Un’evocazione

Al quinto piano del Museo di Arte Asiatica di Parigi, dopo enormi stanze, ai piani inferiori, colme di statue, vasellame, quadri religiosi, maschere… ci si imbatte in un’installazione che occupa due sale vuote con il soffitto occupato da decine di “aquiloni”: rappresentazioni di carpe volanti, pesci ben auguranti che, per i giapponesi, rappresentano i bambini, la loro vitalità, la loro capacità di crescere e di superare le difficoltà.

Carpe volanti

Entrando nelle stanze dalle cui finestre si scorgono, fuori, i tetti di Parigi, si ha l’impressione di uno spazio silenzioso e circoscritto. Un luogo occupato da immagini, messe lì ad arte, che comunicano qualcosa di lieve e, al contempo, denso di significati. E, come spesso accade con l’arte orientale che (per noi occidentali, almeno) sembra priva di riferimenti chiari, non si riesce ad intrappolare facilmente in un concetto ciò che l’opera vuole esprimere; diventa difficile compiere quel gesto rassicurante che ci fa dire: “ah, ecco: una crocefissione, una annunciazione, una pietà…”.

Certe immagini rimangono immagini. Non si assoggettano al lavoro costante della mente che definisce, non entrano subito a far parte del conosciuto e rimangono sospese come sogni, come immaginazioni senza parole.

Poco prima della sua morte James Hillman, in una conversazione con il curatore del Libro Rosso di Jung, Sonu Shamdasani, disse: “Quando lessi Jung per la prima volta, le parti che forse apprezzai di più erano quelle che avevano a che fare con le immagini, non con i concetti. Le frasi che mi sembravano rivelatrici: l’importanza assoluta della fantasia, le voci, l’enfasi sull’immaginazione attiva come terapia. Ma c’è dell’altro… Credo che in parte c’entri con il mio scetticismo verso i tentativi di descrivere la vita psichica in termini concettuali. Per esempio, spesso dico che non uso la parola ‘Io’. Non ne ho mai visto uno, non ho mai visto un ‘Io’. Non so di cosa si tratti. E vale per un gran numero di termini che sono diventati psicologia.”

Parlava della tirannia dei concetti, Hillman. Di quel meccanismo perverso per cui, dopo che ad una cosa viene dato un nome, dopo che si è spiccata una diagnosi e stabilito che un oggetto, un manufatto, un comportamento, un sogno, sono questo o quest’altro; dopo che si è compiuto l’ingabbiamento di ciò che è in ciò che ci sembra, ecco che ci si sente tranquilli: si può smettere di pensare e, spesso, anche di osservare.

Già Jung avvisava che “… ‘concetto’ in tedesco si dice Begriff , e Begriff significa ‘afferrare, tenere stretto’”. E bisogna stare attenti quando si afferra, bisogna essere consapevoli della presa con cui si stringe, della forza con cui si trattiene. A volte i concetti snaturano le cose, ce le fanno vedere sotto una certa luce, le incasellano in cornici che, sì, ci permettono di osservare e, a volte, ci forniscono una chiave di lettura che aumenta la nostra comprensione, ma spesso le soffocano, sostituendosi troppo in fretta all’osservazione e uccidendo la meraviglia e lo stupore.

Osservare-e-non-capire, non capire-subito ci permette di stare con l’immagine e di lasciarci guidare dall’immagine e dalle sensazioni che essa ci comunica. Ci aiuta, inoltre, a non cadere nella tentazione di astrarre troppo e di allontanarci così dall’esperienza diretta.

I concetti non sono l’unico modo per ‘tenere stretto’ qualcosa”. Spesso è più utile: “Un’elaborazione lirica. Un’evocazione. Un tentativo di trovare le espressioni adatte perché le immagini possano risuonare, parlare. Per fare un esempio, in uno dei capitoli Jung incontra un vagabondo con un occhio solo, un derelitto che alla fine muore in piena notte. Nelle riflessioni sull’accaduto, Jung parla del pezzente, dell’indigente che vuole entrare, che vuole essere accettato da lui. Arriva a pensare di aver dimenticato la propria indigenza e di non aver accettato se stesso perché ha allontanato quel vagabondo derelitto. Non tenta di tradurre tutto ciò. Non lo chiama l’Ombra come farà in seguito, ma parla di indigenza, di miseria. Permette alla parola metaforica di aprirsi, di echeggiare. […] Usa davvero la lingua della letteratura, del teatro, della poesia. Usa parole concrete per descrivere ciò che accade nella psiche, non astrazioni.” (J.Hillman, S. Shamdasani Il lamento dei morti, Bollati Boringhieri)

Fa, insomma, il contrario di quello che spesso facciamo noi psicologi: non si avvale di categorie diagnostiche, di spiegazioni da manuale, di definizioni di sindromi e di disturbi. Usa, invece, una descrizione diretta dell’esperienza, una narrazione di “cosa questa immagine mentale, questo sogno, quest’opera d’arte, questo scritto, questa musica, ha evocato in me? Cosa mi fa sentire questo incontro con… questa cosa?.”

Lo spirito dei bambini aleggia in due grandi sale che guardano sui tetti di Parigi. Nel vento dovrebbero volare, i bambini. Nessuno dovrebbe tagliare le loro ali, distruggere i loro sogni, troncare le loro vite. Andrebbero lasciti in pace, i bambini!

E le persone dovrebbero pensare davvero e interrogarsi su chi ha pensato certi pensieri che, preconfezionati, descrivono malamente il mondo e lo ingabbiano in teorie vuote e insignificanti. Dovremmo smetterla di lasciarci ipnotizzare da concetti stantii, definizioni che uccidono lo stupore e ci rendono vecchi, troppo adulti, ciechi.

Andrebbero lasciati in pace, i bambini.

 

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