“Come un pesce gettato sulla terraferma
si dibatte tremando tutto il giorno e lottando”
Dhammapada
Sono un ex fumatore, uno che fumava davvero tanto. Ho smesso una prima volta tanti anni fa, poi ci sono ricascato e poi ho smesso di nuovo. Quando qualcuno mi chiede come si sta senza sigarette la mia risposta è: “Appena tollerabile”. E’ una citazione, tra l’altro, la traduzione di un termine con cui, nei primi testi buddisti, si definiva il mondo che abitiamo: tollerabile, nel senso di appena sostenibile, difficile da reggere e in equilibrio precario. Non proprio terribile (quasi mai) ma sicuramente non facile, pervaso, secondo il Buddha, da dukkha, parola erroneamente resa con il nostro “sofferenza” ma che invece ha un significato più sottile: “Il prefisso ‘duh’ significa male o difficoltà, mentre il suffisso ‘kha’ può riferirsi al foro al centro di una ruota in cui si inserisce l’asse. Il vocabolo sta quindi a significare che, non essendoci corrispondenza perfetta tra le due parti, durante il viaggio gli scossoni non mancheranno” ( M. Epstein).
Fuori squadro, insomma, un po’ instabile e mai del tutto allineato, con momenti rari in cui tutto fila liscio e c’è quasi un senso di perfezione, di grazia ed altri pieni di inciampi e di correzioni necessarie: aggiustamenti e riparazioni in corso ed equilibrismi sui tratti più accidentati.
La nicotina è una copertura perfetta perché mima questo squilibrio in modo pedissequo: una singola sigaretta garantisce una quantità così piccola di sollievo e un equilibrio così instabile che è possibile, non appena giunge il disagio del calo di sostanza disponibile in circolo, procurarsi un’attenuazione del dolore e un piacere effimero che dura… fino all’astinenza successiva che, nel caso di un fumatore accanito quale io sono stato, è sì e no dopo mezz’ora. Un bravo fumatore diventa una specie di alchimista che mantiene oliato il mozzo dentro cui il perno dell’ingranaggio gira e che, come se recitasse un mantra, ricalca l’andatura della vita: piccolo calo-insoddisfazione-recupero di equilibrio-sollievo-piccolo calo-insoddisfazione… ecc.
Non è che la vita di chi fuma sia più semplice ma chi ha provato a smettere (e anche chi ha smesso se ha buona memoria) sa che quando si toglie il rituale, quando si sospende la sostanza e si sperimenta la mancanza, il senso di “appena tollerabile” acquisisce tutto un altro significato.
Questo naturalmente è vero (spesso in modi più eclatanti) anche per una quantità di altre droghe e per l’alcool e per certe dipendenze che, tramite la ripetizione di gesti o di comportamenti, riescono a modificare la chimica del corpo e a ribadire, replicandola in un’abitudine e in un vizio, la fragilità dell’esistenza.
E’ come se le coperture spostassero il problema tanto che capita spesso di credere davvero che la vita diventi più facile se si aggiunge una certa quantità di… qualcosa o che succede, all’opposto, di pensare che rinunciando a questo o a quell’altro le cose miglioreranno in modo stabile e definitivo.
Aggiungo stimoli, oggetti, beni, proprietà, onori, gloria e sarò stabilmente felice. Tolgo vizi, avidità, desideri, possessi, attaccamenti e sarò stabilmente felice. Né la prima né la seconda delle strategie funzionano: non esistono edonisti-gaudenti soddisfatti così come non si trovano rinunciatari-ascetici immersi nella serenità. Se il mondo è fuori squadro e se la realtà è fragile cercare stabilità è come pretendere di stare ben fermi e piantati sulle proprie gambe su una fune tesa sopra ad un baratro.
