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Attacchi al legame 2

C’è un vecchio pesce saggio e baffuto che si avvicina nuotando a tre pesci giovani e fa: «Buongiorno, ragazzi, com’è l’acqua?» e nuota via; e i tre pesci giovani lo osservano allontanarsi e si guardano e fanno:«Che cazzo è l’acqua?».
D.F.Wallace

Attaccare un legame è, anche, un modo per cambiare: non ci saremmo mai svezzati da niente se non avessimo, ad un certo punto e in qualche modo, messo in discussione ciò a cui eravamo legati. Dall’utero in poi la storia di ogni mammifero è una storia di rottura di contenitori. Qualcosa che sembrava perfetto per crescere diventa di colpo troppo stretto, lo status quo va in crisi e occorre passare a qualcos’altro, diventa necessario svincolarsi da un contesto e passare a un ambiente meno confortevole ma più idoneo al cambiamento. Pensate ai passaggi attraverso cui passa un bambino durante crescita: dal grembo all’accudimento materno, alla scuola, al gruppo dei pari, ecc.

Ciò in cui siamo immersi va, ad un certo punto, lasciato e l’ambiente in cui ci collocano o in cui decidiamo di recarci diventa il nuovo grembo, ciò che favorisce cambiamenti che, se non ci spostassimo, se non andassimo incontro a nuovi stimoli, non sarebbero possibili.

Ci vuole un po’ di odio per rompere un legame. Ogni svezzamento passa attraverso un’imposizione, ogni iniziazione contiene qualcosa di odioso. A volte il cambiamento è imposto dall’esterno (l’asilo, la scuola), altre volte ce lo cerchiamo perché è come se sentissimo che, se non cominciassimo ad odiare almeno un po’ ciò che fino ad oggi sembrava un contenitore perfetto, ci bloccheremmo in un legame tossico: qualcosa che invece di nutrirci ci avvelena. Così come un buon genitore sa che certi cordoni vanno recisi, allo stesso modo un giovane pesce ad un certo punto si chiede “che cazzo è l’acqua, in cosa sono immerso e quanto mi va/fa ancora bene sguazzare in questo contesto, frequentare questo ambito?”

È a questo punto che l’odio può prendere direzioni diverse. Si può scegliere di mettere in discussione vecchi legami e, magari dolorosamente, intraprendere un cammino che si spera ci porterà verso una versione di noi stessi che ci sembra migliore. O si può specializzarsi nella difesa di certi legami, cercare di definire “una volta per tutte” come deve essere l’acqua, come è fatto il mondo e cosa è chiaramente giusto o chiaramente sbagliato.

La prima strada è piena di dubbi e per essere mantenuta richiede la reiterazione di domande che interrogano sul contesto. Chi la sceglie deve odiarsi un po’: deve essere disposto ad attaccare certi legami interni e a mettere in discussione se stesso e l’ambiente che frequenta. Nella seconda via l’odio è diretto verso l’esterno. Percorrerla significa attaccare tutto ciò che potrebbe mettere in discussione lo status quo: la lista di legami accettati e accettabili che definisce la norma e stabilisce cosa è “comune”, e cosa è deviante.

Non conosco persone che frequentino esclusivamente una o l’altra strada. So, tuttavia, che chi sta principalmente sulla prima spesso si sente confuso, non crede di essere circondato da nemici e riflette molto. Chi sta sull’altra si attiene a chiari principi, vede molti nemici, trova doloroso pensare.

Quando un po’ d’odio va verso l’interno si è disposti a mettere in discussione gran parte di quello che si pensa al punto che capita di chiedersi: “sto forse delirando?”. Quando invece l’attacco al legame è diretto solo verso l’esterno, quando l’acqua in cui si è immersi è “sicuramente quella giusta”, si è pieni di certezze e, spesso, si sta delirando, si sta cioè credendo che la propria versione sia l’unica possibile e che la realtà non possa essere descritta in nessun altro modo.

Proiezioni

Hieronymus Bosch, Giudizio finale, frammento dell’Inferno

“Era come uno di quegli incubi sugli esami,
tu sei preparato perfettamente,
poi arrivi là e tutte le domande d’esame sono in hindi”
Infinite Jest

Negli incubi il mondo è inospitale. Quando un sogno diventa così brutto da costringere il dormiente a svegliarsi significa che qualcosa in quel complicato processo digestivo che è il sognare è andato storto: la storia si ingarbuglia e diventa incomprensibile o spaventosa, l’atmosfera si incupisce, arriva l’angoscia che, dopo un po’, ci spinge fuori dal sonno.

Osservando questa sorta di fallimento della fantasia viene da chiedersi chi ci fosse alla regia in quel momento: chi sia stato lo sceneggiatore sadico che ha preparato un copione in cui “… tu sei perfettamente preparato, poi arrivi là e tutte le domande d’esame sono in hindi”. Chi ha reso minaccioso il sogno? Chi ha aggiunto la tensione e ha alimentato la paura? E perché non ha virato verso un lieto fine permettendoci di concludere in bellezza e continuare a dormire?

In psicologia con il termine Proiezione ci si riferisce a un meccanismo di difesa che consiste nello spostare sentimenti o caratteristiche propri o parti di sé su altri oggetti o persone. Non è che lo si faccia consapevolmente. Come tutti i meccanismi di difesa è un gesto antico che serve a “pattugliare i confini”, un processo che aiuta a portare avanti la comoda illusione di separatezza: “io sono qua dentro e là fuori c’è il resto del mondo; vicino a me i miei alleati, ciò che mi somiglia ed è familiare e, più lontano, ciò che è alieno e minaccioso”. Proiettando metto fuori di me cose che mi appartengono e, visto che succede automaticamente, se metto fuori solo bellezza e bontà divento un po’ una Pollyanna ottusamente ottimista, mentre se ciò che inavvertitamente  “evacuo” è brutto, pericoloso o terribile, mi ritroverò in un mondo infernale e perseguitante da cui dovrò difendermi e in cui dovrò stare sempre allerta.

