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Cigno nero

“Ho già sostenuto che la storia è in gran parte il prodotto di eventi che rientrano nella categoria dei Cigni neri, mentre noi ci affanniamo ad affinare la nostra comprensione dell’ordinario…”
N.N.Taleb

“La teoria del cigno nero è una metafora che descrive un evento non previsto, che ha effetti rilevanti e che, a posteriori, viene razionalizzato inappropriatamente e giudicato prevedibile.” (Wikipedia).

Ma quando accade, quando ci si ritrova a fare i conti con le sue conseguenze e con le nostre reazioni al suo irrompere nella vita ordinaria, quelli che dicono “lo sapevo”… mentono.

Può essere che qualche profeta avesse intravisto all’orizzonte la tempesta e può essere che ne avesse parlato ma i profeti sono immersi nell’ordinario e sembrano matti e nessuno li ascolta e solo a posteriori (non sempre) vengono riconosciuti come preveggenti. Il ché fa esattamente il gioco del Cigno nero: lo rende oscuro, imprevedibile, sconvolgente. 

Una scienza minore come la psicologia non può che fare i conti con le risposte che le persone danno a un evento che rompe l’equilibrio e perturba il solito flusso del quotidiano. Uno psicologo cerca di tenere presente che, anche in uno scenario in cui la gravità dell’evento ci uniforma, ciascuno di noi dà una risposta soggettiva. Rispondiamo al mondo in base al nostro carattere, alla nostra sensibilità e alle nostre credenze: siamo o ci consideriamo più o meno fragili e, in base ad una complessa e sfuggente equazione interiore, ci rapportiamo a ciò che succede e che “ci tocca”. Inoltre, a differenza di un animale che si limita a reagire di fronte a un pericolo percepito, noi umani attiviamo una serie di comportamenti che rispondono anche a pericoli invisibili, ipotizzabili, immaginabili. 

Riusciamo insomma a pre-occuparci, sia nel senso di occuparci-prima (prevedere, prepararsi, correre ai ripari) che nel senso di… andare in sbattimento.

Nella  modalità sbattimento le nostre reazioni sono prevedibili e simili a quelle degli  animali: combattiamo, scappiamo, ci congeliamo (le solite tre F di cui spesso parlo: le tre risposte autonome al pericolo Fight, Flee, Freeze). Con la differenza che un animale attiva queste difese solo di fronte a un pericolo concreto mentre un essere umano, essendo dotato di grande fantasia, può attaccare predatori immaginari, scappare di fronte a pericoli improbabili, congelarsi “alla sola idea di…”. 

Durante un’emergenza uno psicologo dovrebbe aiutare a trasformare questo tipo di preoccupazione che è resa bene dalla parola inglese worry (un’onomatopea che ricorda il verso di un predatore che azzanna: worr!), in una modalità più umana che consiste nel prendersi cura di una possibile minaccia. 

Se costruiamo un continuum su cui distendere la preoccupazione  potremo ad un estremo collocare il lato animale/automatico/reattivo nelle vicinanze del quale osserveremo risposte appropriate a situazioni “naturali” in cui è opportuno reagire velocemente e per breve tempo a pericoli poco ambigui mentre, all’altro estremo, incontreremo le reazioni più “lente”: quelle dettate dalla capacità di stare nella difficoltà senza rispondere subito, quelle adatte ad una situazione complessa come quella che stiamo vivendo nel contesto da cigno nero in cui siamo immersi.

Un contesto in cui credo che ormai sia chiaro a molti che ci sono momenti in cui ritirarsi è saggio e non agire non significa essere inerti. 

La capacità di Stare (stay) è molto diversa dalla reazione automatica di Congelarsi (freeze)!

A forza di film sulle arti marziali dovrebbe essere patrimonio comune l’idea che il vero combattente è colui che riesce a non combattere. Al culmine dell’addestramento in una disciplina che insegna il buon uso della forza l’allievo impara dal maestro a non usarla se non quando proprio non c’è altro rimedio.

Posso, insomma, decidere di non combattere apertamente ma raccogliere le forze e apprendere: escogitare altre strade per far fronte a qualcosa che devo, prima di tutto, comprendere. Più che una reazione è uno stato di coscienza o, se volete, una posizione da tenere, molto più simile allo yoga che alla boxe. 

L’obiettivo di questo star fermi non è l’immobilità ma la fermezza

Nella fermezza c’è tempo per riflettere. La ri-flessione è l’equivalente psichico (e evoluto) della fuga: ci permette di allontanarci intelligentemente dalla minaccia, quel tanto che basta per studiarla e, poi, per contenerla. 

Certo, quando il nemico è aggressivo e incontenibile quanto quello che viene affrontato in questi giorni, non basta stare fermi. Come in un corpo il sistema immunitario fa del suo meglio per combattere e sconfiggere ciò che minaccia l’integrità dell’organismo, allo stesso modo un’intera porzione del nostro sistema sociale è impegnata in una dura lotta per creare distanza e guadagnare tempo e terreno. Molti di noi in questi giorni sono in prima linea e, proprio come degli anticorpi specializzati, contrastano in ogni modo gli effetti distruttivi della calamità che perturba e sconvolge la nostra vita.

Credo che chi sta nelle retrovie abbia il dovere di allenarsi alla fermezza e alla riflessione. Non sappiamo niente degli effetti che alla lunga questo Cigno nero imporrà al nostro stile di vita. Fingere di saperne qualcosa sarebbe stupida supponenza. Credere di essere indenni o invulnerabili è in questi casi un modo per coltivare la negazione: una difesa mentale tipica della psicosi. Sarebbe inoltre offensivo nei confronti di chi si sta sacrificando per renderci tutti meno fragili. 

Se il Cigno nero preme per uniformarci possiamo farlo in un modo saggio.

Possiamo orientare la nostra riflessione e restare uniti verso uno stile di pensiero più sano e meno separato. 

Ne parlerò ancora. Anch’io ho più tempo e scrivo tra una seduta e l’altra (online). 

Vi lascio, per ora, con una breve poesia che parla della buona solitudine e del protendersi verso ciò che è fuori di noi.

Nella mia quieta capanna di paglia,
siedo da solo.
Le nubi sonnecchiano
alla bassa melodia del mio canto.
Chi altro è lì che può conoscere
l’intento sottile della mia vita?
Kim Sujang

L’ansia, il corpo, la relazione

“Gli innamorati non si grattano”
R. Birdwhistell

La Cinesica è lo studio dei caratteri individuali attraverso i movimenti caratteristici del corpo. Il termine fu ideato dall’antropologo Ray Birdwhistell negli anni ‘50 del secolo scorso. Di lui si racconta che sapesse individuare la lingua usata da un soggetto semplicemente osservandone i gesti. 

