto di studio della Psicoterapia è proprio (e necessariamente) l’Io, anche questo va messo in discussione. Diceva Bateson che il primo atto epistemologico (il primo “gesto” che permette di indagare qualcosa per conoscerlo) è la creazione di una differenza. Differenziando posso cominciare a distinguere e a separare, posso catalogare, creare degli insiemi, combinare elementi, distribuirli, ecc.

In seduta questo gesto quasi violento che permette di fare a pezzi l’oggetto di studio viene compiuto seguendo l’invito di Freud che in Introduzione alla Psicoanalisi diceva: “Nostro desiderio è fare oggetto di indagine l’Io, il nostro Io più intimo; ma è possibile? L’Io è il soggetto per eccellenza, come può diventare oggetto? Ora, non vi è alcun dubbio che questo è possibile: l’io può prendere come oggetto sé medesimo, trattarsi come altri oggetti, osservarsi, criticarsi e fare di se stesso Dio sa quante altre cose ancora…”

Inizia così, con questa scissione tra una parte che osserva e una che viene osservata, quello che in una sfida agonistica avviene stabilendo che dall’altra parte c’è un avversario. Invece di scendere in campo per sfidarci potremmo stare seduti e bere qualcosa mentre chiacchieriamo amabilmente, potremmo semplicemente confermare ciò che siamo così come si fa quando si scambiano dei convenevoli: “Tutto bene? E la famiglia? Tutto a posto, e tu?”

E invece, invece si decide di giocare e mettendosi in gioco si evidenziano dei limiti, si comprendono dei punti di forza, si scoprono delle debolezze. Su di sé e sull’avversario, sull’avversario e su quel soggetto intermedio che è “un po’ l’altro e un po’ me”. Nel gioco si alternano gli sforzi per essere una forza irresistibile o un oggetto inamovibile, una da una parte e l’altro dall’altra. Succede ai cuccioli che lottano, ai lottatori che si sfidano e, con gradi progressivi di serietà e di rischio, ai contendenti e ai nemici.

Se si chiede a un giocatore “chi o cosa c’è dall’altra parte?” la risposta naturale sarà: “l’altro, la persona o la cosa con cui mi sto misurando”.  È ovvio che sia così perché la scissione/separazione è ciò che rende possibile il gioco.

In terapia le cose sono un po’ diverse perché appena ci si astrae e si pensa al gioco, appena ci si tira fuori dal conflitto e, smettendo di essere una delle parti, si dà inizio alla riflessione, la risposta diventa più complessa. Le due parti, il soggetto e l’oggetto si confondono e diventa evidente che la sfida è, innanzitutto, con se stessi.

Possiamo osservare l’Io su un continuum che va dal sonno profondo a uno stato di massima allerta. Sono gradi diversi di attenzione e di consapevolezza e ad entrambi gli estremi l’Io scompare: nel sonno profondo non c’è nessun osservatore e negli stati di lucida attenzione, quelli in cui ci si perde nel flusso dell’azione e della percezione, non c’è distanza tra sé e l’oggetto. Tra questi due confini incontriamo cose e persone che vengono percepite diversamente, a seconda della qualità della nostra attenzione.

Pensateci: vicino al sonno profondo si incontrano oggetti e personaggi che popolano i sogni, figure di mezzo con forme mutevoli, che possono continuamente trasformarsi; man mano che ci si sveglia e si esce dal torpore, compaiono le persone, gli altri in carne ed ossa con il loro  determinismo e con cui è necessario relazionarsi: è il luogo in cui l’attenzione segue le regole dell’affinità (vicinanza/distanza, protendersi/ritirarsi), della comunicazione (aperto/chiuso, esprimersi/celarsi), della realtà  (condivisione/separazione, accordarsi/dissentire) e così via fino all’altro estremo in cui l’Io scompare in una trance agonistica, in un’estasi amorosa o in un momento di intensa creatività.

Il motivo per cui è piacevole andare verso i bordi di questo continuum è perché lì l’io tende a scomparire e, spesso, è un sollievo essere nessuno!

Nel mezzo c’è la valle dell’Io che è il luogo in cui i giochi possono svolgersi e in cui si sperimentano emozioni e modi di essere. È anche il posto in cui ci si può annoiare: meno c’è gioco più aumenta la noia, più il gioco diventa interessante più si sente che l’io può essere in qualche modo trasceso. Nel sonno profondo e nella sfida più intensa anche la noia e il gioco stesso tendono a scomparire. E l’Io con loro.

Si può riflettere sulla propria posizione con la vecchia domanda psicologica: “Dove sono?”.
Quanto sto dormendo? Quanto sono sveglio? Quanto sono vicino ai bordi?

Immagine tratta dal Libro Rosso di C.G. Jung (particolare)

You can’t (always) get what you want

Il micro-dialogo della vignetta è, in origine, una frase di Anna Freud che quasi facendo eco alla convinzione del padre, secondo cui “Il nostro desiderio è sempre in eccesso rispetto alla capacità dell’oggetto di soddisfarci”, dice, appunto, che le uova nella fantasia sono sempre cotte a puntino ma rimangono là, nel regno delle cose perfette, immaginabili ma non mangiabili.

Penso che gran parte della psicoterapia lavori proprio sulla distanza tra ciò che un paziente si aspetta e ciò che ottiene. Crede (o gli han fatto credere) di dover essere una certa persona o di dover fare certe cose per avere soddisfazione, per placare il desiderio e dire “ecco, ho ottenuto ciò che volevo”.

Ogni primo colloquio, ogni primo incontro con un paziente e con i suoi sintomi è, in fin dei conti, un incontro con un desiderio non soddisfatto: un ascolto di quanto sia doloroso non poter essere in un certo modo, non poter avere certi oggetti o persone, certi stati d’animo, condizioni, capacità, equilibri. Il dolore di non poter stare vicini a ciò che ci piace e quello di dover stare in prossimità di ciò che detestiamo, la brama dolorosa del non poter raggiungere e la penosa avversione del non potersi togliere.

Non c’è paziente con cui non abbia lavorato sulla distanza fra immaginazione e realtà, fra aspettativa e risultato. E il dolore… il dolore, così come il desiderio, non è  mai veramente azzerabile: rimane, si sposta e, se la terapia funziona, diventa sensato!

Smette cioè di essere un dolore nevrotico.

Ho appena corretto un lapsus calami: avevo scritto “smette di diventare un dolore nevrotico”. Come spesso capita, l’inconscio è “più preciso e più puntuale”: la sofferenza che trattiamo in psicoterapia è qualcosa che “diventa”, qualcosa che è così perché, proprio come il rimuginio, come le ossessioni e come le compulsioni, viene continuamente ripetuto, messo in esistenza da un’istanza che non è mai contenta di come le uova sono state cotte e che misura il divario tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere.