Due estremi patologici: l’ottimista dormiente  e il paranoico insonne. Per dormire e per sognare è molto meglio il primo mentre se si lavora nei servizi segreti una certa dose di paranoia può tornare utile.

Nel mezzo, nel normale stato di veglia, conviene ricordarsi che: “Il mondo che troviamo all’esterno di noi è, almeno in parte, il ricettacolo del terrore che abbiamo dentro di noi, un al-trove per quei desideri e quegli oggetti che recano dispiacere. Allo stesso tempo, quel mondo che costruiamo all’esterno è il mondo da cui abbiamo bisogno di allontanarci. È il luogo, o uno dei luoghi, dove collochiamo gli oggetti e i desideri che vorremmo non ci appartenessero. Per sentirci a casa nel mondo abbiamo bisogno di renderlo inospitale.” (Adam Phillips)

Una buona storia ha bisogno di un cattivo e un buon sogno è fatto anche di ostacoli da superare, di strane idee ed espedienti per andare oltre. Un mondo solo ospitale non esiste e se esistesse sarebbe noiosissimo. Ma cosa stiamo proiettando? Quanti dei mostri che popolano il nostro  mondo sono sovrapposizioni, vecchie paure che sfuggono dal profondo della mente e si annidano in inconsapevoli copioni?

Cosa aggiungiamo alla realtà che la rende a volte simile a un sogno e altre volte ad un incubo? E chi scrive le domande d’esame in hindi?

Confini dell’Io

“Se sei triste quando sei da solo probabilmente sei in cattiva compagnia”
J.P.Sartre

C’è un passaggio di Infinite Jest  che racconta di un vecchio allenatore che passeggia con un ragazzo nei campi dell’Accademia del Tennis. Il primo sta in parte rispondendo ad una domanda del secondo e in parte riflettendo tra sé e sé sull’agonismo e sul gioco del tennis come metafora. Dice: “Il vero avversario, la frontiera che include, è il giocatore stesso. C’è sempre e solo l’io là fuori, sul campo, da incontrare, combattere, costringere a venire a patti. Il ragazzo dall’altro lato della rete: lui non è il nemico: è piú il partner nella danza. Lui è il pretesto o l’occasione per incontrare l’io. E tu sei la sua occasione”.

Tanti dei racconti di lotta che mi capita di sentire mentre ascolto i miei pazienti sono solo in apparenza partite contro l’altro o contro un qualche tipo di ostacolo esterno. Certo c’è sempre un antagonista: un capo tiranno sul lavoro; un possibile partner perfetto che non la vuole capire di tirare fuori le caratteristiche che, finalmente, soddisferebbero i desideri del soggetto; un alleato che ha tradito; una scalata in cui gli appigli scompaiono; un deserto in cui non si fanno incontri significativi; selve più o meno oscure.

In terapia l’oggettività di ognuno di questi ostacoli viene messa in discussione. Non per negarne l’esistenza ma per distinguere: per togliere all’oggetto un po’ del suo potere e per mettere in evidenza il soggetto, l’Io. Poi, siccome l’oggetto di studio della Psicoterapia è proprio (e necessariamente) l’Io, anche questo va messo in discussione. Diceva Bateson che il primo atto epistemologico (il primo “gesto” che permette di indagare qualcosa per conoscerlo) è la creazione di una differenza. Differenziando posso cominciare a distinguere e a separare, posso catalogare, creare degli insiemi, combinare elementi, distribuirli, ecc.

In seduta questo gesto quasi violento che permette di fare a pezzi l’oggetto di studio viene compiuto seguendo l’invito di Freud che in Introduzione alla Psicoanalisi diceva: “Nostro desiderio è fare oggetto di indagine l’Io, il nostro Io più intimo; ma è possibile? L’Io è il soggetto per eccellenza, come può diventare oggetto? Ora, non vi è alcun dubbio che questo è possibile: l’io può prendere come oggetto sé medesimo, trattarsi come altri oggetti, osservarsi, criticarsi e fare di se stesso Dio sa quante altre cose ancora…”

Inizia così, con questa scissione tra una parte che osserva e una che viene osservata, quello che in una sfida agonistica avviene stabilendo che dall’altra parte c’è un avversario. Invece di scendere in campo per sfidarci potremmo stare seduti e bere qualcosa mentre chiacchieriamo amabilmente, potremmo semplicemente confermare ciò che siamo così come si fa quando si scambiano dei convenevoli: “Tutto bene? E la famiglia? Tutto a posto, e tu?”

E invece, invece si decide di giocare e mettendosi in gioco si evidenziano dei limiti, si comprendono dei punti di forza, si scoprono delle debolezze. Su di sé e sull’avversario, sull’avversario e su quel soggetto intermedio che è “un po’ l’altro e un po’ me”. Nel gioco si alternano gli sforzi per essere una forza irresistibile o un oggetto inamovibile, una da una parte e l’altro dall’altra. Succede ai cuccioli che lottano, ai lottatori che si sfidano e, con gradi progressivi di serietà e di rischio, ai contendenti e ai nemici.

Se si chiede a un giocatore “chi o cosa c’è dall’altra parte?” la risposta naturale sarà: “l’altro, la persona o la cosa con cui mi sto misurando”.  È ovvio che sia così perché la scissione/separazione è ciò che rende possibile il gioco.