La frase dell’incipit è tratta da un suo intervento in una discussione tenuta all’Università di Princeton a cui parteciparono illustri scienziati di diversi campi (tra loro Gregory Bateson e Margaret Mead). L’obiettivo della discussione era quello di definire in modo approfondito il concetto di gioco. 

Dice Birdwhistell: “Nelle ricerche di cinesica adoperiamo un proverbio: ‘gli innamorati non si grattano’. Una delle cose che (nelle nostre osservazioni sul campo) ci colpirono immediatamente fu che non si grattano mai né gli innamorati nel parco, né una mamma e un bambino che si stanno divertendo insieme. Negli esseri umani c’è un’irritazione della pelle, legata alla situazione; per esempio nella comunicazione, quando gli interlocutori stanno negando una comunicazione o se una persona pensa ‘sto mentendo’, osserverete che si gratta il naso o noterete qualche altra attività che indica prurito.” 

Durante un dialogo tra persone il messaggio è composto: dalle parole che vengono dette (la componente verbale), dal tono, timbro e ritmo del discorso (la componente vocale), dalla postura, i gesti, la mimica facciale, la distanza tra corpi (la componente non-verbale). Quest’ultima corrisponde a circa il 55% del messaggio e, gran parte di essa è “non voluta”. Non stiamo troppo a pensare a cosa fa il nostro corpo mentre siamo impegnati in uno scambio comunicativo: il corpo agisce la comunicazione, si prende lo spazio e… sperimenta una certa quantità di stress dovuto a quanta resistenza trova dall’altra parte (nell’interlocutore), quanto è “difficile/scottante/leggero” l’argomento, quale è lo scopo dello scambio (sedurre, vincere un round, impressionare, ascoltare attentamente ecc.).

Ogni comunicazione (anche certi silenzi che dicono e agiscono molto) contiene una certa quantità di stress a cui il corpo reagisce seguendo una regola implicita che, all’incirca recita così: “non lasciare che la sensazione sgradevole connessa a questo stimolo superi una certa soglia, sappi che la puoi sopportare per un po’ ma che, se dura troppo, diventa faticosa da reggere, provvedi ad alleviarla o dovrai combattere lo stimolo (Fight), o allontanarti/fuggire (Flee), o fingerti morto (Freeze)”. Prima di ricorrere ad una delle tre F di cui sopra ci sono una quantità di strategie che il corpo di chi è impegnato in uno scambio comunicativo può mettere in atto per abbassare lo stress. Tra queste il  tentativo di eliminare una certa irritazione grattandosi.

Sembra che per gli innamorati e per la diade mamma-bambino impegnata nel gioco la tolleranza allo stress sia diversa da quella di altri soggetti osservati e non perché l’attività in cui sono immersi sia in sé meno stressante di altre. Sia la relazione di una madre con il suo cucciolo che quella tra due persone che si amano implicano un grande coinvolgimento emotivo e una buona dose d’ansia: entrambi i rapporti coinvolgono profondamente i soggetti che vi partecipano che sono consapevoli dei premi e delle punizioni connessi al successo o al fallimento della relazione.

Eppure c’è un qualcosa che fa sì che lo stress presente nella relazione venga non solo sopportato meglio ma addirittura cercato. Uno dei fattori che più modifica la percezione della tensione, della fatica, dell’equilibrio precario e del rischio della relazione è la cosiddetta cornice del gioco: l’immersione in un contesto condiviso in cui si sa che si fa sul serio ma anche che si sta giocando. 

Una piccola paziente in seduta con lo psicanalista Adam Phillips, descrivendo una situazione di gioco con la madre, diceva: “Quando giochiamo coi mostri e la mamma mi cattura, non mi uccide mai, mi fa solo il solletico”. È una descrizione perfetta di cosa sia il fare-come-se: il bambino per divertirsi deve credere che essere catturato sia spaventoso ma deve anche poter sentire che il legame è sicuro e che, quindi, la punizione sarà il solletico: un “prurito piacevole”, una tortura innocua.

Non con tutti i genitori questa cornice rassicurante si viene a creare e non in tutte le relazioni amorose si riesce a giocare senza farsi male. Ci sono rapporti in cui il possesso e la gerarchia diventano più importanti della reciprocità. In questi rapporti la capacità di giocare viene come amputata e lo stress della relazione diventa pericoloso. 

Una madre depressa o un partner geloso e possessivo agiscono, spesso inconsapevolmente, un sabotaggio della cornice, un disturbo che, come un prurito, toglie energia e rovina il gioco. 

Pensate all’ansia che può provare un bambino che sente che la madre o il padre diventano distanti o minacciosi o ambigui (come negli abusi) o allo stress che si genera in una coppia quando uno dei due attori cerca di imporre all’altro il proprio volere. 

Le rassicurazioni del legame così come gli attacchi al legame sono quasi sempre dei metamessaggi. Più che dire a una persona che le vogliamo bene o che la detestiamo compiamo una serie di gesti che intendono quella cosa: creiamo o togliamo il contatto visivo, ci avviciniamo o ci allontaniamo più o meno bruscamente o delicatamente, teniamo conto intuitivamente dello stress che c’è nella relazione e agiamo per abbassarlo o per aumentarlo. Se la relazione è buona questo lavoro sulla tensione diventa una danza condivisa, una sintonizzazione come quella che si verifica tra due innamorati o in un gioco tra adulto e bambino. 

La cornice fa la differenza. Quando stiamo giocando entriamo in uno scenario che ha come sfondo la consapevolezza che  ciò che si sta facendo contiene tante cose tra cui, sicuramente: il corpo dei giocatori, l’ansia della sfida, la relazione che, nel gioco, viene messa alla prova e che dal gioco deve uscire temprata

Volendola mettere in termini clinici, credo che possiamo dire che il gioco è uno stato di coscienza in cui gli attori sono uno di fronte all’altro ma, nello stesso tempo,  sanno di essere affiancati. La relazione viene sia sfidata che rassicurata e… appresa.

L’ansia in questo scenario non è che un ingrediente necessario che si trasforma da stimolo nocivo in piacevole eccitazione. Gli innamorati non si grattano. 

Forme dell’attenzione: il Domandare

“The soul should always stand ajar”
(Dovrebbe sempre star socchiusa, l’anima)
Emily Dickinson

Ci sono molti modi di chiedere, molte sfumature che siamo in grado di usare quando, in una relazione, ci mettiamo dalla parte di chi si aspetta una risposta. 

In inglese, ad esempio, si distingue tra Ask (chiedere gentilmente per avere una risposta) e Demand (pretendere, chiedere insistentemente e con forza per ottenere ad ogni costo).

Quando cerchiamo di insegnare a un bambino ad aggiungere “per favore” alle proprie richieste gli stiamo chiedendo di modulare la propria forza tenendo presente la resistenza e la sensibilità di colui a cui si sta rivolgendo. Tutti (o quasi tutti) ci siamo fatti, crescendo, un’idea di cosa siano la confidenza, la soggezione, il rispetto, la complicità, l’ossequio, l’insolenza… Chiediamo più o meno timidamente a seconda dell’interlocutore, del contesto e della nostra tolleranza del rifiuto.  