È in quello spazio che nascono i rimpianti (se avessi fatto diversamente avrei ottenuto uova migliori), i sensi di colpa (che uova orrende ho cucinato), le ossessioni (proverò fino allo sfinimento, fino alle uova perfette), il senso di fallimento con il lutto e gli stati depressivi, l’ansia da prestazione con il panico del non essere all’altezza, la mania (le mie uova saranno perfette e tutti dovranno riconoscerlo).

Ed è in quello spazio che si può meditare sul senso: vedere cosa causa il dolore e quando la sofferenza sia dovuta allo sforzo del procedere o all’ostinazione del ripetere.

Chiedo spesso ai miei pazienti: “chi o cosa produce il dolore di cui mi stai parlando?”. All’inizio, nelle prime sedute, credono di dover trovare una risposta sensata, poi capiscono che la domanda non è un che modo per pensare insieme.

Si possono dare molte risposte: si può attribuire il dolore all’educazione, alla chimica, ai cattivi incontri, alle proprie incapacità. Si può riflettere sui rimedi tentati e sul loro fallimento (se siamo qua a parlarne è perché, ancora una volta, le uova non sono ben cotte).

Ma, alla fine (e tornando a Freud) perché mai un oggetto dovrebbe soddisfarci? Dove nasce questa pretesa? Quanto questo bisogno di avere ciò che vogliamo è davvero il problema? Cosa faremmo se fossimo per una volta pienamente soddisfatti? Lo vogliamo veramente o scappiamo gambe levate appena intravediamo la piena realizzazione di un desiderio? Davvero vorremmo abbattere la barriera tra immaginazione e realtà? Avere un oggetto “perfetto”?

Credo che su queste cose convenga interrogarsi. Farlo è spesso un buon modo per cominciare un lavoro  serio sulla sofferenza mentale.

E mi sembra un buon impiego dell’energia psichica,  intanto che le uova vanno avanti a cuocersi.

Sul buon uso degli ostacoli

“Io so cos’è una cosa o chi è qualcuno scoprendo ciò che si interpone tra noi”
Adam Phillips

Primo atto del Riccardo Terzo di Shakespeare: uno dei due assassini inviati da Riccardo per uccidere suo fratello, il Duca di Clarence, parlando con il complice che azzarda dubbi sull’opportunità di colpire un innocente, dice: “La coscienza è un compunto spiritello dal volto sempre rosso di pudore, che fa il ribelle nel petto dell’uomo creando all’uomo una massa di ostacoli.”

In quanto ostacolo la coscienza di un bravo sicario va repressa: superata per far sì che egli possa raggiungere l’obiettivo di uccidere la vittima designata.

In questa scena il sicario è il soggetto, la vittima è l’oggetto e la coscienza è l’ostacolo. Se applicassimo come un teorema la frase dell’incipit potremmo dire che l’assassino percepisce chi ha di fronte a seconda dell’ostacolo che si trova a dover superare. La persona diventa la mia vittima se ciò che devo superare per interagire con lui o lei è… solo la mia coscienza, solo un’istanza interna che posso zittire o ascoltare e che, a seconda di come entro in relazione con essa, determinerà la percezione di ciò che mi sta davanti. Se accetto che la coscienza sia un ostacolo non sarò più un omicida e la vittima smetterà di essere tale ma se riuscirò ad ignorarla niente si metterà fra me e il mio obiettivo e anche le mie percezioni saranno diverse: di fronte non avrò più un altro essere umano ma un oggetto, qualcosa su cui è facile smettere di riflettere.

L’ostacolo crea la differenza. Mettendosi in mezzo rallenta l’azione e quasi costringe a pensare.

In terapia si osserva una massiccia presenza di ostacoli  nella depressione e una loro patologica assenza negli stati maniacali. Ho visto persone depresse immobilizzarsi davanti a scelte banali inventando ostacoli su ostacoli. Ragionamenti tipo: “ma poi, se vado… anche se mi hanno invitato magari sperano che non vada… lo so, lo sento che darei fastidio; posso dire che sto male e stare a casa ma farò la solita figura di quella che rifiuta gli inviti… ecco se non vado starò male ma non me la sento di andare, sono disperata…”. E ho assistito a deliri maniacali in cui niente poteva fermare l’ideazione grandiosa: “sì, vabbè, non ho studiato niente ma risolverò tutto, non ho  nemmeno un piano ma inventerò al momento, non possono non capire che sono la persona perfetta…”.

Tra questi  due estremi, tra la completa assenza di spazio e la terribile costrizione del depresso grave e le sterminate praterie dei deliri del maniaco, si delinea un continuum in cui gli ostacoli diventano, per uno psicoterapeuta, una benedizione: qualcosa su cui iniziare un discorso e immaginare un progresso.

“Quando in analisi ‘spacchettiamo’ gli ostacoli –quando pensiamo agli ostacoli come a una via e non come a qualcosa che sta in mezzo alla via –li troviamo, come il vaso di Pandora, pieni di cose insolite e proibite.” (Adam Phillips)

Spacchettare è riflettere. È sia smettere di vedere l’ostacolo nel modo in cui lo vede  il maniaco, come qualcosa da rimuovere senza precauzioni, un contrattempo da distruggere con la volontà, sia evitare di soccombere di fronte ad esso come il depresso che lo trasforma in un’insormontabile costrizione.

Le cose insolite e proibite che si scoprono insieme al paziente in questo lavoro sugli ostacoli sono tutte connesse al desiderio perché non esiste ostacolo senza desiderio e perché gli ostacoli sembrano fatti apposta per attivare il desiderio.

“Cosa voglio superare? Cosa c’è di là, dall’altra parte di ciò che ora  mi impedisce di sentirmi ‘bene’? Chi mette l’ostacolo? Voglio davvero toglierlo? Davvero starò bene senza di esso o il vero gioco è  nel progetto, nell’insieme di cose che devo mettere in atto per superarlo?”

Guardare gli ostacoli ponendosi queste domande è un modo per pensare ad essi come a degli strani oggetti che ci possono rivelare cose su noi stessi e su cosa vogliamo. È anche un modo per curare la mancanza di pensiero. Sia quella tipica della sindrome maniacale che si limita all’andare oltre senza riflettere, sia quella degli stati depressivi in cui il pensiero si riduce a sterile ruminazione.

Quanto curiosi siete quando state per spacchettare un regalo?

