Veleni della mente: Avversione

Come le persone ti trattano è il loro karma;
come reagisci è il tuo”
Wayne Dyer

Così come l’avidità è una sorta di drammatizzazione del desiderio, l’avversione è un esagerazione del distacco e dell’indipendenza. Desiderando ci protendiamo verso oggetti di cui vorremmo entrare in possesso o che non vogliamo lasciar andare; provando avversione ci allontaniamo da tutto ciò che ci sembra dannoso, molesto, minaccioso o disgustoso. E se la fame e la sete sono state la base fisiologica in cui desiderio e avidità hanno potuto mettere radici, è nel disgusto e nell’antipatia/intolleranza verso certi cibi o certi oggetti che l’avversione ha trovato terreno per crescere.

Distinguere con chiarezza la linea di demarcazione fra sano desiderio e avidità o fra distacco e avversione è un’impresa simile a quella degli antichi farmacisti che, dosando accuratamente una sostanza, ne stabilivano la capacità curativa o, al contrario, il potere di avvelenare.

Il farmaco era, originariamente, sia la cura che il veleno e la capacità di distinguere fra l’uno e l’altro, era la discriminante, l’abilità psicologica e “politica” grazie a cui la malattia poteva essere guarita e la salute ristabilita.

Infatti: “Nell’antica Atene il rito del pharmakos era usato per espellere e allontanare il male (fuori dal corpo e fuori dalla città). Per raggiungere questo scopo, gli ateniesi mantenevano a spese pubbliche alcuni poveri diavoli. Quando si verificava una calamità, ne sacrificavano uno o più come rituale di purificazione e rimedio curativo. Il pharmakos, il “capro espiatorio”, era condotto fuori dalle mura della città e ucciso al fine di purificare l’interno della città. Il male che aveva infettato la città dall’esterno è rimosso e restituito all’esterno, per sempre. Ma, paradossalmente, il rappresentante dell’esterno (il pharmakos) era ciononostante mantenuto nel cuore stesso dell’interno, la città, e anche a spese pubbliche. Per essere cacciato dalla città, il capro espiatorio doveva essere già stato dentro la città. “La cerimonia del pharmakos si svolge sulla linea di confine tra l’interno e l’esterno, e il suo compito è di tracciare e rintracciare incessantemente quella linea”.” (Wikipedia: Pharmakos)

Il confine fra interno ed esterno, una soglia! Su quella soglia desiderio e distacco svolgono il loro compito: portare dentro o distinguere-tenere fuori.

Ma, proprio come nel rito/metafora del Pharmakos greco, ciò che decidiamo di espellere è, spesso, ciò che di noi ci infastidisce: crediamo di voler allontanare qualcuno o qualcosa ma respingiamo la nostra stessa reazione. Troviamo antipatiche nelle persone cose che in noi sono diventate ombra: caratteristiche rimosse e incistate che vediamo così bene negli altri ma che non riusciamo a scorgere in noi stessi. E’ in questi momenti che il distacco si trasforma in avversione e che la cura diventa malattia: gli omofobi combattono un “gay interno” da cui cercano invano di distanziarsi “ là fuori”; i moralisti vanno a caccia di streghe che dimorano nei loro cuori e gli indigeni scansano e detestano i “forestieri”, i barbari.

Paradossalmente, proprio come nel farmaco, la cura e la malattia sono adiacenti. Dobbiamo saper distinguere anche all’interno della nostra capacità di distinguere (avere un briciolo di avversione anche per le nostre avversioni): Dove sono il dentro e il fuori? Cosa sto combattendo, quale male voglio allontanare? Quale è l’oggetto del mio astio? E’ davvero fuori?

Dovremmo imparare il distacco anche nei confronti delle nostre reazioni. Capire la differenza fra un corretto distinguersi e un compulsivo separarsi, fra una saggia separatezza e un narcisistico isolamento.

Non è un compito facile ma cosa abbiamo di meglio da fare? Qui, in occidente, dentro questa strana bolla da cui lo guerre, quelle vere, stanno fuori da un pezzo, abbiamo il tempo per interrogarci sui nemici interni , le nostre reazioni, le nostre inconsapevoli risposte. Prima di espellere potremmo meditare a lungo sulla soglia.

Avversione

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