E poi ci sono le richieste che facciamo a noi stessi: pretese più o meno gentili nei nostri confronti, aspettative interne, minimi sindacali irrinunciabili, residui di ciò che ci è stato sempre chiesto e che “abbiamo fatto nostro”, domande a cui non abbiamo ancora risposto o che rifiutano più o meno garbatamente i nostri tentativi di esaurirle. 

Se la domanda fosse una porta, nel neonato la vedremmo spalancata. I cuccioli di essere umano sono infatti altamente bisognosi e all’inizio della loro vita non fanno che chiedere limitandosi a piccole risposte istintive come il riflesso di suzione o, un po’ più avanti, il “sorriso a specchio” o le prime piccole imitazioni di gesti o suoni.

Anni dopo, in seduta, capita di vedere un quarantenne che parla di sé come di un neonato che ha sempre fame o che, senza accorgersene, si comporta come se i suoi bisogni fossero così particolari e impellenti da non poter essere capiti o contenuti. 

O capita, all’opposto, di osservare certi adulti che fanno di tutto per non chiedere o che trovano doloroso aprirsi per protendersi verso qualcosa che desiderano. 

Possiamo leggerle come forme diverse dell’attenzione: posture che abbiamo assunto e che più o meno consapevolmente indossiamo, modi che manteniamo e che determinano il nostro protenderci o ritirarci.

Il goloso, l’avaro, il lussurioso; lo spirito famelico, il narcisista geloso, l’insaziabile invidioso… sono stati di coscienza (o incoscienza) in cui tutti possiamo soggiornare più o meno a lungo.  Sono anche modi di relazionarci e ognuno di essi potrebbe essere collocato su un continuum che valuta quanto domandiamo: quanto, riguardo al chiedere, siamo aperti o chiusi, affamati/sazi, ansiosi/evitanti.

Immaginate a un estremo il neonato “innocente” che sa solo chiedere e, all’altro, il cinico incallito che crede di avere tutte le risposte. E immaginatevi in qualche  punto sulla linea immaginaria che li collega. 

Come si sta dalle parti del bambino bisognoso? E come ci si sente quando si crede di avere la verità in tasca? Come si sentono gli altri quando hanno a che fare con le nostre personali versioni del bambino o del vecchio? Esiste una posizione ottimale in cui si possa smettere di chiedere compulsivamente e, tuttavia, non smettere di indagare?

Sono solo alcune delle possibili domande sul Domandare. Credo che le riposte non possano che essere soggettive e credo che per dirla con Gadamer: “… colui che sa domandare, sa tener fermo tale domandare cioè sa tenere la direzione verso l’aperto indicato dalla domanda. L’arte del domandare è l’arte del domandare ancora, ossia l’arte stessa del pensare.”

Si tratta di non cadere nella tentazione della risposta e di chiedersi in che modo si sta chiedendo. È uno stare aperti senza essere spalancati, senza diventare solo dei consumatori inconsapevoli (la versione “adulta” del bambino affamato).

Credo che per tenere l’anima socchiusa occorra cimentarsi nel compito di affinare la domanda: non rispondere subito o, anche dopo aver trovato una prima risposta, adottare l’atteggiamento che suggeriva Feynman: “Quando lo scienziato non sa la risposta a una domanda, è ignorante. Quando ha una vaga idea del probabile risultato, è incerto. E quando è sicuro del risultato, maledizione, gli rimane ancora qualche dubbio.” 

In molti contesti conviene concentrarsi sulla propria “postura”.

State socchiusi! Tanto la risposta… vola nel vento. Auguri, drdedalo 

Evitamenti

“Porto con me le ferite di tutte le battaglie che non ho combattuto”
Fernando Pessoa

In psicologia clinica con il termine Evitamento si intende un modo di pensare e di comportarsi che non consente alla persona di affrontare una situazione di cui ha paura.

Di per sé il gesto di evitare qualcosa che ci spaventa non è patologico: è del tutto naturale allontanarsi da ciò che si ritiene possa essere doloroso, così come è naturale protendersi verso un oggetto che sembra piacevole. È grazie a questa sorta di saggezza (quasi) istintiva che non ci siamo estinti. Nei momenti di pericolo i nostri antenati si sono lasciati guidare da una parte arcaica del cervello: il tronco encefalico che contiene i nuclei addetti a tre risposte istintive fondamentali, le cosiddette tre F: fight (combatti), flee (scappa), freeze (congelati/fingiti morto).

In genere davanti a un pericolo un animale può scappare-nascondersi o, se vale la pena (se l’oggetto pericoloso può diventare una preda) o se valuta che non riuscirà a fuggire, può attaccare. Se le prime due opzioni falliscono lo stesso animale può  cadere in uno stato simile alla morte, una sorta di svenimento in cui le funzioni vitali sono ridotte al minimo, gli organi interni (il cervello in particolare) corrono meno rischi e… magari il predatore se ne va, magari il pericolo scompare.

Gli esseri umani possono usare le stesse reazioni istintive degli animali. Possono inoltre contare su altri meccanismi più evoluti e tipici di parti del cervello più recenti e complesse. Nella corteccia cerebrale (che si trova spazialmente qualche centimetro sopra al tronco encefalico ma moralmente in un altro universo) il fight può trasformarsi in lavoro e progettualità, in capacità di accettare la sfida è trovare strategie per superare l’ostacolo; il flee diventa un ripiegamento/ri-flessione, una capacità, cioè, di trattenersi e ritirarsi quel tanto che basta per pensare prima di agire; il freeze… beh il freeze sublimato credo sia difficile da descrivere ma penso abbia a che fare con una capacità di mantenere una posizione nello spazio nonostante tutto, come quella  che caratterizza i gesti paradossali e sovrumani messi in atto da Gandhi che digiuna per quaranta giorni o da quelli che riescono a porgere l’altra guancia, ecc.

L’evitamento è un meccanismo di difesa alla cui base, negli strati più profondi e antichi, giacciono sia il flee che il freeze e, più in superficie, sopra alle reazioni primordiali, un intero stile di pensiero che gira intorno all’idea di sicurezza.

La persona evitante crede di poter stare al sicuro: è convinta di essere in grado di schivare il pericolo e considera che non esponendosi non dovrà affrontare stimoli che le mettono ansia. Non sa che più evita uno stimolo ansiogeno più la sua percezione di pericolosità dello stimolo evitato aumenta. L’idea, per esempio, che evitando i luoghi aperti e affollati si possa non soffrire di agorafobia, fa sì che più si sta al chiuso e in un luogo protetto più si diventa sensibili a qualsiasi esposizione. Ci sono pazienti fobici che cominciano a non frequentare luoghi sconosciuti e finiscono con il non uscire di casa. Ne ho conosciuto uno che non esce mai da solo e “preferisce non andare sul balcone”.  