La curiosità è, insieme al desiderio, uno degli ingredienti fondamentali per  sviluppare la capacità di vedere gli ostacoli non come qualcosa che ostruisce la via ma come la via stessa. È anche ciò che ci ricorda che “la prima relazione non è con gli oggetti ma con gli ostacoli”.  Ogni oggetto ci è stato dato impacchettato: sempre abbiamo dovuto protenderci verso qualcosa, sempre è stato necessario muoversi per attraversare uno spazio, anche da infanti, per raggiungere il seno. E per incrociare uno sguardo o per farsi sentire.

Nella relazione con l’ostacolo (prima ancora che con quella con l’oggetto) si possono escogitare modi per esaudire desideri difficili. Molto spesso la saggezza sta non nell’eliminazione di ciò che sta in mezzo ma nella capacità di vederlo come una risorsa: cosa insolita e curiosa, significativa, promettente…

Il buon uso degli ostacoli.

Sogni e preoccupazioni

“Dobbiamo cercare di trattare le preoccupazioni nello stesso modo
in cui trattiamo, senza alcuno sforzo, i sogni: ossia dimenticandole”
Adam Phillips

Un mito Romano, ripreso e reso celebre da Heidegger in Essere e Tempo, racconta che un giorno la Cura camminando in prossimità di un fiume scorse un mucchio di argilla e, quasi automaticamente, cominciò a modellarla ricavandone la figura di un essere umano. Trovandola molto bella chiese a Giove di infondere in essa lo spirito vitale. Giove lo fece ma poi fra i due sorse una disputa su chi avesse dovuto dare un nome alla nuova creatura. Al contendere si aggiunse la Terra che disse che, sì, Cura aveva dato forma al fango e Giove vi aveva infuso l’anima ma era stata lei, madre terra, a fornire tutta la sostanza di cui l’uomo era fatto. Non trovando un accordo interpellarono il dio Saturno perché facesse da arbitro. Questi sentenziò che alla morte dell’uomo Giove si sarebbe ripreso lo spirito e la Terra sarebbe rientrata in possesso del corpo. Ma, finché era in vita, sarebbe stata Cura ad occuparsi di lui. Quanto al nome, visto che era stato modellato dal fango, humus, si sarebbe chiamato Uomo.

La cura è quindi, prima della morte e nel tempo della vita (non a caso tenuto ben presente da Saturno/Cronos), la compagna dell’uomo, colei che se ne occupa lungo il tragitto che lo definisce, appunto, un abitante del tempo.

La preoccupazione è una sorta di sorella patologica della cura: insieme all’inquietudine anticipa il tempo e cerca di curare preventivamente, di pre-vedere e di controllare ciò che potrebbe accadere. Facendolo, cercando di avere controllo su qualcosa che non è ancora successo o che è distante e quindi non gestibile, spesso riempie il presente di ansia senza spostare una virgola nel futuro.

Ho visto pazienti usare tantissima energia psichica nel tentativo di rendere meno inquietante un futuro che immaginavano catastrofico senza rendersi conto della proiezione: quel gesto inconscio che aggiunge caratteristiche e attributi ad uno scenario che è innanzitutto mentale. Per me che osservo dal di fuori sembra ovvio che, mentre lo fanno, sono come in un sogno. Vedo bene quanto il quadro che immaginano sia una costruzione e quanto gran parte delle ansie e degli “eventi” che prevedono siano nient’altro che una messinscena spesso dolorosa e, talvolta, autoavverante.

Le profezie che si autoavverano sono come dei sogni che diventano incubi grazie alla preoccupazione. Una persona comincia a preoccuparsi di qualcosa e… va in sbattimento: comincia a dimenarsi e ad esercitare una presa diversa sugli eventi. Prima su quelli mentali: ciò che immagina che succederà sicuramente, ciò contro cui comincia già a prendere delle contromisure; poi su quelli relazionali: le persone su cui decide di esercitare la propria cura/controllo, le situazioni che vanno assolutamente evitate, i nemici alle porte, le malattie, le catastrofi, ecc.

Siccome “la cosa più facile è dimenticare un sogno e ricordare una preoccupazione” l’antidoto a questo crescendo di ansia è svegliarsi!

Cosa succede alla maggior parte dei sogni appena vi svegliate? E cosa state facendo mentre vi preoccupate? Quale è il tipo di attenzione che differenzia un sogno sfuggente da una preoccupazione appiccicosa? Perché se in un sogno cominciate a preoccuparvi troppo vi svegliate di soprassalto mentre quando siete immersi in una preoccupazione non vi rendete conto della costruzione dell’incubo che state perpetrando?

Un modo per rispondere è quello di pensare a degli Io diversi. C’è una differenza fra l’Io-sognante e l’Io-che-si-preoccupa. È una differenza che può essere spiegata in termini fisici/neurologici (e ci dedicherò un post) o, soggettivamente, in termini più empirici. Voi che differenza vedete fra il sognatore e il preoccupato? Quale fra i due è rigido e presuntuoso e quale leggero e aperto? Come vi trattate quando vi state preoccupando e cosa fate (non fate) durante un sogno?

Sono domande facili a cui ognuno di noi sa rispondere almeno un po’. Come se vi chiedessi come si fa ad andare in bici. Sono modi diversi di prendersi, gesti abituali più o meno consci, più o meno automatici, su cui si può riflettere e meditare. Ascoltate il vostro respiro la prossima volta che vi preoccupate. Provate a pensare perchè, se nel pieno di una preoccupazione, succede qualcosa che vi sveglia portandovi alla realtà, qualcosa di davvero consistente, la preoccupazione svanisce come un sogno.

Simone Weil diceva che “ogni volta che si presta veramente attenzione si distrugge un po’ di male in se stessi”. Capita che svegliandosi da una preoccupazione ci si accorga che si stava dormendoci dentro. L’ansia svanisce e l’attenzione ha distrutto un po’ di male. Rimane la Cura ma quella può fare molte buone cose.

Dèi gelosi

“Uno dei cardini dell’analisi è che i pazienti con disturbi narcisistici arrivino a una comprensione emotiva del fatto che tutto l’amore che essi si  erano conquistati a fatica, a prezzo dell’autorinuncia, non riguardava affatto l’individuo che essi erano in realtà: l’ammirazione per la loro bellezza e le loro buone prestazioni era rivolta alla bellezza e alle prestazioni di per sé e non al bambino reale. Dietro le buone prestazioni si riaffaccia, nell’analisi, il bambino – piccolo e solo – che chiede: come sarebbe andata se di fronte a voi ci fosse stato un bambino cattivo, rabbioso, brutto, geloso, pigro, sporco e puzzolente? Eppure io ero anche tutto ciò. Ciò non vorrà dire, forse, che non io fui amato, ma ciò che fingevo di essere? Che a essere amato fu il bambino educato, ragionevole, scrupoloso, capace di mettersi nei panni dell’altro, il bambino comodo che non era affatto un bambino? Che cosa ne è stato della mia infanzia? Non ne sono forse stato defraudato? Mai potrò recuperarla. Fin dal principio fui un piccolo adulto”.(Alice Miller, Il dramma del bambino dotato, 1979).

