“La poiana non ha nulla da rimproverarsi.
Gli scrupoli sono estranei alla pantera nera.
I piranha non dubitano della bontà delle proprie azioni.
Il serpente a sonagli si accetta senza riserve.
Uno sciacallo autocritico non esiste.
La locusta, l’alligatore, la trichina e il tafano
vivono come vivono e ne sono contenti.
Non c’è nulla di più animale della coscienza pulita, sul terzo pianeta del sole”
Wisława Szymborska
La parola trauma deriva dal greco Trayma: perforamento, trafittura. Proprio come la parola trapano che ha la stessa radice, si riferisce al gesto di passare oltre, forare e, quindi, ferire, violare un involucro o una barriera.
È un termine che, anche etimologicamente, rimanda all’idea della perdita di integrità e al verificarsi di un danno.
Ho spesso a che fare con le conseguenze di traumi più o meno gravi ma la prima volta che ho ascoltato un racconto che parlava di un vero e proprio trauma ero bambino.
Raccontava mio padre di un episodio che gli accadde quando a vent’anni era prigioniero in un campo di concentramento nazista. Lavorava in miniera con turni massacranti e un giorno spostando una trave di legno che sosteneva la volta di un cunicolo che stava scavando si ritrovò con una grossa scheggia di legno conficcata sotto un’unghia. Non riuscendo a toglierla e pensando che, andando in infermeria, avrebbe forse ottenuto qualche giorno di lavoro meno pesante, marcò visita e, a fine turno, fu accompagnato da quello che definiva “il dottore del campo”. Questi esaminò la scheggia e la ferita, decise che era il caso di togliere l’unghia e, dopo aver chiesto a un aiutante di tenere fermo mio padre, gliela tolse, con una tenaglia e… a mente serena.
Diceva così: a mente serena. Intendeva senza anestesia ma anche “senza preavviso, a tradimento, in modo traumatico” ma, per me che ero un bambino e che non pensavo di chiedere cosa volesse dire, il termine a-mente-serena, rappresentò per anni un paradosso. Non capivo perché, ogni volta che raccontava di quell’episodio (e glielo ho sentito narrare diverse volte) mettesse l’accento proprio sulla “mente serena” e quando gli chiedevo cosa avesse fatto dopo che gli avevano tolto l’unghia, non rispondeva, diventava laconico e si limitava a un: “l’avrei ucciso!”. Ci misi anni a capire il contesto, a realizzare che non c’era niente che potesse fare e che in quel preciso momento sperimentò quel senso di impotenza che, insieme al dolore fisico e all’impatto psicologico, caratterizza il trauma. E ce ne misi molti altri per comprendere quanto il contorno di un evento doloroso possa fare la differenza. Ciò che sta attorno all’episodio, le persone che intervengono, il clima in cui l’incidente avviene, il sostegno che la persona traumatizzata sente o non sente di avere, il tempo… il tempo per riflettere o meno su cosa sia accaduto… tutte queste cose fanno parte della registrazione dell’evento: di cosa rimane impresso nella memoria e nel corpo. Ciò che rimane è ciò con cui la persona va avanti a fare i conti dopo che l’incidente è accaduto. Nel caso di mio padre l’attributo “a mente serena”, era il cuore del trauma. Spiega a me, oggi, come mai la sua serenità anni dopo fosse turbata da eventi anche piccoli, perché sembrasse sempre “senza anestesia”: pronto a prendersela per pochissimo e ad entrare in una modalità del tipo “potrei ucciderlo” quando qualcosa era per lui improvviso, fuori luogo o inaspettato.
Il Disturbo da Stress Post-Traumatico (PTSD) è un disturbo che rappresenta la possibile risposta di un soggetto a quello che, per lui o lei, è un evento critico abnorme. Ci sono persone che “rispondono bene” ad eventi che per altri sono, invece, profondamente traumatici. Certi individui superano grandi traumi senza apparenti conseguenze e poi crollano o perdono il controllo di fronte a fatti che sembrano essere molto meno gravi di quelli che avevano “superato”. Ciò che rimane impresso nella mente fa la differenza e, in clinica, sappiamo che la maggior parte delle persone che vive sulla propria pelle fatti potenzialmente traumatici ha reazioni emotive che non durano molto a lungo. È come se la mente riuscisse a rendere transitorio l’episodio, come se ci fosse un processo digestivo che permette ai fatti di essere collocati nella memoria e magari catalogati come esperienze brutte o orribili ma… passate.
La risposta è il modo in cui, quel particolare sistema, quell’individuo che ha subito un evento avverso, riesce a gestire ciò che gli è successo. A volte intere parti dell’episodio non vengono digerite e rimangono ferme: come se si cristallizzassero nel tempo e continuassero a ripetersi.
Diceva Freud che “ripetiamo ciò che non ricordiamo”: ciò che non riusciamo ad elaborare è ripetuto senza variazioni come un solco troppo segnato su un vecchio disco, qualcosa in cui la memoria si inceppa e… non va oltre.
Nei film spesso il PTSD è rappresentato come la ripetizione quasi letterale di un grave evento di guerra: un ex militare sottoposto a fattori di stress che in qualche modo ricordano un episodio che ha vissuto al fronte, risponde con modalità violente di attacco-fuga mettendo a repentaglio la propria incolumità è quella di altri. Nella vita di tutti i giorni è difficile assistere ad una rivivificazione così drammatica e appariscente. Molto spesso solo certe parti del trauma vengono a galla entrando direttamente nelle azioni del paziente. È più probabile che la riattivazione di un trauma sia, invece, la re-stimolazione di certe sensazioni, di certi stati d’animo o di una serie di automatismi che riguardano il modo interno della persona. Capita che, quando eventi passati “non digeriti” si riattivano, la persona che ne subisce gli effetti si ritrovi ad affrontare non più la propria vita così com’è nel presente ma la somma di ciò che avviene più le scorie di ciò che è avvenuto. E, siccome ciò che non è stato digerito non è certo piacevole, la re-stimolazione di parti del trauma rende penoso il momento presente di chi la subisce.
Mentre la poiana, il serpente e gli altri animali della poesia dell’incipit possono, tranne casi di cattività, “vivere come vivono ed esserne contenti”, gli umani sanno che le loro risposte a ciò che li circonda possono essere pensate e che c’è o ci dovrebbe essere spazio per scegliere fra varie possibilità. Il trauma è, in misura più o meno seria, la perdita di questa libertà. Se non è superato si ripete e ci rende più automatici, meno liberi e più sofferenti. Andrebbe osservato a mente serena ma la domanda è: “com’è possibile essere lucidi, consapevoli e liberi dopo essere stati vittime di certe esperienze?”. Non si può certo rispondere con un singolo post. Ma si può cominciare a chiederselo e a pensarci per bene.

Maschera dipinta da un marine affetto da disturbo post-traumatico da stress durante l’arteterapia.
Le voglio fare i complimenti per i suoi articoli… le storie, le riflessioni e gli agganci alla letteratura ma soprattutto al funzionamento intrapsichico sono sempre molto chiari e mi colpiscono sempre per questo motivo! Credo che lei riesca dare ad eventi psichici dolorosi una forma vitale👌
Con stima e sempre molta curiosità.
Dott. ssa Ingrid Vitali
Nb. Forse il mio cognome non é casuale👌😉
La ringrazio! La sua stima e la sua curiosità mi incoraggiano a scrivere ancora su questi argomenti. La chiarezza è uno degli obiettivi principali che mi pongo quando scrivo e il suo feed-back su questo è molto apprezzato. Un caro saluto, Mauro
ps: sì, bel nome e cognome 😉