L’evitamento si fonda sul presupposto che esistano luoghi perfettamente sicuri (la tana-casa) e che quelli che non lo sono possano essere bonificati dal pericolo (sterminiamo tutti i lupi, cacciamo gli stranieri, ecc.). Ma è un ragionamento primitivo che non tiene conto della mente. Infatti, mentre per un animale la paura è qualcosa di essenzialmente esterno e il rifugio è “un luogo protetto e distante dal pericolo”, per l’uomo la paura è prima di tutto interna e si manifesta come ansia (previsione e preoccupazione per possibili pericoli). L’essere umano è fisiologicamente poco adatto a predare e a fuggire. Per lui rifugio è principalmente relazione: apertura, alleanza, partecipazione. Anche i gesti apparentemente più difensivi sono, per gli uomini, gesti che presuppongono una condivisione e un’intesa, un accordo e una collaborazione. Costruire una casa o un castello  per proteggersi implica prima di tutto un’alleanza con altri che ci aiutino a farlo.

Purtroppo chi decide di soccombere all’ansia evitando ciò che spaventa è invece certo della soluzione quasi animale che mette in pratica. Non mette mai in dubbio che il chiudersi e il  ritirarsi scongiureranno il pericolo.

Come dice Phillips: “Per il fobico l’oggetto o la situazione che ispirano terrore sono al di là di un atteggiamento scettico: costui agirà come se conoscesse queste cose alla perfezione, per quanto assurda la cosa possa apparire ai suoi occhi o a quelli della gente. Lo scetticismo si riversa invece sugli interpreti del suo comportamento.”

Insomma il fobico si protegge dall’ansia evitando anche chi cerca di convincerlo dell’inutilità della propria difesa. Così facendo contribuisce alla propria nevrosi e la consolida: si allontana da chi prova a portare il discorso su un livello meno primitivo e  ripete: insiste nella propria soluzione.

Eppure, come scrisse il poeta Robert Frost: “la via per uscirne è passarci attraverso” (the only way out is through). Il passaggio, il viaggio attraverso, la decisione di affrontare una terra incognita, sono l’inizio della cura delle fobie e della loro soluzione nevrotica. È una cura che inizia con un gesto che, paradossalmente, sembra un evitamento: il rifiuto di lasciarsi andare all’istinto e alla reazione, la scelta di pensare e di rispondere tenendo conto della complessità. Una cura che è un invito alla riflessione e allo scetticismo nei confronti della prima antica reazione.

Resistenze

“L’esistenza è inesorabilmente libera e quindi incerta”
I.D.Yalom

Quando in psicologia si parla di resistenza in genere si fa riferimento a una difesa contro qualcosa di temuto: contro qualche contenuto del mondo o della psiche che potrebbe far soffrire chi, invece, “decide” che quella cosa non la vuole vedere, affrontare, sopportare.

Ci difendiamo da nemici esterni ed interni e lo facciamo più o meno consciamente. Certe resistenze sono volute e consapevoli ma, siccome sin dalla nascita lottiamo in molti modi per tenere fuori parti del mondo e per evitare il dolore, gran parte dei filtri che stanno tra noi e la sofferenza si attivano da soli. Tante resistenze sono quindi inconsce il ché equivale a dire che non sappiamo più bene da che cosa ci difendiamo e che i nostri confini hanno una permeabilità strana: ci sono stimoli che ci spaventano solo perché qualcosa in noi reagisce nei loro confronti come se fossero nocivi.

Basta osservare certe fobie per avere un’idea di questa scelta irrazionale dei “nemici”. Un paio di persone che ho seguito in terapia erano terrorizzate dalle farfalle, un paziente che vive a Milano aveva il terrore di essere assalito da un leone la sera quando rientrava a casa e doveva percorrere il vialetto fino alla porta d’ingresso, una ragazza ha rifatto innumerevoli volte il test dell’HIV pur non avendo da anni rapporti a rischio, ecc.  

Ognuno di loro si rendeva conto della “follia” insita in queste paure. Tuttavia, così come non serve decidere di non pensare a qualcosa per toglierselo dalla testa, allo stesso modo non basta essere consapevoli dell’irrazionalità di un comportamento per modificarlo.

Come ebbe a dire Rollo May “l’angoscia cerca di diventare paura”: preferiamo che il terrore abbia un volto, cerchiamo di dare un nome al nemico e di immaginare qualcosa da cui difenderci piuttosto che difenderci dal… nulla. Ciò che differenzia la paura dall’angoscia è che mentre la prima ha un oggetto, quando siamo preda della seconda non abbiamo nulla contro cui combattere e proprio da questo siamo angosciati.  

Invece “Se riusciamo a trasformare una paura del nulla nella paura di qualcosa, possiamo mettere assieme una qualche campagna autoprotettiva, ovvero possiamo evitare la cosa di cui abbiamo paura, cercare alleati contro di essa, sviluppare rituali magici per placarla, pianificare una campagna sistematica per disintossicarla”(Yalom).

Possiamo, insomma, sentirci meno impotenti.

Purtroppo con questa “soluzione” rischiamo di cadere nella trappola dell’ubriaco della storiella che, avendo perso la chiave di casa, la cercava sotto a un lampione non perché pensasse di averla smarrita in quel punto ma perché… lì c’era la luce. Scegliamo un nemico comodo contro cui resistere. É per questo motivo che uno psicoterapeuta cerca di far vedere al proprio paziente che c’è qualcosa sotto: c’è una profondità verso cui guardare e un retroscena per quasi tutte le nostre paure; ci sono vecchi dolori e abbandoni e solitudini che mettono in scena i leoni e le farfalle e le altre bizzarrie di cui riusciamo ad essere terrorizzati; ci sono molti innocui fantasmi e poche sostanziali minacce, mostri di cartapesta che coprono ciò che davvero andrebbe osservato.

Ci sono persone che fanno il lavoro contrario a quello dello psicoterapeuta. La storia insegna che chi vuole che ci arruoliamo contro qualche specifico nemico accende un lampione proprio lì dove vuole che mettiamo l’attenzione. E siccome comunque gli esseri umani preferiscono avere un oggetto contro cui dirigere la propria energia psichica capita che interi gruppi e a volte intere nazioni si convincano che è il caso di combattere contro certi fantasmi e che la paura finirà quando certi nemici verranno sconfitti e la sicurezza e la prosperità saranno possibili solo quando…

Ecco perché conviene, quando si guarda la luna indicata dal dito, accettare prima di tutto la propria stupidità: conviene adottare quella che nello zen viene definita mente del principiante e guardare, sì, la luna ma guardare molto bene anche il dito. Chi sta indicando che cosa? Quale lampione accende e cosa vuole che vediamo?