Stavo per chiudere il post à la Forrest Gump con un “e non ho altro da aggiungere a questa faccenda” ma poi mi è venuto in mente un parallelismo che vi racconto solo per rafforzare la riflessione di Alice Miller.

La Ruota della Vita o Ruota del Samsara è una delle immagini più diffuse del mondo buddhista. Raffigura i cosiddetti sei regni dell’esistenza che corrispondono a sei possibili stati di coscienza: modi di essere e di sentire che vengono determinati dalle azioni di una persona e che, di conseguenza, ne caratterizzano lo stato d’animo e la quantità di sofferenza. Secondo il buddhismo le mie azioni (karma) creano lo stato di esistenza in cui mi ritrovo e le mie risposte a questo stato lo rendono un inferno più o meno intrappolante: uno stato in cui posso stagnare o un’occasione per risvegliare in me la consapevolezza. “Uno degli aspetti più avvincenti della visione buddhista della sofferenza è l’idea, insita nella rappresentazione della ruota della vita, che le cause della sofferenza sono anche i mezzi della liberazione; vale a dire che la prospettiva in cui si pone colui che soffre determina se un dato regno sarà veicolo di risveglio o di schiavitù.” (Mark Epstein). In altre parole (e semplificando molto): non è tanto la condizione in cui mi trovo quanto la mia risposta ad essa a determinare quanto io soffra. Il paziente di cui parla la Miller è a buon punto quando comincia a realizzare che le buone prestazioni e l’immagine gradevole di sé sono state delle risposte alle richieste di un ambiente ma non hanno niente a che fare con la sua liberazione.

Quest’ultima inizia, invece, con la consapevolezza dello stato in cui ci si trova nonostante le buone prestazioni. Nella psicologia buddhista il piccolo adulto che si è comportato bene e che  ha compiaciuto le richieste degli  adulti e del mondo si troverebbe probabilmente nel regno degli Dèi gelosi: esseri che come i Titani hanno un discreto potere, persone che hanno raggiunto un buono stato di esistenza ma che non sono felici perché sanno che è fittizio. Vivono nella continua paura di perdere ciò che hanno raggiunto e sanno che il risultato degli sforzi compiuti per raggiungere la meta non ha davvero curato la ferita. E lo sanno perché sentono che qualcosa non è stato ascoltato: esaudire i desideri degli altri e adempiere le loro aspettative ha risolto solo la parte esterna del problema, ha acquietato il mondo ma non ha tolto la fame del bambino. Questa fame rimossa può essere una maledizione o un’occasione di cambiamento: può mantenerci nella ripetizione di comportamenti che soddisfano solo l’immagine o può essere l’inizio di una consapevolezza diversa.

E la consapevolezza non deve necessariamente implicare un cambio di atteggiamento. Non c’è niente di male nell’avere buone prestazioni, non è che riportare alla luce il bambino cattivo e pigro significhi smettere di fare o regredire a uno stato di negligenza i cui “l’immagine non conta niente”.

Il compito è un altro: il bambino dotato può chiedersi cosa riempirebbe davvero il vuoto? Su cosa vale la pena di applicare la propria volontà e la propria intelligenza? Quale immagine va curata?

In ognuno dei sei regni della ruota della vita appare l’immagine di un Buddha che impugna uno strumento che rappresenta l’antidoto: ciò che chi stagna in quello stato di coscienza dovrebbe assumere per “darsi una mossa” e per imboccare la via che porta fuori dall’inconsapevolezza e dalla ripetizione automatica.

Nel regno degli Dèi gelosi lo strumento è una spada fiammeggiante che è la metafora della discriminazione, della coscienza delle differenze, della forza di distinguere.

È ciò che dovremmo impugnare quando ci ritroviamo come dei Titani impotenti in un mondo pieno di buone prestazioni ma che non ci soddisfa davvero.

E non ho altro da aggiungere su questa faccenda.

Immagini psicotrope

“Se non avessimo in noi un essere femminile come faremmo a riposare?”
G. Bachelard

Parlare di cervello-mente o di mente-cervello è uno stratagemma per ricordarsi di non cadere in una finta dicotomia che da lungo tempo affligge il pensiero occidentale: il cosiddetto errore di Cartesio, la fallacia secondo cui il corpo e lo spirito, la mente e il mondo, sono cose separate, entità diverse che rispondono a leggi diverse.

È evidente che non sia così e che ogni volta che parliamo della mente non possiamo trascurare il corpo e viceversa. Questo Bachelard lo sapeva bene e la frase dell’incipit  non va presa alla lettera ma piuttosto usata come un’immagine che ci aiuta a pensare, come un invito a cogliere certi aspetti della percezione, del sentire e del comportamento.

Non c’è “dentro” nessun essere femminile e non troveremo nemmeno un qualche tipo di maschio. Ci sono, invece, nel corpo e nella mente, certi modi di orientarsi e di dirigere l’attenzione che determinano degli stati d’animo, degli stili di pensiero e, infine (e quasi contemporaneamente) dei comportamenti.

Psicotropo significa, letteralmente: capace di alterare l’attività mentale, capace di muovere la psiche e di modificarne il funzionamento. Una sostanza psicotropa viene assunta (e per assumerla si usa il corpo) e muove qualcosa, accelera o rallenta dei processi, sposta resistenze, attiva o disattiva reazioni. Bastano un paio di bicchieri di una bevanda alcolica per sentirsi un po’ meno inibiti e qualche goccia di ansiolitico per darsi una calmata. Sembra, insomma, che basti aggiungere una sostanza dall’esterno per “cambiare dentro”. Quello che sfugge se non si guarda attentamente è che le sostanze psicotrope funzionano perché la psiche è già, di per sé, ‘tropica’: tende già a volgersi da qualche parte, a protendersi in una direzione, ad essere attenta, tesa-verso qualcosa.

