Zombie: un rimedio

Maschera_bianca

Ma il bello viene quando le storie
sono messe una accanto all’altra”
G. Bateson

Il fisico e saggista austriaco Fritjof Capra in un libro del 1988 in cui riporta una serie di colloqui avvenuti fra lui e Gregory Bateson racconta che: “Poco tempo dopo che ci eravamo conosciuti Bateson disse scherzosamente ad un amico comune: Capra? Quell’uomo è pazzo! Pensa che siamo tutti elettroni.”

La frase dà lo spunto a Capra per riflettere sul pensiero sistemico che era uno dei pallini di Bateson e, probabilmente, una delle posizioni più fertili per chi voglia osservare gli esseri viventi.
Ragionare in termini sistemici significa tenere presente che: “La logica può essere usata in modi molto eleganti per descrivere sistemi lineari di causa ed effetto, ma quando delle sequenze lineari diventano circolari, come avviene nel mondo vivente, la loro descrizione in termini di logica genererà paradossi.”
Si può, quindi, osservare un organismo riducendolo alle sue componenti più piccole, si possono studiare reazioni chimiche e vie metaboliche, si può conoscere a menadito l’anatomia di un corpo e la risposta dell’organismo ad un farmaco ma, nel momento in cui si entra nell’ambito della soggettività, non appena si inizia a vedere l’individuo vivo e inserito in un sistema a cui reagisce e dai cui si aspetta delle risposte, ci si rende conto di quanto occorra allargare lo sguardo e lasciare che concetti come mente, poesia e sacro, entrino a far parte dell’equazione.

Certo, questo complica le cose! E’ più facile studiare un topo se sta fermo e si perde molto meno tempo se si isola un individuo dal gruppo e si testano le sue reazioni a certi stimoli in un ambiente controllato: si può dosare l’intensità dello stimolo e si possono escludere una quantità di interferenze che agiscono come rumore che disturba la qualità del segnale. Spesso conviene ridurre l’ambito di studio e osservare fenomeni isolati lasciando sullo sfondo astrazioni sull’anima, le credenze, i principi, ecc.

Senonché, facendolo, si rischia di fare l’errore che, scherzando, Bateson imputava a Capra. Si rischia, insomma, di partire con un topo vivo e di ritrovarsi con uno zombie, di credere di osservare una persona e di avere invece di fronte qualcuno a cui abbiamo tolto la vita per aggiungere… “logica”. E il guaio più grande è che spesso la logica che aggiungiamo non ha niente a che fare con il buon uso del pensiero. E’, piuttosto, la sovrapposizione di un ortodossia: l’applicazione di una chiave di lettura che, pur di confermarsi, sacrifica l’oggetto del proprio studio.

Se volete un esempio soggettivo provate a rievocare una volta in cui avete avuto a che fare con un medico scorbutico o con un burocrate intransigente. O se vi serve un’iperbole (ché è un modo per semplificare e capire “per eccesso”) pensate di essere nelle grinfie di Mengele o sotto la giurisdizione di uno dei giudici del Processo di Kafka.

Capita di essere ridotti ad oggetti di studio e capita di compiere la stessa azione su altri. Succede insomma di fare un gesto che è il contrario di ciò che fanno gli animisti: invece di attribuire un’anima ad oggetti inanimati, “ad oggetti vivi sono attribuiti caratteri morti”(Bion).

Il rimedio, naturalmente, non è un ritorno all’animismo! Non si tratta di smettere di usare il metodo scientifico né di rinunciare ad un riduzionismo che aggiunga chiarezza e rigore al pensiero.

Occorre, però, una manovra che tenga in vita l’oggetto di studio; un modo di mettersi che tenga conto della relazione e del soggetto. Bateson sosteneva che: “Riusciamo a dire che tipo di persona ci sta di fronte solo combinando l’osservazione delle sue abitudini comunicative con l’osservazione introspettiva di ciò che siamo noi stessi quando abbiamo a che fare con l’altro.” E’, insomma, innanzitutto un lavoro su noi stessi: non escludendoci, non arroccandoci nelle convinzioni e nella nostra particolare ortodossia, possiamo esporci all’altro e sentire cosa avviene al confine, al punto di incontro fra la nostra psiche e la sua.

Può risultare scomodo, complicato, perturbante. Ma ha un vantaggio: l’apprendimento che avviene in quella posizione comprende e sperimenta la piena presenza dell’altro.

Il tipo di relazione che ne nasce rende più vivi gli attori che partecipano al gioco e dà origine ad uno stato di coscienza in cui l’io passa in secondo piano per lasciar spazio a qualcosa di meno ingombrante.
Capita, su quella soglia, di sentire il sollievo di essere vivi.

 

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