“Non è un segno di buona salute mentale
essere bene adattati a una società malata”
J. Krishnamurti
Si racconta che alla richiesta di definire la differenza fra salute e malattia mentale, Freud rispondesse che “una persona è sana quando è in grado di lavorare e quando riesce ad amare”.
La trovo una buona risposta perché non esclude il dolore e non definisce salute come assenza di sintomi ma mette l’accento su cosa l’individuo può fare.
Leggendo Freud ci si accorge di quanto le sue parole siano sempre ben pesate. Quando dice “lavoro” non sta parlando solo di compiere il proprio dovere: non si riferisce all’andare in ufficio o al passare otto ore “sul pezzo”. Intende anche quello ma, soprattutto… saper perseguire un obiettivo escludendo il resto, riuscire a concentrare la propria volontà nonostante la tentazione di perdersi in qualcos’altro, vincere l’inerzia che ci terrebbe fermi in uno stato “senza sforzo e senza dolore”. E quando dice “amore” non parla solo dell’innamoramento che è uno stato accessibile a chiunque sia soggetto al desiderio: sani e malati, giovani e vecchi, servi e padroni. Amore, in questo caso sta per cura intesa come capacità di persistere in quei comportamenti che favoriscono la vita e che promuovono l’indipendenza (una tendenza che ogni bambino possiede e che pochi adulti coltivano).
E sapeva bene, Freud, che la sanità non è uno stato ma un processo!
Non è qualcosa da raggiungere e conservare ma un percorso di approfondimento, una strada su cui stare e una scelta da ribadire.
L’analista della vignetta chiede se nel cambiamento che il paziente percepisce ci sia del dolore perché sa che il confine fra sanità e malattia mentale è tracciato con la coscienza di quanto per essere in buona salute sia importante non negare il male, non far finta di essere sani!
Ho seguito e seguo pazienti la cui sofferenza non è frutto di una depressione o di uno sbilanciamento nella chimica del cervello. Soffrono perché stanno cercando il loro modo di lavorare e di amare: sono alla ricerca di un adattamento che non li deturpi, di un modo di esserci che non li frantumi.
Affrontano un cambiamento difficile perché devono fare i conti sia con il mondo che con la loro sensibilità. Ne ho visti alcuni, più gravi, che hanno risolto il dilemma con una sorta di “callo”: una tossicodipendenza, un ritiro dal mondo, un rifugiarsi nel delirio e nella psicosi.
Non è che soffrano meno e non è che abbiano coscientemente deciso una strada piuttosto che un’altra. E’ solo che sono incappati in un modo per attutire il dolore, un rimedio che ha coperto tutto il resto.
Il rimedio, il callo, è un adattamento che invece di guardare il mondo lo sopporta e invece di cercare il cambiamento lo evita come una minaccia all’integrità o come un attentato al “benessere”.
La negazione del dolore che si compie con questa finta soluzione porta con sé una serie di effetti collaterali tra cui il più grave è la frammentazione: la perdita di integrità, di pienezza.
E’ per questo motivo che chi fa il mio lavoro ha il compito di puntare non tanto all’attenuazione del dolore quanto al recupero di senso e alla riabilitazione della capacità di lavorare e amare.
Più queste facoltà riemergono più il dolore va sullo sfondo: non se ne va ma può essere descritto. E diventa diverso: più serio e meno importante, contenuto, sano! Anche il lamento scompare e fa posto alle parole per dirlo.
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