“Fin dalle primissime fasi della vita, lo sviluppo sensomotorio e i movimenti vengono appresi e organizzati a livello cerebrale in pattern che permettono di interagire facilmente con l’ambiente. Lo stesso vale per dei complessi sistemi del Sé che internalizzano e integrano pattern affettivi, cognitivi e comportamentali.” (Efrat Ginot, Neuropsicologia dell’inconscio) Detto meno in psicologhese: impariamo una serie di movimenti e li organizziamo internamente come sequenze che possano essere ripetute con facilità e in modo quasi automatico e,  su un altro piano, costruiamo schemi complessi per rispondere emotivamente, con le azioni e con il comportamento, a ciò che ci viene proposto dall’ambiente. Tutto questo succede senza che lo decidiamo. Avviene e… basta.

In profondità, sotto ai pensieri e al comportamento, ci sono dei movimenti: così come abbiamo imparato a muoverci e a coordinarci, abbiamo anche  imparato ad avere a che fare con gli altri, ad imitarli un po’ per sentire ciò che sentono, ad accostarci senza invadere, a tenere una distanza che ci sembra… giusta.

Immaginate di essere dei mimi e di dover mettere in scena il modo in cui vi avvicinate a persone diverse; sentite la differenza fra l’incedere verso qualcuno che vi piace o verso un  possibile nemico; trovate un modo per esprimere a gesti la fretta di andarvene o l’urgenza di toccare. Questi gesti (postura, movimento, espressione, forza…) stanno sotto al pensiero e al comportamento, li influenzano e li colorano emotivamente. Nell’infante non sono mediati e sgorgano spontaneamente: via da ciò che spaventa, incontro a ciò che mi nutre/piace/contiene; nel bambino il pensiero riflessivo interviene per modulare, inibendo o favorendo certe azioni e la loro intensità; nell’adulto… l’adulto sa recitare, fingere, drammatizzare e, su un continuum che va da estremamente rigido a molto flessibile, è più o meno padrone di sé, più o meno automaticamente o liberamente  proteso o ritirato.

Gli automatismi non sono necessariamente un male. È importante saper camminare senza metterci l’attenzione, è comodo imparare a rispondere a certi stimoli senza doverci pensare e, nei comportamenti sociali complessi, avere a disposizione una vasta gamma di copioni predisposti è  molto utile. Il problema  con ciò che è automatico sorge quando si tratta di cambiare e si incontra una resistenza interna, quando, cioè, ci si accorge che uno schema che non funziona più continua a ripetersi nonostante la nostra volontà di cambiarlo.

È a quel punto che occorre ri-volgersi al mimo perché è in quel momento che ci rendiamo conto di quanto il corpo e la mente, l’azione e il pensiero, il gesto e la riflessione, non possano e non debbano essere separati.

Ed è lì che la rigidità diventa un difetto: il mimo continua a fare la stessa cosa e sembra non imparare niente di nuovo dall’esperienza. Si comporta come un automa.

Capita, in questi casi, che le sostanze psicotrope aiutino a rompere la fissità e a rendere meno rigido il sistema: gli ansiolitici calmano l’agitazione, gli antidepressivi tolgono un po’ di stagnazione, ecc.

Ma c’è un altro rimedio sia alla rigidità che al caos che deriva dal dare risposte a casaccio, dal reagire in base a un’abitudine invece che alla consapevolezza del contesto. Un rimedio che è più antico di ogni droga e che la psiche sa produrre da sempre: l’immagine.  Sentite cosa dice Bachelard: “Un abile psicologo potrebbe servirsi di immagini psicotrope, in grado di stimolare lo psichismo trascinandolo in un movimento continuo. L’immagine psicotropa introduce un po’ di ordine nel caos psichico, lo stato della psiche inattiva, del sognatore senza immagini.” Le immagini possono attivare la psiche e, quando serve, riattivarla. Il mimo di cui ho parlato poc’anzi e l’essere femminile dell’incipit sono esempi di immagini psicotrope. Conosco persone che non si danno tregua e che vivono in una sorta di perenne insonnia. Alcuni sono stati o sono tuttora miei pazienti e con ognuno di loro ho riscontrato, nei paraggi del sintomo, un’incapacità di sognare, un blocco della fantasia che impedisce quella che Bachelard definì una Revêrie positiva e produttiva, la cura naturale per le parti bloccate/automatiche della psiche. Lavorare su queste parti significa sia permettere un riposo calmando qualcosa che gira a vuoto, senza senso e senza risultato, sia svegliare da un torpore che non lascia pensare perché si limita a ripetere. Significa anche favorire il  lato femminile della psiche perché: “Le nostre migliori  Revêries derivano dal nostro lato femminile, portano il marchio di un’ innegabile femminilità. Se non avessimo in noi un essere femminile, come faremmo a riposare?”.

Vassily Kandinsky, 1919, In Grey

 

Archetipi: da dove vengono le storie?

“La storia è sempre la stessa: “C’era una volta, in un paese lontano lontano, un tesoro, una  perla, una fanciulla che aspettava di essere salvata’’.”
Bernardo Nante

Da dove vengono le storie? Sappiamo che da sempre vengono raccontate, sappiamo che in ogni cultura si ripetono trame che, pur differenziandosi nei particolari, sembrano ripetere un percorso che fa passare chi ascolta attraverso una serie di passaggi quasi obbligati: difficoltà che ci aspettiamo, nemici inevitabili, contrasti che, se mancano o se sono troppo diluiti, ci lasciano insoddisfatti.

Se avete visto Blade Runner 2049 e se avete guardato un po’ sotto alla superficie vi sarete accorti che, anche lì, dietro alle immagini di un mondo che ancora non c’è e di cui intuiamo solo l’inizio, ci sono un tesoro da scoprire e una fanciulla che deve essere trovata. E c’è un mago che costruisce corpi e che ci inserisce “anime” e c’è un giovane uomo che cerca la propria, di anima, e che, come Pinocchio, non sa se è un uomo o un burattino. Se non l’avete visto ve lo consiglio caldamente (anche se può sembrare lento e anche se, forse, andrebbe visto un pezzo alla volta, stanza per stanza).

Ma da dove nascono queste storie?

