“L’uomo che si ritiene superiore,
inferiore o anche uguale a un altro
non capisce la realtà”
Attadanda Sutta
Il termine Sutta (Sutra in sanscrito) significa letteralmente filo e deriva dalla radice indoeuropea da cui viene anche il termine latino suere, cucire. E’ una breve frase, una sorta di aforisma che mette insieme poche parole per esprimere sinteticamente un concetto che dovrebbe insegnare qualcosa o, quantomeno, attivare in chi legge riflessioni sul senso di ciò che ha letto.
La frase dell’incipit è tratta da un sutra in cui si invita il lettore a guardarsi dallo schierarsi troppo precipitosamente e dall’impugnare il bastone (questo significa Attadanda): dal mettersi subito, cioè, nella posizione di chi giudica e si confronta con gli altri stabilendo una classifica, un confronto, una gerarchia.
Di solito ci viene spontaneo farlo e ognuno ha le sue preferenze: sopra, sotto o alla pari ma, comunque, sempre “da qualche parte” rispetto agli altri.
Personalmente, ad esempio, ho un debole per la prima posizione e, così, mi viene facile considerarmi superiore e pagare il prezzo che si paga quando si va a finire su un qualche trono psichico da cui si guarda dall’alto in basso il resto del mondo. Sono convinto che il veleno che si beve indugiando in questo stato d’animo è quello dell’avversione che è un misto di disgusto, rabbia e puzza sotto al naso che affligge chi si ostina a bere dal calice della superiorità.
Non che le altre posizioni siano meglio. Chi si crede inferiore diventa avido ed è morso dalla fame dell’invidia e si affanna nell’imitazione o nella propiziazione o nell’odio dei superiori. I fautori del siamo tutti uguali, invece, cadono nell’indifferenziato e usando la loro arma migliore, l’ironia, smontano le diversità e si specializzano a tal punto nell’osservazione del mal comune e della miseria umana che, come effetto collaterale, perdono ogni ambizione di saggezza, ogni spinta ad uscire da…
In verità credo che non esistano tipi puri. Non ci sono persone che si giudicano solo superiori o inferiori o uguali agli altri. Tutti noi passiamo da un giudizio all’altro e ho visto uno degli uomini più ricchi e potenti e “superiori” d’Italia invidiarne altri che… avevano molti più capelli (per dire).
Ma il punto è un altro. Il punto è capire la realtà! Il motivo per cui il sutra invita a non impugnare il bastone del giudizio non è morale ma epistemologico: impugnandolo smettiamo di vedere e ci allontaniamo dal mondo cadendo in un luogo angusto delimitato da pareti composte della stessa sostanza di cui sono fatti i giudizi che formuliamo.
Vale più vedere che pensare (Heidegger) e il giudizio è molto spesso un abbaglio che offusca la visione, che impedisce di cogliere sfumature e contorni, tratti e caratteristiche.
Non possiamo vivere senza: è come un bastone che sostiene una parte importante di tutto il processo di pensiero e non schierarsi è impossibile. Automaticamente ci “pensiamo”in un rapporto di forza e, facendolo, determiniamo le nostre azioni e reazioni, decidiamo i confini della nostra influenza e il nostro ruolo nelle relazioni.
Ma possiamo riflettere sul gesto dell’impugnare il bastone! A quanta intelligenza (capacità di capire) rinuncio ogni volta che prendo posizione? Che prezzo pago; quale veleno mi somministro?
O, in termini più psicologici: come modellano la mente le tre posizioni in cui inevitabilmente finiamo ogni volta che ci riteniamo sopra o sotto o uguali ad un altro? Cosa succede quando smettiamo per un po’ la modalità più automatica del nostro giudizio, quella responsabile del ripetere, quella che più ci acceca?