“Dobbiamo modellare le nostre parole finché non
diventino l’involucro più elegante dei nostri pensieri”
Clarice Lispector
Il secondo dei quattro assiomi che, secondo Watzlawick, regolano la comunicazione umana recita: “In ogni comunicazione si ha una metacomunicazione che regolamenta i rapporti tra chi sta comunicando”.
Continuamente nell’interazione con l’altro teniamo d’occhio lo spazio che ci separa e ci avvicina: tanti dei rituali che regolano la danza comunicativa fra le persone si svolgono a livello quasi-inconscio e sotto la regia di una parte di mente che più che del contenuto di ciò che viene detto si occupa del modo in cui l’altro può recepirlo e del rapporto che dalla comunicazione viene modulato. Fin da piccoli impariamo a tener conto dell’interlocutore e, man mano che affrontiamo situazioni diverse, collezioniamo una gamma di modi di fare che, mentre comunichiamo, si prendono cura del rapporto.
La Metacomunicazione è quell’insieme di gesti (tono della voce, postura del corpo, distanza dall’ interlocutore, ecc.) che modificano il messaggio al di là del contenuto dello stesso. Posso dire “ti amo” ma se nel farlo imposto la voce in modo che suoni come un affermazione distratta, piena di sufficienza o compiaciuta, chi sta dall’altra parte se ne accorgerà e ne terrà, più o meno consciamente, conto. Mentre interagiamo continuiamo a dare forma alla relazione e la forma… determina l’affinità: il grado di tolleranza di distanza che sentiamo confortevole, quanto ci sentiamo toccati o urtati, accolti o rifiutati, costretti o contenuti.
Insomma non c’è niente di male nell’essere ruvidi se si sta grattando la schiena ad un cavallo ma se l’altro è un fiammifero? Ci si può prendere di punta a meno che colui con cui abbiamo a che fare non sia delicato come un palloncino o irascibile come un orso. Sono cose che ogni scolaretto conosce e su cui spesso sbagliamo!
A volte dimentichiamo la forma che stiamo prendendo o quella che l’altro sta “indossando”.
Le forme dinamiche vitali: questi modi di essere che in ogni istante accompagnano la nostra vita, questi involucri della mente che rendono il corpo così espressivo e animato e che modellano lo stare nel mondo di ognuno di noi, sono state studiate pochissimo perché, a detta di Daniel Stern, uno che invece ci ha dedicato parecchio tempo: “Forse le conosciamo fin troppo bene. Le forme vitali sono difficili da cogliere perché ne facciamo esperienza in ogni attività da svegli. Sono oscurate dalla percezione delle emozioni che le accompagnano… come assorbite dal significato esplicito.”
Come dire (applicando quest’idea alla comunicazione oltre che alla percezione) che capita che siamo così presi da quello che vorremmo dire, così assorbiti dall’emozione che stiamo provando, che l’altro finisce sullo sfondo e non guardiamo prima di sparare, non pensiamo alla forma che stiamo prendendo in relazione a chi ascolta. Sta ascoltando? E’ pronto a ricevere quello che vorrei dire? E’ vuoto a sufficienza per accogliere quello che sto per riversare? Dov’è in questo momento, in cosa è assorto?
Sappiamo come ferire, come attutire i colpi o come amplificarli. Sono competenze che quasi ogni essere umano possiede ma a cui spesso non fa attenzione. Strumenti usati con noncuranza proprio perché dati per acquisiti. Abbiamo imparato a muoverci e non studiamo più il movimento, la natura del nostro protenderci, le caratteristiche del ritirarci. La ricerca di vicinanza e la fuga, lo stare in prossimità o l’allontanarsi sono ciò che determina le emozioni. La stessa parola e-mozione contiene l’idea di movimento: evolutivamente non è che sto vicino a qualcosa o qualcuno che ritengo caldo, comodo, rassicurante, interessante… e mi allontano da ciò che trovo irritante, sgradevole, freddo, indisponente… i giudizi arrivano dopo: prima mi avvicino o mi ritraggo e, dopo, decido che mi piace/non mi piace. C’è questo lavoro sullo spazio che, nel bambino è istintivo. Si ritrae e si mette a piangere di fronte ad un sapore sgradevole e si protende verso… qualcosa di buono. Poi, crescendo, sviluppa un sistema di giudizi che lo rende rigido su certe scelte, fissato con certi gusti. Alcuni di questi giudizi diventano delle “emozioni predefinite”: ho paura di questo e di quest’altro, mi irrito di fronte a questi stimoli, ne ricerco altri. Come posture, a volte come corazze o come maschere o simulacri, questi giudizi ci accompagnano senza essere quasi mai analizzati e, visto che non si può non comunicare, entrano nella comunicazione e, soprattutto nella metacomunicazione.
Capita così che parliamo, scriviamo, telefoniamo e mandiamo messaggi senza rifinire la forma che, mentre lo facciamo, stiamo prendendo, senza curare l’osservazione del movimento a cui stiamo partecipando. La maggior parte delle volte “ci va bene lo stesso” perché l’inconscio è talmente bravo ad improvvisare e così versatile nel riparare gli errori mentre li compie che, anche su un sentiero accidentato, gli inciampi vengono subito compensati. I guai arrivano quando certe forme che indossiamo reiterano sempre il solito canone, certi errori perseverando diventano posture, vizi, ottuse ripetizioni.
Riflettere sulla comunicazione è, innanzitutto, pensare alla forma che diamo alla nostra vitalità e all’impatto che esercitiamo sul mondo che ci circonda, agli effetti che procuriamo e a ciò che raccogliamo in cambio, a volte senza volerlo.
Visto il nome del Blog e il lavoro che faccio è inevitabile che io, ricorsivamente, ne parli.
Vi lascio, intanto, con una riflessione della scrittrice che ho citato nell’incipit; un modo diverso, più poetico, di ribadire alcuni dei concetti di cui sopra: “Quelle che non so dire è più importante di quel che dico. Trovo che il suono della musica sia indispensabile all’essere umano e che l’uso della parola parlata e scritta sia come la musica. Due tra le cose più alte che ci elevano dal regno delle scimmie, dal regno animale, minerale e anche vegetale. Sì, ma a volte è questione di fortuna.”
Di questa “fortuna”, questa sorta di saggezza nascosta che comunque assiste il nostro percorso, parlerò nei prossimi post.