“Non ho niente contro dio
è il suo fan club che mi spaventa”
Woody Allen
Ho visto che, tra ieri e oggi, in molti hanno riletto Sul“Sonno della ragione”.
L’ho riletto anch’io visto che, avendolo pubblicato il 15 marzo scorso, non ricordavo bene cosa avessi scritto e mi sono accorto quanto c’entrasse con i terribili fatti di Parigi e di quanto ogni volta in cui si parla di “mostri”ci si spinge ai confini e si tenta di dire qualcosa sull’inesprimibile: difficile da descrivere, da comprendere e anche, credo, da percepire.
Raccontavo alcune mie riflessioni su un articolo di Recalcati che, a sua volta, provava a dire la sua su quell’immagine del bambino che, armato da un mostro adulto, si accingeva a giustiziare un ostaggio. L’avevo dimenticata, l’immagine. Rimossa come probabilmente l’avete rimossa voi e, oggi, riattivata insieme ad altre con cui cerco di figurarmi l’orrore recente di quei tre uomini poco più che ventenni che con fredda determinazione ne uccidono… ottanta, circa, loro coetanei perlopiù; e del tutto inermi e, al loro confronto, miti come agnelli in un macello.
Sul fatto in sé io so di non avere niente da dire. Fatico a mettermi nei panni delle vittime in quel momento e non riesco a immaginare neanche lontanamente cosa passasse nella mente e nel corpo dei carnefici.
Non è nemmeno un fatto: ce ne stiamo attoniti con le nostre prime reazioni che con il fatto non hanno niente a che fare e chi blatera soluzioni prima ancora di aver anche minimamente masticato l’evento dovrebbe meditare su quella frase di Alda Merini: “Mi piace chi sceglie con cura le parole da non dire”.
Mi limito ad una considerazione sul solito dio che è grande e sulla valenza psicologica di questa affermazione che, naturalmente, non è solo sulla bocca dei terroristi ma nella testa di ognuno di noi, nei nostri discorsi e nella lotta per l’egemonia che prima che “nel mondo” si svolge nella mente e nelle relazioni più prossime.
L’egemonia e la grandezza vanno di pari passo visto che heghemonia significa comando/primato e che, nel senso comune, ha il comando chi è più grande o chi viene per primo o chi sta per diritto o per conquista al culmine di una gerarchia. E dio è ovvio che se ne stia in cima e se è grande o se è più-grande-più-vero-più-buono-più-giusto… ancora di più.
E mai (o quasi mai) che ci venga in mente che questa cosa della gerarchia ce la siamo inventata noi, che è una proiezione, che questa visione a piramide non è che uno dei modi di descrivere la realtà e che questa descrizione influenza fino alle viscere la nostra esistenza. E che è una descrizione e che è sola, unilaterale, monoteistica e, alla fine, monomaniaca.
Nasce da qualche parte agli albori del tempo, questa visione che mette sul trono un unico soggetto che regola tutto il resto e, sotto, tutti gli altri, tutti fratelli e tutti uguali e che devono volersi bene ma lottano per l’egemonia: magari non proprio per scalzare chi sta in alto ma per essere almeno il prediletto o i prediletti/preferiti/eletti.
Le fazioni: noi/loro; amici/nemici; uguali/diversi nascono al cospetto di un ente a cui facciamo riferimento e da cui emanano le regole del vivere corretto e i premi o le sanzioni per chi si è attenuto e chi no.
Attenersi, obbedire, sottomettersi. Chi non lo fa o chi lo fa in un modo diverso è un bastardo che va rieducato, convertito o soppresso.
Insomma, sapete bene come funziona. Quello su cui pongo l’accento è che non è una visione religiosa ma uno schema mentale. Uno schema mentale!
C’è un esperimento che si può fare e che, partendo dall’egemonia dimostra la vuotezza dell’idea di “solo in cima a tutto il resto”. Come tanti antidoti è una sorta di farmaco omeopatico: più un’idea che una sostanza; un modo di porsi; un punto di vista.
Si può, come già consigliavano gli stoici, mettersi in una posizione egemonica verso se stessi: farsi isola e separarsi, posizionarsi per un po’ su una sorta di trono da cui guardare e guardarsi.
Il contrario esatto dell’esprimere subito una risposta: un astenersi esercitandosi a non intervenire e ad osservare le nostre reazioni invece di agirle; fare silenzio e non prendere le armi contro niente; guardare prima, bene, chi o cosa c’è dall’altra parte; interrogarsi su cosa si prova verso l’oggetto che si intravede e su chi sta provando questa cosa; prendersi cura del posto su cui ci si è seduti a guardare e chiedersi cosa c’è sopra, sotto e di lato; chi ci ha messo lì? Chi altri ci potrebbe stare?
E’ un esercizio che faccio e che ho fatto fare a colleghi che mi hanno chiesto una supervisione e che si sentivano troppo coinvolti in un caso o “confusi sul cosa fare”. Serve a creare separatezza: un neologismo per non dire separazione (che ha un altro significato) ma per descrivere una posizione che ci aiuti a riflettere sulla pretesa superiorità o inferiorità o uguaglianza e che ci aiuta a sospendere il giudizio.
La separatezza è figlia della nuda attenzione e porta a una serie di scoperte: siamo interdipendenti: in grado di isolarci e di metterci in relazione e, a guardar bene… il trono è vuoto!
Tanti “io” ci si possono sedere. Tanti io che possono coabitare in una stessa persona e tanti altri che mettendosi nei suoi panni ne potrebbero condividerne la prospettiva o la sorte. Se lo fate seriamente vi accorgerete di quanto sia difficile stare a lungo nella stessa posizione, di quanto sia mutevole e vuota la forma di chi si pone ad osservare.
E’ un antico esercizio che adesso chiamiamo mindfulness. Vorrei l’avessero fatto quelli che hanno sparato o che hanno in animo di farlo e non sarebbe male se lo facessero quelli che vomitano opinioni prima ancora di aver compreso.