“Possiamo trovare presenza mentale e libertà
proprio in mezzo alle gioie e ai dispiaceri,
a condizione di non afferrare la vita
con avidità né opporle resistenza”
J.Kornfield
L’accento che lo psicologo Jack Kornfield mette sulla presenza mentale e sulla libertà deriva dalla consapevolezza di quanto sia una gioia che un dolore possano creare attaccamento: afferriamo con tenacia e spesso non riusciamo a lasciar andare sia le cose che ci hanno dato piacere che quelle che ci causano dolore.
E’ un atteggiamento che si riscontra continuamente nel trattamento delle dipendenze: chi ne soffre sa che il “piacere” di un’abbuffata o di una bevuta porterà con sé più dolore di quanto ne allevia in un primo momento, eppure il bisogno di ripetere il gesto e di tenere in vita l’abitudine è tale che la volontà vacilla e l’azione scaturisce quasi da sola. La “presa” della dipendenza agisce con più efficacia del pensiero che dovrebbe porre fine al comportamento e tutti i buoni propositi basati sul ragionamento e sulla saggezza, sulla moderazione e sul buon senso, vengono spazzati via dalla pulsione e dalla brama.
Kornfield riporta l’esperienza di una sua paziente bulimica in via di guarigione che racconta di come: “All’inizio… era già una vittoria accettare il dolore e la nausea che facevano seguito ad un’abbuffata, invece di tornare a mangiare per alleviare la vergogna e il rimorso di ‘esserci ricaduta’.”
Questa paziente stava interrompendo un’anatomia della dipendenza che, funziona grossomodo così: si compie un gesto che afferra il solito oggetto (un dolce, dell’alcool, un’abitudine/vizio, un pensiero ossessivo…), si considera di doverlo lasciare andare/ci si sente in colpa per averlo afferrato/si tenta di alleviare la colpa ripetendo il gesto che in passato ha dato sollievo ma che, poi, è diventato “il problema”.
L’avidità, uno dei tre “veleni della mente”, ci fa credere che ciò che vogliamo contenga la felicità e il sollievo e che possa placare una fame che, invece, andrebbe guardata più attentamente. Quanti oggetti (e per oggetto non intendo solo la “cosa” ma, piuttosto, ciò che il soggetto considera a propria disposizione) sono in grado di riempire il vuoto? Cos’è il vuoto che si prova subito prima di mangiare, bere, assumere una sostanza, ripetere un comportamento? E’ una fame che se ne va?
Spesso ciò che desideriamo ardentemente non è ciò che ci sazia, disseta, soddisfa.
E la “presa” vuole solo se stessa: ripetiamo ciò che non siamo in grado di ricordare e, in questo senso, l’avidità è dimenticanza, incapacità di riconoscere una completezza che, quando c’era, non era frutto delle azioni che ripetiamo per ottenerla.
Questa completezza non viene raggiunta ma si presenta come un effetto collaterale ed è il frutto di una Cura: applichiamo un certo tipo di attenzione, ci dedichiamo ad un oggetto come se compissimo un rito, dimentichiamo la ricerca del risultato perché quel che conta, in quel momento, è il gesto e la cura con cui viene compiuto… come quando scriviamo, raccontiamo una storia, cuciniamo un cibo per qualcuno che amiamo. Rappresenta un momento in cui siamo presenti non tanto a noi stessi quanto al flusso: ciò che in quell’istante scorre e non ha bisogno di essere afferrato, trattenuto, ingoiato.
Il vuoto, in quei momenti non è un problema. Diventa solo il mezzo in cui le azioni si svolgono e lo spazio in cui esercitare una libertà, un determinismo, non una compulsione.
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