In terapia le cose sono un po’ diverse perché appena ci si astrae e si pensa al gioco, appena ci si tira fuori dal conflitto e, smettendo di essere una delle parti, si dà inizio alla riflessione, la risposta diventa più complessa. Le due parti, il soggetto e l’oggetto si confondono e diventa evidente che la sfida è, innanzitutto, con se stessi.

Possiamo osservare l’Io su un continuum che va dal sonno profondo a uno stato di massima allerta. Sono gradi diversi di attenzione e di consapevolezza e ad entrambi gli estremi l’Io scompare: nel sonno profondo non c’è nessun osservatore e negli stati di lucida attenzione, quelli in cui ci si perde nel flusso dell’azione e della percezione, non c’è distanza tra sé e l’oggetto. Tra questi due confini incontriamo cose e persone che vengono percepite diversamente, a seconda della qualità della nostra attenzione.

Pensateci: vicino al sonno profondo si incontrano oggetti e personaggi che popolano i sogni, figure di mezzo con forme mutevoli, che possono continuamente trasformarsi; man mano che ci si sveglia e si esce dal torpore, compaiono le persone, gli altri in carne ed ossa con il loro  determinismo e con cui è necessario relazionarsi: è il luogo in cui l’attenzione segue le regole dell’affinità (vicinanza/distanza, protendersi/ritirarsi), della comunicazione (aperto/chiuso, esprimersi/celarsi), della realtà  (condivisione/separazione, accordarsi/dissentire) e così via fino all’altro estremo in cui l’Io scompare in una trance agonistica, in un’estasi amorosa o in un momento di intensa creatività.

Il motivo per cui è piacevole andare verso i bordi di questo continuum è perché lì l’io tende a scomparire e, spesso, è un sollievo essere nessuno!

Nel mezzo c’è la valle dell’Io che è il luogo in cui i giochi possono svolgersi e in cui si sperimentano emozioni e modi di essere. È anche il posto in cui ci si può annoiare: meno c’è gioco più aumenta la noia, più il gioco diventa interessante più si sente che l’io può essere in qualche modo trasceso. Nel sonno profondo e nella sfida più intensa anche la noia e il gioco stesso tendono a scomparire. E l’Io con loro.

Si può riflettere sulla propria posizione con la vecchia domanda psicologica: “Dove sono?”.
Quanto sto dormendo? Quanto sono sveglio? Quanto sono vicino ai bordi?

Immagine tratta dal Libro Rosso di C.G. Jung (particolare)

You can’t (always) get what you want

Il micro-dialogo della vignetta è, in origine, una frase di Anna Freud che quasi facendo eco alla convinzione del padre, secondo cui “Il nostro desiderio è sempre in eccesso rispetto alla capacità dell’oggetto di soddisfarci”, dice, appunto, che le uova nella fantasia sono sempre cotte a puntino ma rimangono là, nel regno delle cose perfette, immaginabili ma non mangiabili.

Penso che gran parte della psicoterapia lavori proprio sulla distanza tra ciò che un paziente si aspetta e ciò che ottiene. Crede (o gli han fatto credere) di dover essere una certa persona o di dover fare certe cose per avere soddisfazione, per placare il desiderio e dire “ecco, ho ottenuto ciò che volevo”.

Ogni primo colloquio, ogni primo incontro con un paziente e con i suoi sintomi è, in fin dei conti, un incontro con un desiderio non soddisfatto: un ascolto di quanto sia doloroso non poter essere in un certo modo, non poter avere certi oggetti o persone, certi stati d’animo, condizioni, capacità, equilibri. Il dolore di non poter stare vicini a ciò che ci piace e quello di dover stare in prossimità di ciò che detestiamo, la brama dolorosa del non poter raggiungere e la penosa avversione del non potersi togliere.

Non c’è paziente con cui non abbia lavorato sulla distanza fra immaginazione e realtà, fra aspettativa e risultato. E il dolore… il dolore, così come il desiderio, non è  mai veramente azzerabile: rimane, si sposta e, se la terapia funziona, diventa sensato!

Smette cioè di essere un dolore nevrotico.

Ho appena corretto un lapsus calami: avevo scritto “smette di diventare un dolore nevrotico”. Come spesso capita, l’inconscio è “più preciso e più puntuale”: la sofferenza che trattiamo in psicoterapia è qualcosa che “diventa”, qualcosa che è così perché, proprio come il rimuginio, come le ossessioni e come le compulsioni, viene continuamente ripetuto, messo in esistenza da un’istanza che non è mai contenta di come le uova sono state cotte e che misura il divario tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere.

È in quello spazio che nascono i rimpianti (se avessi fatto diversamente avrei ottenuto uova migliori), i sensi di colpa (che uova orrende ho cucinato), le ossessioni (proverò fino allo sfinimento, fino alle uova perfette), il senso di fallimento con il lutto e gli stati depressivi, l’ansia da prestazione con il panico del non essere all’altezza, la mania (le mie uova saranno perfette e tutti dovranno riconoscerlo).

Ed è in quello spazio che si può meditare sul senso: vedere cosa causa il dolore e quando la sofferenza sia dovuta allo sforzo del procedere o all’ostinazione del ripetere.

Chiedo spesso ai miei pazienti: “chi o cosa produce il dolore di cui mi stai parlando?”. All’inizio, nelle prime sedute, credono di dover trovare una risposta sensata, poi capiscono che la domanda non è un che modo per pensare insieme.

Si possono dare molte risposte: si può attribuire il dolore all’educazione, alla chimica, ai cattivi incontri, alle proprie incapacità. Si può riflettere sui rimedi tentati e sul loro fallimento (se siamo qua a parlarne è perché, ancora una volta, le uova non sono ben cotte).