La “persona adulta”

“Il modo in cui gli altri trattano te è il loro karma;
il modo in cui tu reagisci è il tuo karma”
Wayne Dyer

Leggevo in questi giorni su un libro di Yalom un aneddoto che racconta dello scrittore francese André Malraux che intervistando un prete di parrocchia che aveva raccolto confessioni per cinquant’anni gli chiese che cosa avesse imparato del genere umano. Il prete rispose: “Innanzitutto, che la gente è molto più infelice di quanto si pensi […] e poi il fatto fondamentale è che non esiste quella che si definisce una persona adulta”.

È una frase che mi ha colpito ed è stata il pretesto per questo post che, come spesso mi capita, è anche un misto di cose di cui ho parlato recentemente con alcuni miei pazienti.

Dunque “l’adulto non esiste”: ci sono così tanti residui di infanzia in ognuno di noi ed è così facile regredire a livelli antecedenti alla nostra età cronologica che diventa difficile immaginare una persona completamente cresciuta, una sorta di essere “arrivato” e pienamente responsabile. Perché, in genere, questo si intende con la parola adulto: una persona che ha raggiunto il pieno sviluppo fisico e psichico, secondo la Treccani. Ed è su “psichico” che casca l’asino ché a diventare maturi fisicamente sono capaci tutti, basta aspettare e vivere in una condizione in cui il cibo sia sufficiente e il welfare discreto.

Ma nella “crescita psichica” ci sono passi che non sono così automatici, gradini ripidi che andrebbero scalati e che, invece, sono facili da evitare, consapevolezze o forse saggezze che dovrebbero essere attributi necessari dell’adulto ma che sono difficili da raggiungere e da acquisire. Pezzi di conoscenza su cui bisognerebbe insistere se non fosse che spesso c’è una grande resistenza a parlarne perché sono “passaggi difficili” punti su cui soffermarsi è… quasi doloroso. Tra questi la frase dell’incipit che letta da un bambino diventa la solita banalità sul fatto che quello che fai ti torna indietro, mentre ad un’analisi più adulta risulta essere un corollario della tautologia: non esiste un non-comportamento.  

“… non esiste qualcosa che sia un non-comportamento o, per dirla anche più semplicemente, non è possibile non avere un comportamento. Se si accetta che l’intero comportamento in una situazione di interazione ha valore di messaggio, vale a dire è comunicazione, ne consegue che comunque ci si sforzi, non si può non comunicare. L’attività o l’inattività, le parole o il silenzio hanno tutti valore di messaggio: influenzano gli altri e gli altri, a loro volta, non possono non rispondere a queste comunicazioni e in tal modo comunicano anche loro.” (P.Watzlawick). Sembra molto chiaro, no? Eppure i bambini fino a una certa età credono  che se nascondono il viso e non guardano nemmeno gli altri li vedranno. E molti adulti  direbbero che, sì, certo che lo sanno che se chiudi gli occhi gli altri comunque ti vedono, ma vanno avanti a credere che si possa non rispondere alle domande, fingere di non aver sentito, dare messaggi “neutri”.

Se non rispondi, se ti scansi o se ignori le comunicazioni gli altri se ne accorgono e reagiscono. Non sai se si offenderanno o se diventeranno  insistenti o se fingeranno a loro volta di ignorarti, ma qualcosa faranno e tu non potrai non reagire.

Tutti noi siamo dotati di una sorta di pelle psichica che risponde continuamente al mondo. Ci serve per mantenere una sorta di integrità e per stabilire dei confini. È utile per definire l’Io: il soggetto che siamo convinti di essere e che ci serve per distinguerci e per avere a che fare con gli altri. È fondamentale che, per un corretto sviluppo psichico, il bambino crei questo confine che lo differenzia dal mondo e che gli permette di rispondere nel suo modo originale e, tuttavia, comprensibile.

La differenza fra il bambino e l’adulto è che il primo crede che questo confine sia concreto e che questo guscio divida chiaramente l’Io dagli Altri. Il secondo dovrebbe sapere che il confine cambia in continuazione e noi possiamo decidere molto poco sulla sua permeabilità. Entra quasi tutto! Un adulto dovrebbe sapere che l’Io non è altro che “la struttura delle difese” (Freud) e che più le difese sono rigide più funzionano male. Più ci difendiamo più vediamo nemici; più diventiamo evitanti più ci crediamo subissati dagli impegni; più ci nascondiamo più ci sentiamo osservati, ecc.

Un adulto queste cose le dovrebbe sapere ma “non esiste quella che si definisce una persona adulta”. Dovremmo tenerlo presente e lavorarci promuovendo quella che in psicoanalisi si chiama responsabilità soggettiva: quel gesto che favorisce l’evoluzione e che riporta sempre il soggetto ad interrogarsi su ciò che lei/lui fa.

È una forma di etica che si fonda sull’idea che non si può sfuggire a niente.

In una vecchia leggenda araba si racconta di quel servo che si recò trafelato dal padrone per dirgli che aveva incontrato la Morte al mercato e che voleva un cavallo veloce perché doveva scappare e correre a Samarcanda dove sarebbe stato in salvo. Il padrone glielo diede e poco dopo, recatosi anche lui al mercato incontrò la Morte. Le chiese come mai avesse spaventato così tanto il suo povero servitore. La morte rispose che non voleva spaventarlo ma che si era solo stupita di vederlo lì perché il loro appuntamento sarebbe stato, invece, la sera stessa a Samarcanda.

Queste cose un adulto dovrebbe saperle.

Lasciar andare: un’amplificazione

“Di solito le persone si sottopongono alla conversazione psicoanalitica perché a un certo punto la storia che raccontano a se stesse si interrompe o diventa troppo dolorosa, o per entrambi i motivi.”
A.Phillips

Uno dei personaggi di Infinite Jest entra in una stanza da letto in una centro di recupero per tossicodipendenti e vede sul muro un poster con la scritta: “Tutto ciò che ho lasciato aveva i segni delle mie unghie” (Everything I’ve ever let go of has claw marks on it).

Visto il contesto viene da pensare (come hanno fatto i traduttori) che le unghie siano quelle del soggetto della dipendenza: quelle di chi sta tentando dolorosamente di smettere con un comportamento che lo lega a una o più “sostanze” e che lo vincola a un irrinunciabile oggetto del desiderio.

Ma è anche vero che è la dipendenza a non lasciare la persona e espressioni come: “era preda dell’eroina; non riusciva a liberarsi del vizio dell’alcol; era completamente succube di quella persona” sembrano avvalorare questa seconda descrizione.

Come se fosse l’oggetto ad invischiare il soggetto e come se gli artigli che non lasciano andare fossero quelli dell’abitudine che non può essere interrotta, dell’ossessione che non si lascia lasciare.

