“Il vecchio stagno
una rana si tuffa
un suono d’acqua”
Matsuo Basho
La minuscola poesia dell’incipit è un Haiku: un componimento di poche sillabe che coglie una porzione ristretta di realtà focalizzandosi su quel poco che conta per l’autore.
Diceva Hillman in un suo libro del 1967 che: “L’attenzione è la virtù psicologica cardinale, da cui dipendono forse tutte le altre, perché non possono esservi né fede, né speranza, né carità per alcuna cosa se questa non riceve prima attenzione.”
E il focus è il gesto dell’attenzione: il modo in cui ignoriamo il resto e incorniciamo un aspetto, una cosa, un oggetto che diventa specifico perché su di esso abbiamo diretto (o forse perché ha attirato) qualcuno dei nostri sensi. Mettere a fuoco, concentrarsi, stare attenti e protesi verso l’oggetto del nostro interesse modella il mondo escludendo intere parti della realtà che finiscono sullo sfondo rispetto a ciò su cui stiamo.
Spesso l’attenzione vaga e, con la sua danza, ritaglia i soliti spazi, ripete percezioni che diventano abitudine e passano inosservate. Percorriamo interi pezzi di ambiente senza notare la rana che si tuffa nello stagno che è “vecchio” proprio perché quasi non viene visto. A volte un evento è più forte del solito e siamo costretti ad osservare attentamente ma se tutto procede all’interno del conosciuto, se non ci sono sbalzi nel mondo, può capitare che il focus non cambi e che intere parti di realtà quasi si dissolvano: scontate, opache, poco visibili.
Se questa disattenzione è verso l’interno, se è la psiche a non essere guardata, succede che: “la vita interiore diventi scolorita e inconsistente (come lo è il mondo esterno negli stati depressivi)” (Hillman).
L’Io, il soggetto che può muovere consapevolmente l’attenzione, non volge lo sguardo ai contenuti e, senza investimento, i contenuti scompaiono.
E’ un male? Dipende! E’ una domanda difficile: vedo pazienti che hanno investito così tanto su “certi oggetti” che mi capita di pensare che, nell’ossessione ad esempio, il focus sia una catastrofe. L’ossessivo può pensare così tanto alla rana e stare così attento allo stagno da non avere più il sollievo di potere dare per scontato qualcosa. Tutto è incerto e minaccioso per chi non può togliere l’attenzione. Ma poi ci sono quelli che si annoiano e che credono che il mondo sia già tutto visto e, a loro, succede un po’ come ai depressi: smettono di scaldare le cose con il fuoco dei loro sensi e si ritrovano in un mondo freddo e senza luce, privo di sapore e triste. Le cose si svuotano per chi non sa metterla, l’attenzione.
In entrambe i casi, forse, il problema non è il focus ma il non riflettere su di esso. L’incapacità, insomma, di pensare al gesto con cui noi illuminiamo o lasciamo nell’oscurità.
Da un punto di vista psicologico sia la fede: credere che i soggetti e gli oggetti abbiano consistenza, continuità e realtà; che la speranza: poter contare sulla durata delle cose a cui teniamo e sulla vitalità delle persone che amiamo; che la carità: sentire di poter abbracciare tutto questo; dipendono in larga misura dalla qualità dell’attenzione.
In che modo il mio sguardo psichico attiva il mondo interiore e cosa mi fa vedere di ciò che, invece, sta fuori di me? Cosa osservo e cosa nego o rimuovo? Cosa illumino troppo, cosa mi perdo quando non riesco a togliere lo sguardo da qualcosa o da qualcuno?
Queste non sono che alcune delle domande che possiamo porci per riflettere sul modo in cui diamo forma all’attenzione e sui risultati che questa forma che più o meno consapevolmente modelliamo, produce.
Natura raccolta della mente è un’antica locuzione buddista: un modo per mettere l’accento sulla plasticità della psiche (mente, corpo, relazione) e per evidenziare quanto, appena un po’ a monte della percezione ci sia questo gesto che dà forma allo strumento che sto usando e, quindi, a ciò che poi vedo!
Saperlo, essere consapevoli del continuo lavoro che avviene “quasi contemporaneamente all’esperienza” ci dà la possibilità di intervenire almeno un po’ (e a volte parecchio) sull’osservatore e sull’osservato. Inoltre aggiunge un pezzo di libertà perché l’idea di poter muovere il focus è solo apparentemente scontata: troppo spesso dimentichiamo quanto la psiche e il mondo siano inventati oltre che scoperti e quanto l’invenzione possa essere una nostra scelta.

Steve McCurry, Mandalay (Birmania), 2013