Ma, alla fine (e tornando a Freud) perché mai un oggetto dovrebbe soddisfarci? Dove nasce questa pretesa? Quanto questo bisogno di avere ciò che vogliamo è davvero il problema? Cosa faremmo se fossimo per una volta pienamente soddisfatti? Lo vogliamo veramente o scappiamo gambe levate appena intravediamo la piena realizzazione di un desiderio? Davvero vorremmo abbattere la barriera tra immaginazione e realtà? Avere un oggetto “perfetto”?

Credo che su queste cose convenga interrogarsi. Farlo è spesso un buon modo per cominciare un lavoro  serio sulla sofferenza mentale.

E mi sembra un buon impiego dell’energia psichica,  intanto che le uova vanno avanti a cuocersi.

Mandanti

Mi domando chi sia il mandante di tutte le cazzate che faccio”
Altan

L’Amore e le Parche di Ettore Tito (particolare)

L’immagine qui sopra è un particolare di un quadro di Ettore Tito: L’amore e le Parche. È esposto alla galleria d’arte moderna di Palermo dove l’ho visto per la prima volta qualche giorno fa. All’inizio sono rimasto sorpreso dall’associazione che mi è venuta in mente con la battuta di Altan ma poi, riflettendoci, mi è parso evidente che l’idea di mandante traspaia con chiarezza dal dipinto. Una delle tre Parche indica ad un giovane Eros dove colpire. Nello sguardo di questi si vede la ferma decisione di scagliare la freccia che determinerà il destino della vittima: colei o colui che, ferito da uno stimolo che non può essere ignorato, non potrà che rispondere imboccando una strada che crederà di aver scelto ma che, invece, è una sorta di direzione obbligata.

Sia le Parche che Eros sono forze primigenie: entità sovra-personali che fanno la loro comparsa ben prima degli Dei e a cui anche questi ultimi sono, nell’antica mitologia, soggetti. Nemmeno gli Dei potevano molto contro i dardi di Eros né erano esenti da Necessità (Ananke) madre delle Parche a cui l’obbedienza era semplicemente dovuta.

Ciò che vedete nell’immagine è una rappresentazione di “forze che stanno dietro”: pulsioni a cui tocca obbedire, persuasori che tolgono dalla vista porzioni di realtà per metterne in evidenza altre. Come quando ci si innamora e non si vede che l’amata o come quando, presi da un qualche tipo di sacro fuoco, si va verso “un destino” comportandosi come degli eroi o come dei fanatici.

Facendo spesso un sacco di cazzate senza nemmeno chiedersi chi sia il mandante.

Parlando dell’Io e delle difese Freud disse che “Per l’organismo la protezione dagli stimoli è una funzione quasi più importante della ricezione degli stessi”. Da neurologo (prima ancora che da psicoanalista) aveva capito che c’è nel sistema nervoso, già a partire dagli organi di senso, una funzione di filtro che serve a mettere ordine nell’assedio permanente degli stimoli a cui siamo sottoposti e che, a un livello di elaborazione meno periferico, è il modo in cui ci difendiamo da questo assedio a determinare la nostra visione e la nostra personale interpretazione della realtà. Vediamo ciò che non escludiamo e il negato, il rimosso e il trasferito altrove, se ne stanno a margine, fuori dalla coscienza, forse ben visibili per altri ma non per noi che, presi dalla nostra descrizione di mondo, non ne mettiamo in discussione i confini se non quando uno scompenso (spesso un sintomo) ci obbliga a una revisione della mappa e ad una indagine sui mandanti.

L’inchiesta, la ricerca di un determinismo esterno, comincia quando ci si chiede: “Cosa mi è preso? Come ho potuto compiere quel gesto, mettermi in quella situazione, non accorgermi delle conseguenze?” Il sintomo che accompagna queste domande è uno spaesamento: una vertigine connessa alla consapevolezza di non essere padroni in casa propria e di dover fare i conti con forze che possono impossessarsi di noi.

È partendo da questa percezione che molti cambiamenti diventano possibili perché è grazie allo spaesamento che si può iniziare una riflessione su chi o cosa nella mente  e nel corpo spinge in certe direzioni, crea determinati gusti, rende più o meno amichevoli o ostili certe porzioni di mondo.

I mandanti non sono sempre forze soverchianti: Eros e le Parche o Pan con il terrore incontrollabile o Penia con le carestie e la fame. Capita di scoprire che, come ebbe a dire Dryden: “I più sono sviati dall’istruzione, credono a questo o a quello perché così li hanno educati; il prete continua ciò che iniziò la balia ed è in tal modo che il bambino inganna l’uomo.” Ciò che guida molti dei nostri comportamenti è spesso un bambino cresciuto a pane e pregiudizi, uno che è diventato un adulto poco pensante che, siccome  crede di avere ben stretta la barra del timone, non si chiede chi tracci la rotta e decida gli orizzonti, gli sfondi e le figure, l’indistinto e ciò che salta all’occhio.

Un rimedio per questa ignoranza, un inizio di cura, è quello di chiedersi, come Altan, “chi è il mandante delle cazzate che faccio?”, “C’è un qualche dito puntato che mi ha indicato l’angolatura da cui osservare? chi interviene sulla mappa del mio mondo? cosa vuole che veda?”.

Sul buon uso degli ostacoli

“Io so cos’è una cosa o chi è qualcuno scoprendo ciò che si interpone tra noi”
Adam Phillips

Primo atto del Riccardo Terzo di Shakespeare: uno dei due assassini inviati da Riccardo per uccidere suo fratello, il Duca di Clarence, parlando con il complice che azzarda dubbi sull’opportunità di colpire un innocente, dice: “La coscienza è un compunto spiritello dal volto sempre rosso di pudore, che fa il ribelle nel petto dell’uomo creando all’uomo una massa di ostacoli.”

