Contro la generalizzazione

Viviamo in un’epoca in cui i modelli
tendono ad essere mediocri in modo che
la loro raggiungibilità sia comoda”
Tony Servillo

Negli ultimi giorni avrò sentito almeno dieci volte appioppare la diagnosi di depressione all’attentatore di Monaco. E’ probabile che un giornalista abbia cominciato a riferire di una qualche cura che, in passato, il diciottenne-omicida-suicida, aveva ricevuto; può essere che frugando superficialmente nella sua vita si sia venuti a sapere che stava prendendo psicofarmaci ed ecco la deduzione più semplice, la prima etichetta preconfezionata: provava un disagio, era oggetto di bullismo da parte dei coetanei, si è depresso e ne ha ammazzati una decina.

Sembra la seconda spiegazione più facile dopo radicalizzato che sta per “reso più o meno velocemente un potenziale/effettivo assassino”.

Ma tutt’al più un depresso si suicida. Molto spesso si lamenta molto e fatica a portare avanti un’esistenza resa difficile dal rallentamento motorio, dalla perdita di senso, dall’umore nero, dall’insonnia o dall’ipersonnia, ecc.

Lo so che la questione sembra irrilevante e che, comunque, nove persone sono state uccise e che il killer fosse depresso o psicopatico sembra non aggiungere o togliere nulla alla tragedia.

Ma invece è una questione di principio: visto che sono (e forse mi sono) relegato nella posizione dell’osservatore credo di dover almeno rifiutare la lente che mi viene proposta se la trovo sfocata, distorcente, fuorviante.

Più sono grossolane le categorie con cui leggiamo il mondo più diventano facili le generalizzazioni : divisioni arbitrarie fra buoni e cattivi, normali e deviati, bianchi e neri…

Ha ragione Servillo sui modelli mediocri! E (tanto per essere preciso nella riflessione) ciò che rende mediocre un modello non è il suo status: non è che se invece di un calciatore scelgo un intellettuale o se al posto di un’avvenente pop star addito una scienziata, sono uscito dalla mediocrità.

Mediocre in questo senso equivale a non pensato: non scelto con cura prima di essere usato come modello. “Depresso” non va bene perché non spiega niente. Può darsi che non fosse contento e che fosse pieno di rabbia per gli insulti ricevuti dai suoi coetanei, può essere che stesse prendendo antidepressivi ma dire che era depresso è come dire che non si era lavato i denti: irrilevante e… utile solo per smettere di pensare.

Smettere di pensare è infatti uno degli scopi della generalizzazione: butto ciò che sto osservando dentro ad un cestino che lo accolga come “classificato-non-degno-di-ulteriore-speculazione” e posso passare ad altro. E’ un metodo perfetto se sto andando per funghi e la mission è quella di distinguere velocemente i porcini dalle foglie secche. Generalizzando non andiamo troppo per il sottile e, proprio come certi uomini politici, procediamo con le idee chiare. Applichiamo insomma qualcosa che abbiamo già in mente che interpreta la realtà “spiegandola”: prendiamo una cosa piegata e la apriamo osservando… ciò che già ci aspettavamo che apparisse. Rassicurante e grossolano.

Ogni volta che osservo questo processo, ogni volta che anch’io (che provo così piacere a svelarlo) mi ritrovo ad usarlo, mi viene in mente una frase che, da anni, considero un potente antidoto.

E’ di Lacan che in uno dei suoi seminari disse: “Amare è dare qualcosa che non si ha a qualcuno che non lo vuole”. E’ un’osservazione che contrasta con una delle immagini più frequenti sull’amore (e con uno dei simboli preferiti della società dei consumi): quella che contempla il bambino che si sazia al seno della mamma. Ma, proprio per questo, invita a riflettere più profondamente.

E se andiamo sotto alla superficie ci rendiamo conto di quanto amore ci sia in una mamma che tenta di soddisfare un figlio difficile, di quanto l’amore abbia a che fare con le resistenze e con il tentativo di riempire un vuoto che sembra incolmabile. Capiamo, nel confrontarci con il paradosso che Lacan esprime, quanto sforzo sia necessario per andare incontro all’altro e, a volte, per farlo quando ci respinge o quando noi vorremmo respingerlo.

Il rapporto complementare in cui il bambino riceve e la madre dà, contenta di dare, è una festa (Lacan). Ma è nell’asimmetria che l’energia si muove. Sono lo scompenso e la perturbazione che ci spingono a riflettere e a “svezzarci”. Quando scopro di non avere ciò che l’altro vuole o, magari, “non vuole” perché cambia idea, perché è nel momento sbagliato, perché “dovevi pensarci prima, ora è tardi/volevo che fossi spontaneo”. Quando diventa difficile: in quel momento si può cominciare a scavare per cercare più in profondità e la psiche ha un’occasione per immaginare e per ingegnarsi. Oppure… oppure si può andare avanti a generalizzare e fermarsi sulle cose facili.

Agostino Arrivabene, Sinapsi,  2015

Agostino Arrivabene, Sinapsi, 2015

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