Sono modi diversi per parlare di un legame e capita in seduta di sentire sia la prima che la seconda versione. Ci sono pazienti che si lamentano della loro scarsa volontà e chiedono di trovare la forza per cambiare e per smetterla di essere dipendenti da qualcosa o da qualcuno e ce ne sono altri che mostrano i segni delle unghie e che raccontano di quanto non dipenda da loro, di quanto non possano fare diversamente.

Uno psicoterapeuta alle prime armi (tutti abbiamo dentro di noi uno psicoterapeuta alle prime armi) cerca di rispondere infondendo volontà ai primi e dando fiducia nei propri mezzi ai secondi. Cerca, insomma di “usare il buonsenso” e di aiutare la persona sofferente facendo quello che genitori, amici, preti e angeli custodi hanno già fatto: rendere le unghie più affilate.

Lo psicoterapeuta in erba non sa che, come disse Jung: “Ciò a cui resisti non solo persiste ma tende a diventare più grande” e che, come invece ebbe a dire Einstein: “Non si può risolvere un problema usando lo stesso stile di pensiero che lo ha creato”. Non sa nemmeno, così come non lo sa il paziente, che la cura autentica non consiste nel dare un pesce a qualcuno che ha fame ma nell’insegnargli a pescare (qui invece ho parafrasato Heidegger e me ne scuso ma le amplificazioni funzionano così: vengono in mente cose che stanno intorno all’argomento e che lo allargano).

Quando si tratta di smettere il determinismo e l’autostima funzionano solo come delle resistenze al cambiamento. La Volontà e la Fiducia in se stessi sono ottimi strumenti per non lasciare andare, per tener duro e persistere.

Prendete il senso di colpa: il pungolo su cui si cerca di far leva per convincersi che è il caso di cambiare. Se bastasse il senso di colpa per smettere di bere o di fumare l’alcolismo e il tabagismo non esisterebbero (non dopo i quarant’anni, perlomeno). Il senso di colpa è molto spesso alla base della dipendenza e la rinforza: “mi sento così in colpa per aver mangiato troppo e sto così male che mi tocca fare un’altra abbuffata per togliere almeno un po’ del dolore che mi attanaglia; mi considero una merda per quello che ho combinato sotto l’effetto dell’alcol e il modo più veloce che conosco per non sentirmi una merda è bere qualcosa; mi tratta male ma lo amo e ha bisogno di me, mi sentirei troppo in colpa se lo lasciassi.”

Occorrono altri strumenti per lasciar andare e non è un caso che il primo passo di ogni processo di riabilitazione parta dal riconoscimento della propria impotenza. Se accetto di non essere onnipotente, se la smetto di pensare che volere è potere e vedo che la strada che ho percorso fin qua è lastricata di desiderio di potenza, sono a buon punto. Ho capito che questa storia non sono più in grado di raccontarla o che la racconto sempre nello stesso modo: noioso e doloroso.

È dopo questa fase che si inizia ad uscire dalla spirale autoreferenziale che caratterizza ogni dipendenza ed è grazie a questo primo passo che si va verso un nuovo inizio.

Ogni rito di iniziazione simula una morte: sembra che la ragazza o il ragazzo debbano “morire” prima di accedere al mondo adulto. Pare che ad un certo punto del suo tragitto ogni eroe debba andare incontro ad una sconfitta che lo faccia riflettere sui suoi limiti e che gli insegni a… diventare un altro. La presa sulle cose deve cambiare perché il mondo possa essere descritto in modi diversi.

Non è una questione di volontà ma di attenzione (gli “eroi” sono fin troppo volitivi e afflitti da vari disturbi dell’attenzione).

Una delle cose che un paziente capisce (se il suo terapeuta non fa l’errore di lavorare  sulla volontà e sull’autostima) è che l’Io che cerca di uscire dal problema è lo stesso Io che l’ha costruito. Quell’Io non ha bisogno di stima ma di profondità.

Per raccontare la storia in un modo diverso, per riaprirla o per renderla almeno tollerabile occorre cambiare linguaggio. Come disse Cavell: “L’ignoranza di me stesso è qualcosa su cui debbo lavorare: è una cosa che va studiata come una lingua morta.”.

Sul trauma: a mente serena

“La poiana non ha nulla da rimproverarsi.
Gli scrupoli sono estranei alla pantera nera.
I piranha non dubitano della bontà delle proprie azioni.
Il serpente a sonagli si accetta senza riserve.
Uno sciacallo autocritico non esiste.
La locusta, l’alligatore, la trichina e il tafano
vivono come vivono e ne sono contenti.
Non c’è nulla di più animale della coscienza pulita, sul terzo pianeta del sole”
Wisława Szymborska

La parola trauma deriva dal greco Trayma: perforamento, trafittura. Proprio come la parola trapano che ha la stessa radice, si riferisce al gesto di passare oltre, forare e, quindi, ferire, violare un involucro o una barriera.

È un termine che, anche etimologicamente, rimanda all’idea della perdita di integrità e al verificarsi di un danno.

Ho spesso a che fare con le conseguenze di traumi più o meno gravi ma la prima volta che ho ascoltato un racconto che parlava di un vero e proprio trauma ero bambino.

Raccontava mio padre di un episodio che gli accadde quando a vent’anni era prigioniero in un campo di concentramento nazista. Lavorava in miniera con turni massacranti e un giorno spostando una trave di legno che sosteneva la volta di un cunicolo che stava scavando si ritrovò con una grossa scheggia di legno conficcata sotto un’unghia. Non riuscendo a toglierla e pensando che, andando in infermeria, avrebbe forse ottenuto qualche giorno di lavoro meno pesante, marcò visita e, a fine turno, fu accompagnato da quello che definiva “il dottore del campo”. Questi esaminò la scheggia e la ferita, decise che era il caso di togliere l’unghia e, dopo aver chiesto a un aiutante di tenere fermo mio padre, gliela tolse, con una tenaglia e… a mente serena.

Diceva così: a mente serena. Intendeva senza anestesia ma anche “senza preavviso, a tradimento, in modo traumatico” ma, per me che ero un bambino e che non pensavo di chiedere cosa volesse dire, il termine a-mente-serena, rappresentò per anni un paradosso. Non capivo perché, ogni volta che raccontava di quell’episodio (e glielo ho sentito narrare diverse volte) mettesse l’accento proprio sulla “mente serena” e quando gli chiedevo cosa avesse fatto dopo che gli avevano tolto l’unghia, non rispondeva, diventava laconico e si limitava a un: “l’avrei ucciso!”. Ci misi anni a capire il contesto, a realizzare che non c’era niente che potesse fare e che in quel preciso momento sperimentò quel senso di impotenza che, insieme al dolore fisico e all’impatto psicologico, caratterizza il trauma. E ce ne misi molti altri per comprendere quanto il contorno di un evento doloroso possa fare la differenza. Ciò che sta attorno all’episodio, le persone che intervengono, il clima in cui l’incidente avviene, il sostegno che la persona traumatizzata sente o non sente di avere, il tempo… il tempo per riflettere o meno su cosa sia accaduto… tutte queste cose fanno parte della registrazione dell’evento: di cosa rimane impresso nella memoria e nel corpo. Ciò che rimane è ciò con cui la persona va avanti a fare i conti dopo che l’incidente è accaduto. Nel caso di mio padre l’attributo “a mente serena”, era il cuore del trauma. Spiega a me, oggi, come mai la sua serenità anni dopo fosse turbata da eventi anche piccoli, perché sembrasse sempre “senza anestesia”: pronto a prendersela per pochissimo e ad entrare in una modalità del tipo “potrei ucciderlo” quando qualcosa era per lui improvviso, fuori luogo o inaspettato.

