“Pare che cerchiamo un grado di sollievo
che è inaccessibile e, quindi, ci arrabbiamo
quando non arriva”
M. Epstein
Qualche giorno fa, nel rileggere Fragile, un post che ho scritto a maggio e che è stato uno dei più letti quest’anno, mi è venuto in mente uno dei pochi racconti che mio padre faceva sul periodo che trascorse in un campo di concentramento nazista durante la seconda guerra mondiale.
Raccontava di un suo amico, un ragazzo di vent’anni come lui, che dopo qualche giorno di prigionia accettò di scambiare con un russo le sue mutande di lana d’ordinanza in cambio di alcuni pacchetti di sigarette. Si confezionò delle mutande di carta (!) secondo lui ottime come isolante termico, centellinò per giorni la scorta di tabacco e si pentì amaramente, nel rigido inverno che arrivò di lì a poco, dello scambio fatto. Ma intanto aveva goduto e, a sentire mio padre, l’inverno in miniera fu orribile anche con l’intimo di lana.
E’ un racconto che ha fatto da sfondo e da contraltare a molte delle decisioni che ho preso nella mia vita e, ogni volta, ha funzionato come pietra di paragone, un ricordo vicario, qualcosa successo a qualcun altro che funzionava come monito per relativizzare la pressione: una sorta di “ci sono anche altre fatiche e altri ostacoli; se tu non facessi fatica in questo modo la faresti in un altro che, forse, ti piacerebbe ancora meno”.
So bene che ognuno di voi ha un racconto simile, sentito dire o vissuto, tenuto in serbo o detestato.
E so anche che si aggiungono dei corollari morali a queste storie: perle di saggezza che vanno dal “si stava meglio quando si stava peggio” al “non ti lamentare che c’è gente messa molto peggio di te”. Quel che sfugge, spesso, quando si prova a tirare fuori una morale da queste riflessioni sulla durezza del mondo e sulla tollerabilità dello sforzo, è che noi umani siamo degli appassionati di pressione: quando non c’è andiamo a cercarla e dopo un breve soggiorno in una qualsiasi comfort zone ci stanchiamo del relax e cominciamo a soffrire per… qualcosa che non c’è.
Siamo, insomma, protesi in avanti, concentrati sul prossimo raggiungimento o sullo sbattimento necessario per arrivarci, alla prossima soddisfazione o a… quel paio di mutande che ci stavo tanto bene e vorrei riaverle.
Sicuri che una volta raggiunto l’obiettivo ci stabilizzeremo in uno stato di tranquillità e di godimento che… durerà.
Ma il sollievo non dura o, se dura, è noioso e, all’orizzonte, nuove pressioni ci invitano a rinunciare a qualcosa in cambio di…
Lo so: i puntini di sospensione e l’abuso che ne faccio. Ma è una delle punteggiature più usate da chi fa il mio lavoro: sto in silenzio per aspettare che chi ho di fronte mi parli della pressione che sente e degli sforzi che fa per superarla e di come questa lotta stia determinando aspetti della sua vita e stati d’animo e piaceri o dolori.
Scambierete ottime mutande di lana per gustose boccate di impermanenza? (Nel prossimo anno, dico?) Quale delle due saggezze sceglierete? Quanto durerà la saggezza?
Scriverò ancora sull’argomento (e ci terrò dei corsi probabilmente) ché, l’avrete capito, è una delle mie passioni.
Intanto vi lascio con una riflessione dello stesso autore dell’incipit che dice che sembra che “…nulla sia abbastanza reale per essere in definitiva soddisfacente” e vi invito a meditare sul termine “in definitiva” che, vi anticipo, è ciò che rende la comfort zone una palla pazzesca.
Buon anno!
In che senso la comfort zone è una palla pazzesca? Nel senso che è una fandonia o che è tediosa?
La seconda che hai scritto:-)