Jung riteneva che ci fossero, nello sfondo della Psiche e nel mondo che ci circonda, nel linguaggio, nelle opere e nelle relazioni, degli Archetipi: forze sottostanti come quelle che fan sì che un cristallo si formi in un certo modo, secondo certe geometrie e ritmi e non altri, come dei semi da cui le forme derivano. “Vi sono molte altre metafore per descriverli: potenziali immateriali della struttura, come i cristalli invisibili di una soluzione o la forma latente delle piante, che si rivelano all’improvviso in determinate condizioni; modelli di comportamento istintuale che, come quelli degli animali, dirigono le azioni lungo percorsi immutabili; i generi e i topoi della letteratura; le tipicità ricorrenti della storia; le sindromi fondamentali della psichiatria; i modelli di pensiero paradigmatico della scienza; le figure rituali e le relazioni che l’antropologia trova presenti in tutto il mondo.” (Hillman)

È come se ci fosse uno sfondo che ci accomuna tutti e che sta dietro alla psiche individuale, dietro alla somma delle nostre esperienze e a quello che consideriamo il nostro Io. Da lì, dalle profondità dell’inconscio collettivo, gli archetipi influenzano il comportamento, le percezioni e le descrizioni del mondo. Il motivo per cui piacciono sempre le stesse storie e il motivo per cui piacciono a tutti, anche a quelli che si considerano profondamente razionali o “realisti”, è che, nel profondo, la psiche non è così differenziata come in superficie. Gli archetipi: l’Eroe con la sua pulsione ad agire, Psiche con la predilezione per la vita, la Grande Madre che nutre e cura, il Puer Aeternus che continuamente dà inizio alle cose, il Vecchio che porta esperienza e saggezza… queste figure/forze non sono così diverse da un uomo all’altro e da una cultura all’altra. In tutti noi danno origine, spingono perché certe storie vengano vissute, raccontate e sofferte, perché certi cambiamenti abbiano luogo, perché delle relazioni si intreccino.

Forse una delle immagini ancestrali che più rappresenta questo stare sotto e venire in superficie, questo manifestarsi puntualmente  come spinta insopprimibile, è quella di Persefone: la giovane figlia di Demetra, la dea della terra e dei raccolti, rapita da Ade, il dio degli inferi, e in grado di regnare sia sotto che sopra, metà tempo nel Profondo indifferenziato e metà nell’Aperto fertile e fecondato. Anche in questo antico mito si rappresenta una storia, anche qui c’è una fanciulla, c’è un patto per salvarla, c’è un tesoro che sta sommerso per una parte del percorso e che viene ritrovato e poi perso di nuovo, come in natura con l’alternarsi delle stagioni e come nella psiche con la ciclotimia, l’andirivieni degli stati d’animo: depresso-profondo-elegiaco, felice-manifesto-danzante.

I miti sono eventi che non sono mai “realmente successi” e che si ripetono continuamente facendo capolino nella vita di tutti. Compaiono nei comportamenti, nelle attrazioni e nelle repulsioni, nelle preferenze,  nelle estasi e nei sintomi. Persefone, come noi, detesta ed è attratta da ciò che sta sotto (dargli inferi e dai  retroscena, dal “lato oscuro” e dal mistero) e, come noi, cerca la luce e a volte ne è abbagliata, gode della leggerezza e si perde in certe superficialità. La sua oscurità le dà spessore e, come ogni buona storia, vuole manifestarsi/essere pubblicata, non è mai del tutto chiara, viene raccontata in mille versioni, promette di ritornare. Ci dà l’idea di cosa sta dietro alle storie.

Vi lascio qua, per ora, e visto che Persefone rappresenta tra l’altro la primavera allego un’immagine che evoca il femminile e l’aprirsi, l’inizio e ciò che sta sotto. L’ho scattata qualche giorno fa in un posto in cui è già quasi primavera.

Oggetti interni

“Del resto, una delle poche cose che la letteratura
può ancora fare è creare
tra chi legge e chi scrive
una intimità non superficiale”
David Foster Wallace

La frase dell’incipit è contenuta in un’intervista pubblicata, in Italia, su Il manifesto il 1° Luglio 2006. Wallace parla del tentativo di rappresentare, nella sua prosa, più il modo in cui pensiamo che ciò che pensiamo. Dice: “… non mi interessa ricalcare il modo in cui le persone parlano, i loro dialoghi realistici, preferisco cercare di riprodurre il suono dei pensieri e il modo in cui procedono. Quindi affido i discorsi tra le persone a una scrittura rapida, molto densa, che procede per associazioni di idee, perché ognuno di noi quando parla al tempo stesso proietta i propri pensieri in direzioni diverse da ciò che sta dicendo…”.

Era, insomma, impegnato nella missione impossibile di far vedere il “pensare” per quello che è: qualcosa di indescrivibile che le parole non riescono a trasmettere nella sua pienezza, qualcosa che la comunicazione lascia per la maggior parte sullo sfondo, qualcosa che gli scrittori, di solito, alleggeriscono, facendo per noi (a volte magistralmente) il lavoro di estrarre una parte di ciò che è stato pensato e di renderlo come se fosse il succo, ciò che meritava di essere espresso.

In questa pulizia, in questa azione di alleggerimento che facilita la vita al lettore molte cose vanno perse. Secondo Wallace (e secondo me che ne parlo, qui, ad una platea  molto ristretta  e con intenti solo un po’  diversi dai suoi) per approfondire l’intimità occorre svincolarsi dal bisogno di alleggerire e sforzarsi di comunicare ciò che avviene dentro.

Perché intimo è questo oggetto interno che si forma in continuazione: un nucleo di pensiero, emozione, desiderio che si abbozza e si compone, che si aggruma attorno ad un argomento magari piccolo che, tuttavia, è, in quel momento, ciò che una persona sente e pensa di qualcosa, fosse anche la minuscola opinione sul sapore di ciò che sta mangiando. Se nella mente ci fossero oggetti simili agli oggetti fisici, cose con dei confini e una forma, che si stagliano su uno sfondo e che si riconoscono rispetto al resto, il pensiero non sarebbe poi così difficile da esprimere. Ma nella mente gli oggetti sono relazioni: ogni “cosa” nella psiche è correlata con il resto, è corredata da opinioni che la riguardano, è bella/brutta/neutra, esprimibile o meno… a seconda, a seconda di chi ho davanti, di cosa penso di lui e di cosa penso che potrebbe pensare di quello che sto pensando. Riguarda sempre anche l’interlocutore e viene detta o trattenuta, ammorbidita o resa aspra, asciugata o inumidita, condivisa solo in parte, accompagnata da scuse, giustificazioni e distinguo… ecc.

Insomma, tutte cose che sapete! Ciò che ho appena descritto è una piccolissima parte sia di ciò che facciamo con i pensieri sia di ciò che succede ai pensieri. Nella mente ogni oggetto è relazione ed è ingenuo pensare che esistano contorni netti e che ciò che viene espresso sia ciò che è stato pensato. Certi filtri li mettiamo consciamente, altri scattano da soli ed è come se certe cose nemmeno volessimo permetterci di pensarle. Le emozioni sono forze che intervengono e che aggiungono colore e densità. I pensieri hanno un tono, un peso e una portata.

Se date un’occhiata a ciò che avviene, se prestare ascolto al suono dei pensieri, state rendendo l’intimità meno superficiale, con voi stessi e con l’interlocutore con cui provate ad entrare in contatto.

