“… una persona affetta da vanità di secondo grado
è una persona vanitosa che si preoccupa
altresí di sembrare totalmente priva di vanità.
Che ha il terrore che gli altri scoprano che è vanitosa.”
D.F.Wallace
Carl Gustav Jung coniò il termine Ombra per dare un nome al risultato del reprimere e per definire quella porzione di noi stessi che si deposita nella psiche quando, nel tentativo di non vedere o di “non possedere” certe caratteristiche, le togliamo dalla vista e dalla coscienza relegandole in una sorta di alter ego: un costrutto di cose che non ci piacciono e di ciò che non vogliamo sembrare ma che, invece di scomparire, acquista autonomia e riappare in gesti che non vorremmo compiere o in tratti che proiettiamo sugli altri e che detestiamo in loro proprio perché li abbiamo espulsi da noi.
La persona di cui parla Wallace fa con la vanità ciò che ognuno di noi fa con quegli atteggiamenti che proprio non vuole indossare: la mette in ombra indossando una maschera che la copre manifestando l’opposto o la dissimula mostrando qualcosa di neutro o di “meno brutto/inopportuno/vergognoso”.
Reprimendo togliamo di mezzo dei tratti che vorrebbero manifestarsi ma di cui potremmo vergognarci. Può darsi che ci abbiano insegnato che “non sta bene”, che non ci si comporta così, che è peccato, che è poco elegante.
Ci abituiamo, insomma, a mostrare una faccia che ci sembra la più adatta e a nascondere quelle tendenze che crediamo che non sarebbero accettate o che potrebbero metterci in cattiva luce. Alla base di questo gesto che sempre ci divide e che sacrifica una parte a favore dell’altra c’è l’idea che sia possibile creare un’immagine perfetta: un io che sarà visto, verrà accettato, avrà successo perché ha tolto di mezzo tutto ciò che non va bene e mostra ciò che sicuramente piacerà.
È una concezione naïf che si basa sul presupposto che la relazione sia una sorta di rapporto tra macchine in cui ci si può adattare alle esigenze degli altri e sopprimendo certe caratteristiche, smussando certi angoli, presentando un profilo invece di un altro o evitando certe espressioni, alla fine si può trovare sempre il modo per andar bene agli altri.
Ma siccome, come ebbe a dire Hillman, relazione significa perplessità e siccome l’etimologia di perplesso si rifà a plesso che significa intreccio, miscuglio, cosa irrisolta… cercare di risolvere non è una soluzione. Reprimere, mascherare e nascondere non sono che modi per non essere in relazione, nient’altro che tentativi di evitare la perplessità e l’imbarazzo che ne consegue.
Lo sforzo di non sembrare vanitoso (o invidioso o arrabbiato o deluso…) visto dall’esterno è solo una smorfia. In psicoterapia si chiama resistenza e va accolta come un buffo tentativo di nascondersi dietro a un dito. Va guardata con un po’ di perplessità, va riconosciuta e accettata come un modo che il paziente ha usato per sentirsi più adatto e, poi, va tolta. Sotto, sotto alla vanità o all’invidia o all’aggressività di secondo grado, si trova una una persona, a volte un fantasma nella conchiglia (a ghost in the shell) più nudo e più fragile. Sicuramente più vivo!