Attenzione e linguaggio

“Mettiamo la maiuscola a parole prive di significato e,
alla prima occasione, gli uomini spargeranno fiumi di sangue,
a furia di ripeterle accumuleranno rovine su rovine”
Simone Weil

Nasciamo nel tempo. Nel neonato il riflesso di suzione equivale a una previsione: si aspetta di trovare il seno e gira la testa per andare incontro a ciò che sfiora il suo viso; registra odori che diventano le sue prime memorie. Immerso nel presente prospetta già un pezzo di futuro e ritiene una traccia, un abbozzo di passato, un’esperienza che servirà per leggere momenti a venire.

Nasciamo nel tempo e nel linguaggio. Predisposti ad ascoltare siamo, fin dal grembo, immersi in un fiume di parole che strada facendo acquistano significato e vanno a formare la mappa con cui leggiamo il mondo. Il passato, quello prossimo e quello remoto, il futuro, le possibilità e le condizioni, ciò che è imperativo e ciò che è probabile… tutto questo è insito nel linguaggio e, da subito, ci circonda.

Come dice Carlo Rovelli nel suo “L’ordine del tempo”: “Rispondere a ‘dove sta qualcosa?’ significa indicare cosa c’è attorno a quella cosa. Quali altre cose sono intorno a quella cosa.” Se chiedo dove sta il soggetto: dov’è l’uomo, la donna, la persona di cui sto parlando, non posso non rispondere che, oltre che in un luogo, si trova in un tempo e in un linguaggio.

Provate. Provate a descrivervi senza fare riferimento a dove abitate: dove siete stati, da quanto siete in un posto, dove vi piacerebbe andare (perchè questo è abitare, mica avere un indirizzo). Provate a farlo senza usare il linguaggio.

Si è capito da tempo che siamo geneticamente predisposti ad apprendere una lingua e grazie all’attenzione e a questa predisposizione impariamo a parlare e a comprendere chi parla. Poi il linguaggio modifica l’attenzione: stiamo più attenti alle parole che abbiamo imparato a sottolineare, a quelle che fin dall’inizio sono state pronunciate come se fossero scritte con la maiuscola.

Le maiuscole aggiungono emotività, sentimento e enfasi e, spesso, intrappolano l’attenzione. Rendendo la parola “così importante” e così in primo piano creano una particolare gestalt: una conformazione in cui ciò che è maiuscolo si staglia sullo sfondo di… ciò che viene lasciato sullo sfondo dalla maiuscola.

Insomma, se scrivo Dio/Patria/Famiglia e se lo sottolineo per bene, creo una gerarchia che, una volta appresa, mette in secondo piano tante altre cose. Non è che i tre termini  dell’esempio non abbiano valore o che non meritino rispetto. Il problema è la maiuscola (nello scritto e nel parlato) e il guaio è che, iniziando con una “lettera grande”, partendo con l’enfasi, si offusca a priori la riflessione.

Si fa il contrario di quello che suggeriva Simone Weil quando sosteneva che: “Chiarire i concetti, screditare le parole congenitamente vuote, definire l’uso di altre attraverso analisi precise, per quanto possa sembrare strano, servirebbe a salvare delle vite umane”. Servirebbe quanto meno a porre un po’ di freno al contagio emotivo che porta al sonno della ragione e al passaggio all’azione e ai “fiumi di sangue e rovine su rovine” dell’incipit.

Capita, in psicoterapia, di osservare quanto certe maiuscole influenzino il pensiero, il sentire e il comportamento di un paziente. Ci si lavora in vari modi e credo che il termine analisi, senza la maiuscola e preso nel suo significato più stretto di scomposizione e riduzione ai più piccoli elementi, renda bene l’idea di come proprio ciò che è maiuscolo vada, per primo, smontato, aperto, “fatto a pezzi”.

Hillman parlava di de-letteralizzazione e di visione in trasparenza e i suoi libri sono pieni di esempi di questo girare intorno ad un termine per coglierne gli spigoli, i nessi, le sfumature.

De-letteralizzare è, innanzitutto, non fermarsi al primo significato, togliere le sottolineature, osservare il termine dentro alle storie che lo circondano. Cos’era patria prima dell’idea di stato o di nazione? Cosa sarebbe psiche senza Freud, senza Jung? Chi è dio dopo Darwin? Nuove storie sono state raccontate e questi racconti hanno modificato le idee attorno a cui le storie, inizialmente, giravano. Gli accenti e le maiuscole sono stati posti su altre parole e l’attenzione è ora catturata in modi diversi.

Guardare in trasparenza è osservare chi osserva e notare cosa nota: dove mette le maiuscole, perché lo fa?!

Si possono fare vari esercizi di visione in trasparenza. Basta porsi domande che  ci spingano ad analizzare i termini che stiamo usando e che interrompano l’automatismo del significato letterale e scontato.

Di che nazionalità è un bambino che nasce nel posto in cui si parla la lingua che anch’io parlo? A quale suolo sentirà di avere diritto? Cosa rende la sua nascita diversa dalla mia?  Domande così, insomma.

Pablo Picasso, Guernica, 1937

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