Da un punto di vista clinico state anche facendo un lavoro sulle resistenze. State cioè facendo caso a tutto quel dramma emotivo che accompagna l’atto di esporsi agli occhi e al giudizio di qualcun altro, (non importa se reale o immaginario).

Questo è uno dei miei “post difficili” perché tratta di un argomento a cui è più facile avvicinarsi con il romanzo, con il racconto, che con il saggio. In seduta le cose sono diverse: c’è il contatto, l’esposizione, il setting.

Giorni fa leggevo, non ricordo dove, un articolo sulla Foca Monaca (Monachus monachus) un mammifero marino in via di estinzione presente nel bacino del mediterraneo. Tranne nel periodo riproduttivo e durante l’allattamento, che si svolgono sulla terraferma, sulle poche spiagge non frequentate che rimangono nel mediterraneo, vive principalmente in mare. E in mare ci dorme, sott’acqua, salendo periodicamente in superficie per respirare. Provate ad immaginare questo modo di abitare e di “riposare”: giù in profondità con tanto di sogni, poi verso la superficie non proprio svegliandosi, poi, dopo un respiro, ancora giù. Cosa sogna? Quanto si avvicina alla veglia per risalire e come si riaddormenta? Ci sono esemplari insonni? Come si sincronizzano, sono soli quando risalgono, dormono vicini? Le loro trance assomigliano alle nostre?

Ecco! Una cosa così: ascoltare una storia, provare a immedesimarsi, superficie, profondità, sonno, veglia e “ciò che sta in mezzo”. Mettersi nei panni di un’altra creatura, confrontare i suoi oggetti con i nostri. Quello che fa un bravo lettore. Relazione. Intimità.

Remedios Varo. Creation of The Birds (1957)

Idioletti

“Stupido è chi lo stupido fa”
Forrest Gump

L’idioletto è il linguaggio caratteristico di una persona o di un piccolo gruppo, una sorta di lessico familiare che, oltre alla lingua parlata dai connazionali o dai compaesani della persona in questione, contiene vocaboli o modi di dire che caratterizzano proprio quell’individuo o quel gruppo ristretto di persone che si esprimono così. È la lingua che parliamo in casa, quella che abbiamo appreso e pian piano costruito e che riserviamo solo ai più intimi. Spesso contiene termini usati per rassicurare il legame: piccole parole che a volte sono semplici intonazioni di voce e che si usano per dire implicitamente cose tipo “d’accordo, stiamo discutendo ma, di base, ti voglio bene”.

L’idioletto ha le sue regole. Fra partner si può quasi sempre dire “noo, dai… ‘fanculo, amore” e fra amici ci sta un “oh, ma che cazzo dici?” senza che nessuno si offenda. Ma man mano che si esce dalla ristretta cerchia dei propri cari, l’idioletto viene messo da parte e si passa ad un linguaggio che diventa più formale seguendo un continuum che va dai versetti con cui si intrattiene un neonato fino ai “modi corretti” che andrebbero usati con le persone da prendere con le pinze: quelle con una divisa o con un qualche tipo di titolo, quelle che, in certi contesti, rappresentano l’autorità, quelle che riteniamo pericolose.

Eppure lo portiamo inconsciamente sempre con noi. Non smettiamo mai del tutto di intercalare in un certo modo, di rassicurare o minacciare usando certe espressioni, certi toni o certe pause; senza volerlo ripetiamo parole che ci caratterizzano, usiamo una particolare punteggiatura, interveniamo nel ritmo del discorso proponendo o imponendo il nostro passo; alziamo e abbassiamo il volume, poniamo più o meno enfasi.

L’idioletto è un’impronta, una fisionomia che traspare ed è stato analizzato tra l’altro per  passare al setaccio gli scritti o le registrazioni di discorsi di persone che volevano mantenere l’anonimato ma che le forze dell’ordine volevano individuare (è grazie ad un’analisi minuziosa dei suoi scritti che il criminale americano noto come Unabomber è stato catturato).

Chi ci conosce è in grado di vedere questa fisionomia anche sotto le maschere più accurate e, siccome, come ebbe a dire Winnicott,  “nascondersi è piacevole ma non essere trovati è una tragedia”, è un sollievo sapere di potersi mascherare ma è una fortuna poter essere visti comunque, da qualcuno.

A volte, in seduta, uso uno  strumento diagnostico che si chiama Intervista sull’Attaccamento Adulto. È un modo di ascoltare notando i momenti in cui la persona che risponde, interrogata sul suo rapporto con le figure significative della propria infanzia, incespica, i passaggi in cui il linguaggio diventa meno fluido, meno corretto e preciso. Quando succede, quando la persona si impappina e il suo discorso diventa più incerto, il terapeuta ha un indizio che dice che qualcosa nella relazione con la figura di attaccamento di cui si sta parlando è andato storto. Il linguaggio riflette il legame: l’ansia che lo pervade, la paura, le difese messe in atto, i tentativi di trovare un accordo emotivo, le delusioni, la frustrazione delle aspettative e i sistemi per andare avanti lo stesso anche se il legame faceva acqua. Mi è capitato, con certi pazienti di trovarmi di fronte ad un adulto fatto e finito, finché si parlava del rapporto con la madre, e di avere a che fare, poco dopo, con un bambino che si esprimeva a fatica non appena iniziava a raccontare come si trovasse nella relazione col padre.  

Forrest Gump parla sempre nello stesso modo e se la cava bene senza doversi chiedere troppo, senza essere costretto ad interrogarsi sul rapporto fra sé e il mondo. Fa una “passeggiata selvaggia” nell’ambiente che continua a cambiare, restando sempre uguale e uscendone incolume. È l’immagine dell’ingenuo senza maschera che va bene così com’è. Uno che può restare ingenuo e che da bravo Puer Aeternus può prendere la vita come una scatola di cioccolatini che “non sai mai quello che ti capita”.

Lui può permettersi di lasciare che il suo idioletto resti inconscio, può non esplorarlo. Noi, non trovandoci in una fiction, non possiamo giocarcela nello stesso modo.

Il nostro linguaggio crea un mondo con dei confini non molto chiari e con piccole aree protette in cui si può andare avanti a non pensarci troppo. Appena si comincia a far fatica, appena il nostro comunicare diventa difficile e sentiamo che potrebbero non capire o che per noi è complicato comprendere ciò che dicono… lì siamo su una soglia. Quello è il punto in cui diventa interessante chiederci come ci stiamo esprimendo. Farlo significa porsi un po’ fuori dal solito linguaggio e cominciare ad allenare l’attenzione ad un compito che, di solito, non svolge: l’analisi di che rapporti creiamo, l’osservazione del modo in cui la  nostra comunicazione lega o scioglie, comprende o allontana. Una soglia fra il familiare e il selvatico, tra il tranquillo conosciuto e il diverso esplorabile. Un buon posto in cui allenarsi.

