“Stupido è chi lo stupido fa”
Forrest Gump
L’idioletto è il linguaggio caratteristico di una persona o di un piccolo gruppo, una sorta di lessico familiare che, oltre alla lingua parlata dai connazionali o dai compaesani della persona in questione, contiene vocaboli o modi di dire che caratterizzano proprio quell’individuo o quel gruppo ristretto di persone che si esprimono così. È la lingua che parliamo in casa, quella che abbiamo appreso e pian piano costruito e che riserviamo solo ai più intimi. Spesso contiene termini usati per rassicurare il legame: piccole parole che a volte sono semplici intonazioni di voce e che si usano per dire implicitamente cose tipo “d’accordo, stiamo discutendo ma, di base, ti voglio bene”.
L’idioletto ha le sue regole. Fra partner si può quasi sempre dire “noo, dai… ‘fanculo, amore” e fra amici ci sta un “oh, ma che cazzo dici?” senza che nessuno si offenda. Ma man mano che si esce dalla ristretta cerchia dei propri cari, l’idioletto viene messo da parte e si passa ad un linguaggio che diventa più formale seguendo un continuum che va dai versetti con cui si intrattiene un neonato fino ai “modi corretti” che andrebbero usati con le persone da prendere con le pinze: quelle con una divisa o con un qualche tipo di titolo, quelle che, in certi contesti, rappresentano l’autorità, quelle che riteniamo pericolose.
Eppure lo portiamo inconsciamente sempre con noi. Non smettiamo mai del tutto di intercalare in un certo modo, di rassicurare o minacciare usando certe espressioni, certi toni o certe pause; senza volerlo ripetiamo parole che ci caratterizzano, usiamo una particolare punteggiatura, interveniamo nel ritmo del discorso proponendo o imponendo il nostro passo; alziamo e abbassiamo il volume, poniamo più o meno enfasi.
L’idioletto è un’impronta, una fisionomia che traspare ed è stato analizzato tra l’altro per passare al setaccio gli scritti o le registrazioni di discorsi di persone che volevano mantenere l’anonimato ma che le forze dell’ordine volevano individuare (è grazie ad un’analisi minuziosa dei suoi scritti che il criminale americano noto come Unabomber è stato catturato).
Chi ci conosce è in grado di vedere questa fisionomia anche sotto le maschere più accurate e, siccome, come ebbe a dire Winnicott, “nascondersi è piacevole ma non essere trovati è una tragedia”, è un sollievo sapere di potersi mascherare ma è una fortuna poter essere visti comunque, da qualcuno.
A volte, in seduta, uso uno strumento diagnostico che si chiama Intervista sull’Attaccamento Adulto. È un modo di ascoltare notando i momenti in cui la persona che risponde, interrogata sul suo rapporto con le figure significative della propria infanzia, incespica, i passaggi in cui il linguaggio diventa meno fluido, meno corretto e preciso. Quando succede, quando la persona si impappina e il suo discorso diventa più incerto, il terapeuta ha un indizio che dice che qualcosa nella relazione con la figura di attaccamento di cui si sta parlando è andato storto. Il linguaggio riflette il legame: l’ansia che lo pervade, la paura, le difese messe in atto, i tentativi di trovare un accordo emotivo, le delusioni, la frustrazione delle aspettative e i sistemi per andare avanti lo stesso anche se il legame faceva acqua. Mi è capitato, con certi pazienti di trovarmi di fronte ad un adulto fatto e finito, finché si parlava del rapporto con la madre, e di avere a che fare, poco dopo, con un bambino che si esprimeva a fatica non appena iniziava a raccontare come si trovasse nella relazione col padre.
Forrest Gump parla sempre nello stesso modo e se la cava bene senza doversi chiedere troppo, senza essere costretto ad interrogarsi sul rapporto fra sé e il mondo. Fa una “passeggiata selvaggia” nell’ambiente che continua a cambiare, restando sempre uguale e uscendone incolume. È l’immagine dell’ingenuo senza maschera che va bene così com’è. Uno che può restare ingenuo e che da bravo Puer Aeternus può prendere la vita come una scatola di cioccolatini che “non sai mai quello che ti capita”.
Lui può permettersi di lasciare che il suo idioletto resti inconscio, può non esplorarlo. Noi, non trovandoci in una fiction, non possiamo giocarcela nello stesso modo.
Il nostro linguaggio crea un mondo con dei confini non molto chiari e con piccole aree protette in cui si può andare avanti a non pensarci troppo. Appena si comincia a far fatica, appena il nostro comunicare diventa difficile e sentiamo che potrebbero non capire o che per noi è complicato comprendere ciò che dicono… lì siamo su una soglia. Quello è il punto in cui diventa interessante chiederci come ci stiamo esprimendo. Farlo significa porsi un po’ fuori dal solito linguaggio e cominciare ad allenare l’attenzione ad un compito che, di solito, non svolge: l’analisi di che rapporti creiamo, l’osservazione del modo in cui la nostra comunicazione lega o scioglie, comprende o allontana. Una soglia fra il familiare e il selvatico, tra il tranquillo conosciuto e il diverso esplorabile. Un buon posto in cui allenarsi.
Buon anno!