In quanto ostacolo la coscienza di un bravo sicario va repressa: superata per far sì che egli possa raggiungere l’obiettivo di uccidere la vittima designata.

In questa scena il sicario è il soggetto, la vittima è l’oggetto e la coscienza è l’ostacolo. Se applicassimo come un teorema la frase dell’incipit potremmo dire che l’assassino percepisce chi ha di fronte a seconda dell’ostacolo che si trova a dover superare. La persona diventa la mia vittima se ciò che devo superare per interagire con lui o lei è… solo la mia coscienza, solo un’istanza interna che posso zittire o ascoltare e che, a seconda di come entro in relazione con essa, determinerà la percezione di ciò che mi sta davanti. Se accetto che la coscienza sia un ostacolo non sarò più un omicida e la vittima smetterà di essere tale ma se riuscirò ad ignorarla niente si metterà fra me e il mio obiettivo e anche le mie percezioni saranno diverse: di fronte non avrò più un altro essere umano ma un oggetto, qualcosa su cui è facile smettere di riflettere.

L’ostacolo crea la differenza. Mettendosi in mezzo rallenta l’azione e quasi costringe a pensare.

In terapia si osserva una massiccia presenza di ostacoli  nella depressione e una loro patologica assenza negli stati maniacali. Ho visto persone depresse immobilizzarsi davanti a scelte banali inventando ostacoli su ostacoli. Ragionamenti tipo: “ma poi, se vado… anche se mi hanno invitato magari sperano che non vada… lo so, lo sento che darei fastidio; posso dire che sto male e stare a casa ma farò la solita figura di quella che rifiuta gli inviti… ecco se non vado starò male ma non me la sento di andare, sono disperata…”. E ho assistito a deliri maniacali in cui niente poteva fermare l’ideazione grandiosa: “sì, vabbè, non ho studiato niente ma risolverò tutto, non ho  nemmeno un piano ma inventerò al momento, non possono non capire che sono la persona perfetta…”.

Tra questi  due estremi, tra la completa assenza di spazio e la terribile costrizione del depresso grave e le sterminate praterie dei deliri del maniaco, si delinea un continuum in cui gli ostacoli diventano, per uno psicoterapeuta, una benedizione: qualcosa su cui iniziare un discorso e immaginare un progresso.

“Quando in analisi ‘spacchettiamo’ gli ostacoli –quando pensiamo agli ostacoli come a una via e non come a qualcosa che sta in mezzo alla via –li troviamo, come il vaso di Pandora, pieni di cose insolite e proibite.” (Adam Phillips)

Spacchettare è riflettere. È sia smettere di vedere l’ostacolo nel modo in cui lo vede  il maniaco, come qualcosa da rimuovere senza precauzioni, un contrattempo da distruggere con la volontà, sia evitare di soccombere di fronte ad esso come il depresso che lo trasforma in un’insormontabile costrizione.

Le cose insolite e proibite che si scoprono insieme al paziente in questo lavoro sugli ostacoli sono tutte connesse al desiderio perché non esiste ostacolo senza desiderio e perché gli ostacoli sembrano fatti apposta per attivare il desiderio.

“Cosa voglio superare? Cosa c’è di là, dall’altra parte di ciò che ora  mi impedisce di sentirmi ‘bene’? Chi mette l’ostacolo? Voglio davvero toglierlo? Davvero starò bene senza di esso o il vero gioco è  nel progetto, nell’insieme di cose che devo mettere in atto per superarlo?”

Guardare gli ostacoli ponendosi queste domande è un modo per pensare ad essi come a degli strani oggetti che ci possono rivelare cose su noi stessi e su cosa vogliamo. È anche un modo per curare la mancanza di pensiero. Sia quella tipica della sindrome maniacale che si limita all’andare oltre senza riflettere, sia quella degli stati depressivi in cui il pensiero si riduce a sterile ruminazione.

Quanto curiosi siete quando state per spacchettare un regalo?

La curiosità è, insieme al desiderio, uno degli ingredienti fondamentali per  sviluppare la capacità di vedere gli ostacoli non come qualcosa che ostruisce la via ma come la via stessa. È anche ciò che ci ricorda che “la prima relazione non è con gli oggetti ma con gli ostacoli”.  Ogni oggetto ci è stato dato impacchettato: sempre abbiamo dovuto protenderci verso qualcosa, sempre è stato necessario muoversi per attraversare uno spazio, anche da infanti, per raggiungere il seno. E per incrociare uno sguardo o per farsi sentire.

Nella relazione con l’ostacolo (prima ancora che con quella con l’oggetto) si possono escogitare modi per esaudire desideri difficili. Molto spesso la saggezza sta non nell’eliminazione di ciò che sta in mezzo ma nella capacità di vederlo come una risorsa: cosa insolita e curiosa, significativa, promettente…

Il buon uso degli ostacoli.

Due frecce

L’immolazione di Thích Quảng Đức nella foto di Malcolm Browne.

Nel 1964 il fotografo americano Malcom Browne vinse il premio Pulizer per una fotografia scattata l’anno precedente. La foto ritraeva il monaco buddista Quang Duc che si autoimmolò per protesta contro il regime di Saigon che perseguitava la religione buddista. Il monaco sessantasettenne rimase immobile nella posizione del fior di loto mentre il suo corpo veniva divorato dalle fiamme.