Il Disturbo da Stress Post-Traumatico (PTSD) è un disturbo che rappresenta la possibile risposta di un soggetto a quello che, per lui o lei, è un evento critico abnorme. Ci sono persone che “rispondono bene” ad eventi che per altri sono, invece, profondamente traumatici. Certi individui superano grandi traumi senza apparenti conseguenze e poi crollano o perdono il controllo di fronte a fatti che sembrano essere molto meno gravi di quelli che avevano “superato”. Ciò che rimane impresso nella mente fa la differenza e, in clinica, sappiamo che la maggior parte delle persone che vive sulla propria pelle fatti potenzialmente traumatici ha reazioni emotive che non durano molto a lungo. È come se la mente riuscisse a rendere transitorio l’episodio, come se ci fosse un processo digestivo che permette ai fatti di essere collocati nella memoria e magari catalogati come esperienze brutte o orribili ma… passate.

La risposta è il modo in cui, quel particolare sistema, quell’individuo che ha subito un evento avverso, riesce a gestire ciò che gli è successo. A volte intere parti dell’episodio non vengono digerite e rimangono ferme: come se si cristallizzassero nel tempo e continuassero a ripetersi.

Diceva Freud che “ripetiamo ciò che non ricordiamo”: ciò che non riusciamo ad elaborare è ripetuto senza variazioni come un solco troppo segnato su un vecchio disco, qualcosa in cui la memoria si inceppa e… non va oltre.

Nei film spesso il PTSD è rappresentato come la ripetizione quasi letterale di un grave evento di guerra: un ex militare sottoposto a fattori di stress che in qualche modo ricordano un episodio che ha vissuto al fronte, risponde con modalità violente di attacco-fuga mettendo a repentaglio la propria incolumità è quella di altri. Nella vita di tutti i giorni è difficile assistere ad una rivivificazione così drammatica e appariscente. Molto spesso solo certe parti del trauma vengono a galla entrando direttamente nelle azioni del paziente. È più probabile che la riattivazione di un trauma sia, invece, la re-stimolazione di certe sensazioni, di certi stati d’animo o di una serie di automatismi che riguardano il modo interno della persona. Capita che, quando eventi passati “non digeriti” si riattivano, la persona che ne subisce gli effetti si ritrovi ad affrontare non più la propria vita così com’è nel presente ma la somma di ciò che avviene più le scorie di ciò che è avvenuto. E, siccome ciò che non è stato digerito non è certo piacevole, la re-stimolazione di parti del trauma rende penoso il momento presente di chi la subisce.

Mentre la poiana, il serpente e gli altri animali della poesia dell’incipit possono, tranne casi di cattività, “vivere come vivono ed esserne contenti”, gli umani sanno che le loro risposte a ciò che li circonda possono essere pensate e che c’è o ci dovrebbe essere spazio per scegliere fra varie possibilità. Il trauma è, in misura più o meno seria, la perdita di questa libertà. Se non è superato si ripete e ci rende più automatici, meno liberi e più sofferenti. Andrebbe osservato a mente serena ma la domanda è: “com’è possibile essere lucidi, consapevoli e liberi dopo essere stati vittime di certe esperienze?”. Non si può certo rispondere con un singolo post. Ma si può cominciare a chiederselo e a pensarci per bene.

Maschera dipinta da un marine affetto da disturbo post-traumatico da stress durante l’arteterapia.

Il letto di Procuste

“Il mondo che troviamo all’esterno di noi è, almeno in parte, il ricettacolo del  
          terrore che abbiamo dentro di noi”
Adam Phillips

Qualcuno ha detto che i Miti sono eventi mai avvenuti che si ripetono continuamente. Un mito è un “come se”: una narrazione che svolgendosi spiega qualcosa, una storia che fa luce su un aspetto della psiche, del comportamento o della relazione.

Si racconta, per esempio, che sulla strada che andava da Megara ad Atene ci si potesse imbattere in un brigante soprannominato Procuste che possedeva due letti, uno grande e uno piccolo, e che si dilettava in un particolare tipo di tortura: dopo averli catturati metteva tutti i viandanti di bassa statura sul letto lungo e quelli alti sul letto corto; i primi venivano stirati con violenza per essere allungati mentre ai secondi venivano tagliati i piedi o parte delle gambe in modo da adattarli al giaciglio.

Da allora con il termine letto di Procuste si fa riferimento a una situazione angosciosa in cui ci si sente forzati a corrispondere ad un modello e nella quale si è costretti a un adattamento snaturante, un processo che per renderci conformi ci fa soffrire storpiando e mutilando.

Son sicuro che tutti voi potete trovare almeno una volta in cui, nella vita, vi siete trovati su una qualche variante più o meno dolorosa del letto di Procuste. So, insomma, che conoscete bene i sintomi che accompagnano l’adattamento, la costrizione e il dover subire. Ci sono forze che deformano e che  mettono a dura prova l’elasticità, la salute psichica (e a volte anche fisica) di chi le sperimenta. Incontriamo molti Procuste e a volte li portiamo con noi sotto forma di tormenti interni: istanze quasi estranee per le quali non andiamo mai bene: troppo grasso, magro, piccolo, diverso, inadatto, sbagliato… La psicoanalisi ha trovato nomi per queste “forze interne”e per i complessi che ad esse sottendono, la psichiatria ha definito sindromi che spiegano la rigidità delle difese e i tratti patologici di personalità.

Ma già i miti avevano detto la loro sul meccanismo per cui adattandoci possiamo assumere forme che perpetuano il dolore del trauma e che cronicizzano modi di essere ben poco armonici.

Il mito è un invito alla riflessione, uno strumento per l’introspezione e spesso tra le sue pieghe è già presente un Pharmakon, un rimedio alla condizione patologica senza apparente via d’uscita che il racconto prospetta. Procuste, per esempio, venne ucciso da Teseo che gli fece subire la stessa sorte a cui lui sottoponeva le sue vittime.

Teseo compì molte altre mirabili gesta. Si narra che la nave sulla quale viaggiava subì così tanti danni e fu talmente soggetta all’usura del tempo che tutte le sue parti vennero sostituite. Eppure la nave è rimasta la nave di Teseo.