Ma c’è una buona notizia: l’impermanenza e la mancanza di stabilità rendono questo mondo appena tollerabile! E questo non è un male ma un dato di fatto: siamo immersi in una realtà in movimento, un dolore o un piacere stabili diventano intollerabili, uno stimolo che dura a lungo nel tempo senza variare dopo un po’ smette di essere percepito, le cose spariscono nello sfondo o da esso emergono perché… è così che il mondo è fatto o, meglio, è così che noi lo percepiamo.
Se per un attimo cambiamo la nostra visione e, invece della convinzione antropocentrica che insiste sull’idea che noi veniamo al mondo, accettiamo una narrazione più ovvia che mostra che noi veniamo dal mondo (come le foglie su un albero, insomma), ci accorgiamo che “appena tollerabile” va benissimo! L’interfaccia che determina il modo in cui noi siamo nel mondo, il nostro esser-ci, è così come ci viene data ed è il punto di partenza da cui ogni bambino inizia, già immerso in un mondo che non è geometrico e in cui più che diventare geometri dobbiamo imparare ad essere dei bravi giocolieri.
E un buon giocoliere sa che l’instabilità non va combattuta ma accettata con serenità e usata per apprendere quelle prese che ci permettono di gestire un cambiamento “necessario” nel senso filosofico del termine: inevitabile, costitutivo.
Appena tollerabile è perfetto perché… è giusto per tenerci svegli, per far sì che gli stimoli ripetendosi sempre uguali non diventino sfondo: provate a guidare su un’autostrada vuota tenendo sempre la stessa velocità, provate a non addormentarvi ascoltando a lungo lo stesso suono melodico.
Ogni nevrosi è una sorta di addormentamento: un automatismo che esercita sempre la stessa presa sulla realtà, anche quando è fuori luogo, una soluzione che è sopravvissuta alla propria utilità ma che va avanti a funzionare perché “ho sempre fatto così”, un tentativo di controllare l’incontrollabile come quando vorremmo che qualcuno pensasse una certa cosa o che le cose vadano esattamente come “io ho stabilito”. E’ una non accettazione dell’impermanenza e una forzatura che, nel tentativo di rendere meno “fragile” il mondo lo rende rigido e lontano da come è. Ogni volta che agiamo in modo nevrotico stiamo facendo come un bambino che stringendo forte a sé un cucciolo da cui non vuole separarsi finisce col soffocarlo: ciò che gli resta, alla fine, è qualcosa di morto, insoddisfacente e “fuori dal mondo”.
Finché la mente rimane come il pesce dell’incipit che, gettato sulla terraferma, si dibatte tutto il giorno, “appena tollerabile” sembra una condanna. Ma chi ha gettato il pesce sulla terraferma? Chi è quel pescatore impazzito che non lo rimette nell’acqua? Cosa è fragile?
Che splendido punto, una vera pietra angolare.
Ho suonato in diversi gruppi ormai un po’ di anni fa, e semplificando moltissimo, suonare insieme ad altre persone ti pone davanti a due scelte fondamentali: cercare di dominare tutto e far sì che ciascuno faccia la sua parte perfettamente oppure lasciar andare il proprio istinto e la propria gioia di suonare insieme e vedere ciò che accade. Per esperienza non esiste una prevalenza assoluta di un sistema sull’altro, entrambi hanno pro e contro e molte dipendenze dal contesto. Una cosa però è fondamentale: dominare la nota, tenere ossessivamente il tempo, perdendo di vista l’insieme di sé e del gruppo è sempre fallimentare, quando va bene rimane freddo, anonimo.
Invece accettare le imperfezioni e cogliere l’essenza del tutto, appoggiarsi letteralmente al tempo e scoprire infiniti attimi in cui attardarsi e anticipare, premere di più o quasi sussurrare, quello è il tutto.
Mi vengono ancora i brividi a pensare alla rivelazione di quel momento e ti ringrazio per avermici fatto ripensare con questo splendido post.
Grazie
Pingback: Sulla dissociazione: frammenti | Forme Vitali
Pingback: ♫♪♫ under pressure ♪♫♪ | Forme Vitali