In una conferenza in memoria di una sua famosa collega G. Bateson, parlando di diagnosi psicologica e di interazione fra esseri umani e dell’impossibilità di capire alcunché su di una persona se non entrando in relazione con lei, disse: “Riusciamo a dire che tipo di persona ci sta di fronte solo combinando l’osservazione delle sue abitudini comunicative con l’osservazione introspettiva del tipo di persona che siamo noi stessi quando abbiamo a che fare con l’altro.”
E’ guardando contemporaneamente dentro e fuori che riusciamo a capire qualcosa di chi abbiamo di fronte; è ascoltando la risonanza che in noi produce l’esposizione all’altro che possiamo colmare un po’ dell’abisso che ci separa.
E va da sé che, quando volgiamo l’occhio della mente all’interno, ciò in cui ci imbattiamo è anche il risultato di ciò a cui siamo stati esposti; anche il prodotto dell’ impatto e della vicinanza con le persone significative con cui abbiamo interagito e con cui abbiamo “convissuto”.
Hanno lasciato dei segni e alcuni di quei segni sono diventati dei binari lungo i quali ci muoviamo, più o meno consapevolmente, a volte con orgoglio altre volte nostro malgrado.
Alcuni di costoro sono distanti, altri sono irraggiungibili.
Ed è facile nei momenti significativi, nelle ricorrenze e quando sembra d’obbligo ricordare e guardare indietro oltre che avanti, che la memoria torni ai loro volti, al suono delle loro parole o al peso della loro presenza.
Vorremmo fossero qui e, proprio perché lo vorremmo, in un certo senso ci sono, possiamo rispecchiarci nella loro immagini e sentire l’affetto che ci lega a loro.
C’è una vecchia, celeberrima canzone dei Pink Floyd che evoca in me questo gesto: questo volgermi verso quella parte di me in cui posso sentire la relazione e colmare un po’ la distanza.
So di condividerlo oggi con molti di voi. Tanti auguri, drdedalo.