La capacità di cambiare continuamente e di mantenere tuttavia la propria identità originaria; il poter essere dei viandanti a cui non vengono risparmiati dolorosi incidenti di percorso e che, come la nave di Teseo, mantengono la propria forma non è che la descrizione parallela di un altro Mito di cui egli è protagonista: quello che lo vede come l’eroe che sconfisse il Minotauro e che, grazie al filo fornitogli da Arianna può ritrovare la strada fuori dal labirinto, quella che gli permette di tornare. Come dire che occorre perdersi un po’ per ritrovarsi, che vale la pena di andare incontro ad alcuni rischi contando sulla propria capacità di ripararsi e che ci sono dei fili/processi che ci permettono di sperimentare strade diverse anche molto complesse preservando comunque la nostra capacità di persistere.

Il contrario del tentativo di adattarsi forzatamente a un modello, l’opposto di quello che farebbero i vari Procuste, interni ed esterni.

Chi incontriamo sulla strada verso Atene? Fuori, nella relazione, o dentro, interiorizzato come una “voce interna”? Un brigante che ci sovrappone ad un modello o qualcuno che promuove la plasticità? Un  rigido conservatore o curioso esploratore? Una descrizione stereotipata o una visione ecologica?

 

Sui sentimenti: omeostasi

“Non saprai mai cosa sia abbastanza, se non saprai cos’è più che abbastanza”
William Blake

L’omeostasi è la capacità di un organismo di mantenere un equilibrio interno pur nel variare delle condizioni dell’ambiente esterno. Sudare quando fa molto caldo e avere i brividi (e arruffare il pelo o vestirsi) quando fa freddo; bere quando si ha sete e mangiare per placare la fame; questi e molti altri gesti sono modi per sopravvivere, risposte a stimoli esterni o interni che indicano una perdita di equilibrio e a cui il corpo e i comportamenti pongono rimedio per ricreare uno stato ottimale.

Antonio Damasio nel suo ultimo libro Lo strano ordine delle cose, dice: “L’omeostasi è un potente imperativo, inconsapevole e inespresso, il cui assolvimento implica per ogni organismo vivente, piccolo o grande che sia, il semplice perdurare e prevalere”.

I termini “inconsapevole e inespresso” sono, per me che faccio lo psicologo (e per una mia particolare predilezione), le parole chiave della frase, quelle su cui vale la pena riflettere. È ovvio che non abbiamo bisogno di metterci a pensare per cominciare a sudare quando fa molto caldo ed è evidente che non ci siano gesti consapevoli che regolano la pressione arteriosa o la secrezione di insulina dopo un pasto abbondandante. Sono  processi che avvengono indipendentemente dalla volontà e, come ebbe a dire Bateson, per fortuna la mano sinistra non sa cosa fa la destra: ci sono rimedi che il corpo applica senza che “l’io” faccia niente, senza che occorra un intervento consapevole da parte di un soggetto che, in genere è impegnato in… altro.

Possiamo leggere, interagire con i nostri simili, litigarci o giocare a carte mentre tutta una serie di processi opera per mantenere un equilibrio senza il quale non potremmo né perdurare né prevalere. Mentre tutto questo accade qualcosa dall’interno ci tiene informati su come vanno le cose. Questo qualcosa è ciò che chiamiamo sentimento.

“I sentimenti sono informazioni: essi rivelano a ciascuna mente la condizione di vita all’interno dell’organismo, una condizione espressa lungo un intervallo che va da valori positivi a valori negativi. Un’omeostasi insufficiente è espressa da sentimenti ampiamente negativi; i sentimenti positivi esprimono invece livelli appropriati di omeostasi e schiudono agli organismi opportunità vantaggiose. Sentimenti e omeostasi sono legati in modo stretto e coerente” (Damasio). Insomma, stando molto sul semplice (per ora): se non ho niente sullo stomaco, se ho riposato abbastanza e se mi sento in forze, parto per la prossima azione che ho deciso di intraprendere, che sia il prossimo capitolo del libro che sto leggendo o una giornata di lavoro, con un sentimento positivo: una rappresentazione mentale di come sto che giudico sufficiente o buona.

Il sentimento è una risonanza interna. Qualcosa che sta a metà tra passione e emozione. Se la passione è intensa e duratura e l’emozione è immediata e acuta, il sentimento è… lì in mezzo. Il termine risonanza rende bene l’idea perché se, ad esempio, vedo una persona per la prima volta e provo un’emozione che mi muove verso di lei (questo fanno le e-mozioni: muovono verso o via-da) se sto un po’ con l’emozione e lascio che risuoni dentro di me e giudico che mi sta simpatica, la voglio conoscere, so che la mia omeostasi migliorerà grandemente se avrò a che fare con lei… ecco un sentimento. Se lo coltivo per un po’ può diventare una passione, un innamoramento (o un’ossessione).

Credo che questo stare nel mezzo dei sentimenti sia ciò che li rende “sia fisici che mentali” o, come dice Damasio, dei rappresentanti mentali dell’omeostasi. Credo anche che proprio questa caratteristica di essere degli ibridi corpo/mente sia ciò che fa sì che le persone diventino suscettibili non appena si cerca di definire sentimenti complessi come l’amore o la gelosia in termini puramente fisici/ormonali o romantico/mentali. In quanto “esperienze soggettive dello stato vitale” i sentimenti sono, appunto soggettivi, personali, intimi.

Così, mentre l’omeostasi procede in modo inconsapevole e inespresso a regolare le funzioni vitali, qualcosa negli esseri provvisti di coscienza rivendica la libertà di spostare un po’ le soglie all’interno del continuum che va da  valori positivi a valori negativi di omeostasi. Ci specializziamo in limiti: possiamo mangiare ben oltre al livello di sazietà, superare l’iniziale disgusto verso sostanze tossiche fino a renderne piacevole l’uso e l’abuso, sforzarci di trasformare il dolore in piacere.

Capita così di affezionarci alle nostre dipendenze e di sperimentare stati rischiosi e piacevoli mentre qualcosa nel corpo cerca di far fronte allo squilibrio e di recuperare dopo una scorpacciata, una sbronza, un eccesso. Non sappia la tua destra…

In seduta lavoro molto sull’idea di risonanza. Non ci sono emozioni sbagliate: collera, paura, disgusto, tristezza, entusiasmo, gioia, tenerezza, sono più o meno appropriate a certi contesti, più o meno accettate o censurate. Una domanda interessante sulle emozioni è quanto a lungo vengono fatte risuonare? In cosa si trasforma una collera macerata a lungo? Perché l’entusiasmo “non dura”? Cosa rende cronica la paura?

Lasciar risuonare “dentro”, non lasciar andare, respingere, espellere, custodire; mischiare, diluire, saturare… Ognuna di queste azioni è un tipo di contenimento, un modo di non lasciare andare. Quanto basta? E perché non eccedere?