Ricordo che, da ragazzo, una decina di anni dopo, vedendo quell’immagine fantasticavo sui superpoteri che la meditazione e la concentrazione avrebbero potuto dare a chi le avesse praticate. Ci provai anche. Ma dopo aver trascorso una mezz’ora seduto a gambe incrociate lasciai perdere. Troppo doloroso.

Passò molto altro tempo prima che capissi di più su cosa significhi “stare tranquillamente seduti”.

Si racconta che il Buddha, nel suo primo discorso dopo l’illuminazione, parlando al ristretto pubblico di cinque discepoli e ragionando sul dolore fisico e sulla sofferenza mentale usò la metafora dell’uomo ferito da due frecce. La prima freccia capita a tutti: è nella natura dell’essere umano essere colpito da qualcosa, provare un dolore fisico, subire una perdita, inciampare, cadere, fallire; la seconda freccia colpisce in modo più subdolo ed è “interna” perché è composta dall’insieme di tutte le reazioni che mettiamo in campo per opporci alla prima: i contorcimenti, i lamenti, le proteste, il rammarico, i sensi di colpa…

Questi provvedimenti per evitare il dolore sono ciò che, spesso, lo fa perdurare. Pensate a quante volte avete sofferto elucubrando su come sarebbe andata se solo aveste fatto diversamente o rimuginando su un’offesa ricevuta, un torto subito, una lite passata. La seconda freccia diventa un’amplificazione della prima: un lavorio interno che invece di eliminare il dolore lo trattiene e spesso, nel tentativo di prevenirlo, lo crea. Mentre la prima freccia non può essere evitata, sulla seconda si può fare molto lavoro.

È un lavoro sulla mente perché si occupa di osservare una serie di gesti interni che nascono per fare qualcosa contro il dolore. Gran parte di questi gesti sono utili: sono cose che facciamo per evitare di ferire o di ferirci, precauzioni, prudenze, cure. Ma ci sono pensieri che, invece, sembrano fatti apposta per aumentare la sofferenza e spesso sono pensieri senza un pensatore nel senso che  non stiamo veramente pensandoli. Avvengono: nascono come una reazione automatica e senza attenzione, come risposte ad uno stimolo, quasi come posture che si prendono, modi di mettersi e di essere.

Stare tranquillamente seduti significa osservare questa serie di gesti interni e prenderne possesso, aggiungere attenzione, diventare consapevoli di questo flusso che scorre modellando continuamente il nostro sentire.

David Hume disse: “La mente è una specie di teatro in cui sfilano, una dopo l’altra, le più svariate percezioni; fanno avanti e indietro sul palcoscenico, scivolano via e si mescolano le une alle altre in un’infinita varietà di posture e situazioni”. L’osservazione di questo movimento è l’inizio di ogni meditazione ed è il lavoro sulla seconda freccia.

Non credo che farlo possa portare ad un controllo simile a quello di un monaco che, praticando per una vita, riesce a dominare il dolore fino ad eliminarlo ma so che vale la pena intraprendere un esercizio sull’attenzione: cominciare a guardare con interesse e… non fare nient’altro, acquietare, non infliggersi una seconda freccia.

Sogni e preoccupazioni

“Dobbiamo cercare di trattare le preoccupazioni nello stesso modo
in cui trattiamo, senza alcuno sforzo, i sogni: ossia dimenticandole”
Adam Phillips

Un mito Romano, ripreso e reso celebre da Heidegger in Essere e Tempo, racconta che un giorno la Cura camminando in prossimità di un fiume scorse un mucchio di argilla e, quasi automaticamente, cominciò a modellarla ricavandone la figura di un essere umano. Trovandola molto bella chiese a Giove di infondere in essa lo spirito vitale. Giove lo fece ma poi fra i due sorse una disputa su chi avesse dovuto dare un nome alla nuova creatura. Al contendere si aggiunse la Terra che disse che, sì, Cura aveva dato forma al fango e Giove vi aveva infuso l’anima ma era stata lei, madre terra, a fornire tutta la sostanza di cui l’uomo era fatto. Non trovando un accordo interpellarono il dio Saturno perché facesse da arbitro. Questi sentenziò che alla morte dell’uomo Giove si sarebbe ripreso lo spirito e la Terra sarebbe rientrata in possesso del corpo. Ma, finché era in vita, sarebbe stata Cura ad occuparsi di lui. Quanto al nome, visto che era stato modellato dal fango, humus, si sarebbe chiamato Uomo.

La cura è quindi, prima della morte e nel tempo della vita (non a caso tenuto ben presente da Saturno/Cronos), la compagna dell’uomo, colei che se ne occupa lungo il tragitto che lo definisce, appunto, un abitante del tempo.

La preoccupazione è una sorta di sorella patologica della cura: insieme all’inquietudine anticipa il tempo e cerca di curare preventivamente, di pre-vedere e di controllare ciò che potrebbe accadere. Facendolo, cercando di avere controllo su qualcosa che non è ancora successo o che è distante e quindi non gestibile, spesso riempie il presente di ansia senza spostare una virgola nel futuro.

Ho visto pazienti usare tantissima energia psichica nel tentativo di rendere meno inquietante un futuro che immaginavano catastrofico senza rendersi conto della proiezione: quel gesto inconscio che aggiunge caratteristiche e attributi ad uno scenario che è innanzitutto mentale. Per me che osservo dal di fuori sembra ovvio che, mentre lo fanno, sono come in un sogno. Vedo bene quanto il quadro che immaginano sia una costruzione e quanto gran parte delle ansie e degli “eventi” che prevedono siano nient’altro che una messinscena spesso dolorosa e, talvolta, autoavverante.