Buon anno!

 

Memoria emotiva implicita

“Non vediamo le cose come sono, ma vediamo le cose come siamo”
Anaïs Nin

Questo post è in cantiere da un po’ e se ne è stato in quella che definisco la cartella “Ogni scolaretto sa che”: un’espressione che ho preso a prestito da Gregory Bateson e che uso per catalogare cose che credo andrebbero insegnate fin dalle elementari.

C’era, nel 1911, un tale dottor Edouard Claparede, medico francese, che seguiva una paziente affetta da un grave danno all’Ippocampo in entrambe gli emisferi cerebrali. In quell’area del cervello sono presenti le strutture necessarie a trasformare i ricordi a breve termine in ricordi duraturi. A causa del danno la paziente ricordava le cose per pochissimo tempo: la sua memoria di lavoro (detta anche memoria a breve termine) funzionava il tempo necessario a permetterle di svolgere una conversazione con il medico ma la volta dopo, quando la rivedeva, questi doveva presentarsi nuovamente perché la paziente non aveva memoria di averlo visto né di aver parlato con lui.

“Erano soliti stringersi le mani a ogni incontro e, poiché poteva conservare le abitudini procedurali, la paziente era in grado di prender parte a questo rituale sociale. Un giorno Claparede nascose una puntina nel suo palmo, pungendole il dito nel momento in cui si davano la mano. Il dolore la sorprese ma la ferita fu superficiale e guarì subito. Ovviamente dimenticò l’incidente. Tuttavia quando Claparede incontrò di nuovo la paziente lei si rifiutò di stringergli la mano. Non riusciva a spiegare il motivo per cui fosse così riluttante e fornì le scuse che gli amnesici comunemente danno per coprire la loro incapacità di ricordasse gli eventi (disse: “Una donna non ha il diritto di negare la propria mano ad un gentiluomo?”). La paziente di Cleparede non era in grado di ricordarsi che egli le aveva inflitto una ferita durante il loro ultimo incontro. Aveva un danno ippocampale in entrambi gli emisferi e per questo era incapace di generare un ricordo dichiarativo dell’evento” (Archeologia della mente, Panksepp, Biven pag. 257).

Aveva però “imparato qualcosa”, questa paziente. Aveva imparato, emotivamente, a… non dare la mano: aveva appreso una paura o, meglio, aveva appreso ad avere una risposta emotiva negativa nei confronti di uno stimolo che prima era neutro o forse addirittura piacevole (dare le mani al medico). E il ricordo era rimasto! Non nell’ippocampo danneggiato, ovviamente ma… da un’altra parte: un posto in cui gli apprendimenti emotivi diventano ricordi emotivi.

Questa della paziente di Cleparede è stata forse la prima dimostrazione del fenomeno della memoria emotiva implicita. Il Disturbo da Stress Post Traumatico (PTSD) è l’esempio più noto degli effetti patologici di memorie registrate in modo implicito, non  facilmente richiamabili alla coscienza e in grado di attivarsi e di condizionare la percezione, il comportamento e l’affettività di una persona.

Ci sono vari motivi per cui penso che l’esistenza di questa capacità del cervello-mente andrebbe spiegata ai bambini delle elementari ma quello che mi sta più a cuore è che credo che saperlo aiuti a riflettere su quanto la nostra visione del mondo vada presa con le pinze. Anche senza essere affetti da PTSD, reagiamo a cose che possono averci colpito prima che certe aree del nostro cervello fossero sufficientemente sviluppate da generare un ricordo dichiarativo. Ci sono stati momenti della nostra vita in cui, magari solo per qualche istante, siamo stati vicini alla condizione della paziente del medico francese: incapaci di raccogliere un evento in modo da poterlo poi richiamare alla mente con facilità, con una parte del cervello momentaneamente “spenta” e con un’altra “dolorosamente sveglia” e in grado di registrare lo stesso.

Saperlo, tenere presente che una parte del nostro comportamento può nascere da un condizionamento di cui non siamo consapevoli, può aiutarci ad usare diversamente l’attenzione: ad osservare le nostre reazioni (e le nostre intemperanze) sapendo che ci sono cose che non sappiamo di sapere, che ci sono aspetti della nostra personalità che andrebbero studiati e su cui conviene meditare.

Il neuroscienziato Anil Seth ha definito la nostra realtà, il modo in cui percepiamo il mondo, come un’allucinazione controllata tenuta a freno dai nostri sensi. Intende dire che costruiamo continuamente la “nostra visione del mondo” e che, per fortuna,  (quasi sempre) ricordiamo di ri-controllare: di porre ciò che crediamo di aver visto al vaglio dei sensi quasi chiedendoci di guardare nuovamente e di cogliere ciò che c’è più che ciò  che crediamo ci sia.

Sapere che esistono memorie emotive implicite è un primo passo per riconoscere che , dal punto di vista soggettivo, la costruzione del mondo è non solo un processo continuo ma, spesso, un processo condizionato e condizionabile.

Cos’è all’opera dentro di noi quando “istintivamente” evitiamo uno stimolo? Quando consideriamo pericolose certe situazioni, ambienti,  persone? Siamo sicuri della nostra memoria e delle narrazioni che portiamo avanti, del modo in cui “ce la raccontiamo”?

Lo so, fa un po’ paura essere consapevoli di quanto la mente possa essere condizionata. Ma è meglio saperlo così come è importante sapere che le memorie sono ri-condizionabili: ogni volta che ricordiamo qualcosa stiamo anche modificando un po’ il ricordo e certe paure, certe angosce e certi momenti di panico possono essere rivisti e raccontati nuovamente fino a perdere buona parte della loro automaticità.

Non sto dicendo che tutto può essere reso conscio né che sia possibile escludere ogni condizionamento ma ogni scolaretto dovrebbe sapere che la memoria è un processo dinamico e multiforme, che, come diceva Freud, “ripetiamo ciò che non comprendiamo” e che conviene interrogarsi su come si guarda e su quanto si costruisce ciò che si vede.

Vi lascio, intanto con una quartina del Rubáiyát di Omar Khayyám un poeta e matematico persiano che già nell’undicesimo secolo rifletteva su tutto questo:

“Entrare in questo universo, e non sapere perché
da dove, come acqua che volere o no fluisce;
e uscirne, come vento nel deserto,
che volere o no soffia, non so dove.”

milesjohnstonart.com