Le profezie che si autoavverano sono come dei sogni che diventano incubi grazie alla preoccupazione. Una persona comincia a preoccuparsi di qualcosa e… va in sbattimento: comincia a dimenarsi e ad esercitare una presa diversa sugli eventi. Prima su quelli mentali: ciò che immagina che succederà sicuramente, ciò contro cui comincia già a prendere delle contromisure; poi su quelli relazionali: le persone su cui decide di esercitare la propria cura/controllo, le situazioni che vanno assolutamente evitate, i nemici alle porte, le malattie, le catastrofi, ecc.

Siccome “la cosa più facile è dimenticare un sogno e ricordare una preoccupazione” l’antidoto a questo crescendo di ansia è svegliarsi!

Cosa succede alla maggior parte dei sogni appena vi svegliate? E cosa state facendo mentre vi preoccupate? Quale è il tipo di attenzione che differenzia un sogno sfuggente da una preoccupazione appiccicosa? Perché se in un sogno cominciate a preoccuparvi troppo vi svegliate di soprassalto mentre quando siete immersi in una preoccupazione non vi rendete conto della costruzione dell’incubo che state perpetrando?

Un modo per rispondere è quello di pensare a degli Io diversi. C’è una differenza fra l’Io-sognante e l’Io-che-si-preoccupa. È una differenza che può essere spiegata in termini fisici/neurologici (e ci dedicherò un post) o, soggettivamente, in termini più empirici. Voi che differenza vedete fra il sognatore e il preoccupato? Quale fra i due è rigido e presuntuoso e quale leggero e aperto? Come vi trattate quando vi state preoccupando e cosa fate (non fate) durante un sogno?

Sono domande facili a cui ognuno di noi sa rispondere almeno un po’. Come se vi chiedessi come si fa ad andare in bici. Sono modi diversi di prendersi, gesti abituali più o meno consci, più o meno automatici, su cui si può riflettere e meditare. Ascoltate il vostro respiro la prossima volta che vi preoccupate. Provate a pensare perchè, se nel pieno di una preoccupazione, succede qualcosa che vi sveglia portandovi alla realtà, qualcosa di davvero consistente, la preoccupazione svanisce come un sogno.

Simone Weil diceva che “ogni volta che si presta veramente attenzione si distrugge un po’ di male in se stessi”. Capita che svegliandosi da una preoccupazione ci si accorga che si stava dormendoci dentro. L’ansia svanisce e l’attenzione ha distrutto un po’ di male. Rimane la Cura ma quella può fare molte buone cose.

Dèi gelosi

“Uno dei cardini dell’analisi è che i pazienti con disturbi narcisistici arrivino a una comprensione emotiva del fatto che tutto l’amore che essi si  erano conquistati a fatica, a prezzo dell’autorinuncia, non riguardava affatto l’individuo che essi erano in realtà: l’ammirazione per la loro bellezza e le loro buone prestazioni era rivolta alla bellezza e alle prestazioni di per sé e non al bambino reale. Dietro le buone prestazioni si riaffaccia, nell’analisi, il bambino – piccolo e solo – che chiede: come sarebbe andata se di fronte a voi ci fosse stato un bambino cattivo, rabbioso, brutto, geloso, pigro, sporco e puzzolente? Eppure io ero anche tutto ciò. Ciò non vorrà dire, forse, che non io fui amato, ma ciò che fingevo di essere? Che a essere amato fu il bambino educato, ragionevole, scrupoloso, capace di mettersi nei panni dell’altro, il bambino comodo che non era affatto un bambino? Che cosa ne è stato della mia infanzia? Non ne sono forse stato defraudato? Mai potrò recuperarla. Fin dal principio fui un piccolo adulto”.(Alice Miller, Il dramma del bambino dotato, 1979).

Stavo per chiudere il post à la Forrest Gump con un “e non ho altro da aggiungere a questa faccenda” ma poi mi è venuto in mente un parallelismo che vi racconto solo per rafforzare la riflessione di Alice Miller.

La Ruota della Vita o Ruota del Samsara è una delle immagini più diffuse del mondo buddhista. Raffigura i cosiddetti sei regni dell’esistenza che corrispondono a sei possibili stati di coscienza: modi di essere e di sentire che vengono determinati dalle azioni di una persona e che, di conseguenza, ne caratterizzano lo stato d’animo e la quantità di sofferenza. Secondo il buddhismo le mie azioni (karma) creano lo stato di esistenza in cui mi ritrovo e le mie risposte a questo stato lo rendono un inferno più o meno intrappolante: uno stato in cui posso stagnare o un’occasione per risvegliare in me la consapevolezza. “Uno degli aspetti più avvincenti della visione buddhista della sofferenza è l’idea, insita nella rappresentazione della ruota della vita, che le cause della sofferenza sono anche i mezzi della liberazione; vale a dire che la prospettiva in cui si pone colui che soffre determina se un dato regno sarà veicolo di risveglio o di schiavitù.” (Mark Epstein). In altre parole (e semplificando molto): non è tanto la condizione in cui mi trovo quanto la mia risposta ad essa a determinare quanto io soffra. Il paziente di cui parla la Miller è a buon punto quando comincia a realizzare che le buone prestazioni e l’immagine gradevole di sé sono state delle risposte alle richieste di un ambiente ma non hanno niente a che fare con la sua liberazione.

Quest’ultima inizia, invece, con la consapevolezza dello stato in cui ci si trova nonostante le buone prestazioni. Nella psicologia buddhista il piccolo adulto che si è comportato bene e che  ha compiaciuto le richieste degli  adulti e del mondo si troverebbe probabilmente nel regno degli Dèi gelosi: esseri che come i Titani hanno un discreto potere, persone che hanno raggiunto un buono stato di esistenza ma che non sono felici perché sanno che è fittizio. Vivono nella continua paura di perdere ciò che hanno raggiunto e sanno che il risultato degli sforzi compiuti per raggiungere la meta non ha davvero curato la ferita. E lo sanno perché sentono che qualcosa non è stato ascoltato: esaudire i desideri degli altri e adempiere le loro aspettative ha risolto solo la parte esterna del problema, ha acquietato il mondo ma non ha tolto la fame del bambino. Questa fame rimossa può essere una maledizione o un’occasione di cambiamento: può mantenerci nella ripetizione di comportamenti che soddisfano solo l’immagine o può essere l’inizio di una consapevolezza diversa.

E la consapevolezza non deve necessariamente implicare un cambio di atteggiamento. Non c’è niente di male nell’avere buone prestazioni, non è che riportare alla luce il bambino cattivo e pigro significhi smettere di fare o regredire a uno stato di negligenza i cui “l’immagine non conta niente”.

Il compito è un altro: il bambino dotato può chiedersi cosa riempirebbe davvero il vuoto? Su cosa vale la pena di applicare la propria volontà e la propria intelligenza? Quale immagine va curata?

In ognuno dei sei regni della ruota della vita appare l’immagine di un Buddha che impugna uno strumento che rappresenta l’antidoto: ciò che chi stagna in quello stato di coscienza dovrebbe assumere per “darsi una mossa” e per imboccare la via che porta fuori dall’inconsapevolezza e dalla ripetizione automatica.

Nel regno degli Dèi gelosi lo strumento è una spada fiammeggiante che è la metafora della discriminazione, della coscienza delle differenze, della forza di distinguere.

È ciò che dovremmo impugnare quando ci ritroviamo come dei Titani impotenti in un mondo pieno di buone prestazioni ma che non ci soddisfa davvero.

E non ho altro da aggiungere su questa faccenda.

Senza memoria e senza desiderio

“Lo psicoanalista dovrebbe ripromettersi di raggiungere
uno stato  mentale tale da sentire, ad ogni seduta, di non aver mai visto
prima quel paziente. Se sente di averlo già visto,
sta trattando il paziente sbagliato”
W.R.Bion (Cogitations)

Pieter Bruegel il vecchio, Grande torre di Babele

Credo che a Bion piacesse esagerare. Per dimenticarsi di un paziente che viene in seduta, magari per anni, occorre farsi venire l’Alzheimer. Ma certe esagerazioni servono come antidoto e sono estreme perché cercano di curare malattie a lungo trascurate, abitudini intossicanti, credenze fuorvianti.

Tra queste la tendenza a credere che la personalità sia immutabile e che la persona con cui ho a che fare qui e ora debba essere la stessa che immaginavo fosse ieri o il giorno prima. Come se davvero l’avessi incontrata, come se non fosse vero che gli incontri non sono la norma ma l’eccezione e che tutta una serie di convenevoli e di rituali sociali sono difese: modi per evitare l’impatto con l’altro, l’esposizione e l’angoscia di entrare davvero in contatto con un proprio simile.

Bion era, come molti psicoanalisti vecchia maniera, brutalmente onesto. Sapeva che non basta fare lo psicoterapeuta per lasciare fuori dalla seduta difese che abbiamo scrupolosamente appreso. Cose tipo: non mettere gli altri in imbarazzo, non essere curioso, non far salire la tensione, non chiedergli di essere qualcosa di diverso da quello che ti vogliono far vedere; buone norme del convivere civile che mettono al riparo dall’intensità e dalla possibilità di aprirsi troppo. Buone norme che Bion vedeva come ostacoli ad un contatto profondo, come abitudini/vizi di cui essere consapevoli, come abiti da smettere.

Sia la memoria del paziente che quella del terapeuta, sia il desiderio di entrambe, diventano, all’interno di una disciplina che punta a favorire un contatto vero tra persone, una zavorra.

Ricordarmi di chi o cosa tu fossi ieri e desiderare che tu sia… qualcosa che, boh, magari entrambi (o forse solo io) desideriamo adesso (felice, carino, educato,  innocuo…) sono solo convenevoli.

Il “paziente sbagliato” è quello che ho in testa: non la persona presente davanti a me ma ciò che credo sia o che vorrei che fosse. Ricordi, spesso distorti, e proiezioni.

Ingombri che riguardano ciò che è già successo o ciò che immaginiamo stia per succedere invece di ciò che sta succedendo.

Se volete sentire il peso della memoria e del desiderio ricordate una volta in cui, all’interno di un’interazione, avete sentito che dovevate recitare una parte. Una di quelle situazioni da cui si esce con domande come: chissà se sono andato bene? Che impressione avrò fatto? Sarò stato come si aspettava?

Se non era un colloquio di lavoro o un qualche altro tipo di esame, beh, allora avete avuto a che fare con una serie di fantasmi vostri o del vostro interlocutore: le vostre o le sue memorie/istruzioni su come bisogna essere e i vostri o i suoi desideri su quale piacere dovesse essere soddisfatto, quale tensione si doveva alleviare. Non stupitevi se non siete “andati bene”. La verità è che siete stati misurati e giudicati ma non visti!

Né i giudizi né le misurazioni vi sono state comunicate perché, in genere, sono nascoste dietro a una cortina di convenevoli. Ma le smancerie non coprono l’inutilità (e la tossicità) di questo tipo di interazioni.

Lo stato mentale che Bion consiglia e che definisce senza memoria e senza desiderio è  un assoluto e, come tale, probabilmente irraggiungibile. Ma vale la pena fare dei passi verso di esso. Ci sono delle catene da perdere  e si apre la possibilità di fare alcuni incontri interessanti.