Affinità e conflitto: un’introduzione

… ogni possibile umana redenzione ci richiede
innanzitutto di stare di fronte a ciò che ci spaventa,
a ciò che vogliamo negare”
David Foster Wallace

 

Temiamo al contempo la separazione e la fusione.

La capacità di percepire differenze, di discriminare fra figura e sfondo e di distinguere fra di loro diversi stimoli è ciò che permette all’informazione di… esistere. Non ci sarebbe informazione, infatti, se non vi fosse differenza: qualcosa che distanzia il percettore dal percepito, un quid che permette a chi osserva di cogliere il cambiamento… “lui non è me; questo oggetto non è quell’altro; questa cosa è in movimento… non più la stessa di poco fa, ecc.”.

Noam Chomsky nel suo Principio della rana bollita spiega (mettendo l’accento sul valore sociale di tale principio) che quando un cambiamento avviene in maniera sufficientemente lenta, sfugge alla coscienza, non viene percepito, e non suscita per la maggior parte del tempo nessuna reazione, nessuna protesta o opposizione: se mettiamo una rana in un pentola d’acqua appena tiepida, ad una temperatura che essa trovi confortevole e alziamo molto gradatamente la quantità di calore, la rana resterà lì tranquilla adattandosi e minimizzando le differenze fino a non percepirle. E quando l’acqua avrà raggiunto una temperatura davvero pericolosa per la rana, l’animale sarà troppo stanco per reagire, non più in grado di dare una risposta adeguata… cotta a puntino, insomma.

L’incapacità di fare una differenza e di leggere il cambiamento e l’informazione in esso contenuta, il non essere una buona osservatrice e il minimizzare le differenze adattandosi, uccidono la rana.

E, molto spesso, uccidono una relazione: fanno sparire sullo sfondo quelle differenze che all’inizio, nel momento in cui la relazione è nata, la rendevano viva, interessante, piena di curiosità e “di stimoli”.

E pensare che proprio l’affinità, quella forza che ci spinge prepotentemente verso l’altro da noi perché ci piace, è stata ciò che ci ha portato a ridurre sempre di più le differenze, ad assomigliarci e a stare vicini.
L’affinità è infatti definibile come tolleranza per la vicinanza e intolleranza per la distanza: voglio stare vicino e, a volte, unito, contenuto, quasi assorbito da ciò che mi piace e preferisco prendere distanza da ciò che detesto, guardarlo tutt’al più da lontano e, spesso, distogliere lo sguardo.

Sentiamo una sorta di trasporto verso ciò che ci incuriosisce e il trasporto diventa presto desiderio se, dopo averla assaggiata, quella cosa/persona/situazione ci piace.

Ci sono addirittura cose e persone e situazioni verso le quali all’inizio provavamo un’avversione ma, siccome qualcosa ci incuriosiva, sembrava strano e distante e diverso ma ispirava comunque il desiderio di assaggiare, annusare, toccare, abbiamo deciso di superare la repulsione iniziale.

Consideriamo che qualcosa o qualcuno contenga preziose informazioni, insomma, e come quando ci immergiamo in un libro, facciamo lo sforzo di superare le prime difficoltà pur di eliminare la distanza fra noi e ciò che stiamo osservando… fino a possederlo, apprenderlo e quasi fonderci con esso. Succede nell’innamoramento, nella filia, nello “studio matto e disperato”, nelle tossicodipendenze (chi di voi è o stato un fumatore conosce l’impegno che c’è voluto per superare la nausea iniziale e per arrivare a “conoscere” il “gusto” del tabacco)… succede ogni volta che l’affinità, quella forza che ci porta verso ciò che ci piace o che decidiamo che debba piacerci, si mette all’opera e minimizza le distanze.

Diminuendo le distanze e smussando le differenze ci si avvicina e ci si aggrega. Nel corteggiamento, nei riti collettivi e iniziatici, nei patti e nelle alleanze, l’affinità è all’opera per suggellare unioni e per creare coppie, famiglie, gruppi.

Dall’altra parte, nell’ombra dell’affinità, agisce una forza che, invece, sembra perpetrare un intento del tutto diverso.

Una volta che le coppie si sono unite, le famiglie si sono formate, i gruppi aggregati e le abitudini consolidate… mentre i miti che raccontano l’unione di uomo e donna, di cielo e terra e “delle genti sotto ad una comune bandiera” celebrano l’uguaglianza, il conflitto che Eraclito definì “padre di tutte le cose” porta avanti lo scopo opposto: disgrega, allontana, pone fine alle unioni e… a volte salva la rana!

E’ ritrovando la distanza fra noi e l’ambiente, riformulando le regole della percezione e cogliendo in un modo diverso l’immagine e lo sfondo… è affinando la capacità di guardare e trovando nuovi angoli da cui osservare il mondo che ci accorgiamo della stasi e prepariamo un nuovo cambiamento.

Può essere che la rana cominci ad annoiarsi, può essere che “proprio non ci stia più dentro”: comincia col notare una differenza, magari si impegna ad uscire perché è stanca delle pareti della pentola e vuole abbellirle… a volte è un sintomo che la spinge fuori e la porta verso una nuova strada, un nuovo mondo, qualcosa di diverso, da esplorare e da conoscere. E il sintomo spesso non è che la percezione di una differenza: “ciò che prima mi piaceva adesso non mi stimola o mi mi irrita o mi spaventa… inizio a non poterne più del mio ambiente, ho visto, intravisto, qualcosa che sembra possedere altre caratteristiche, potenzialità, informazioni”… fa caldo ed esco dalla pentola o, anche, vedo qualcos’altro che comincia a farmi pensare “fuori dalla scatola”.

Conflitto e Affinità, come il solve et coagula dell’alchimia lavorano, insieme ed alternativamente, avvicinando ed allontanando.

Se l’affinità da sola agisse sulla nostra psiche rimarremmo attaccati a ciò che ci è piaciuto e dopo un po’ ogni cambiamento diventerebbe impossibile, si creerebbero alcuni rapporti simbiotici e non si scioglierebbero delle simbiosi originarie: il bambino non esplorerebbe il mondo fuori da sé restando sempre attaccato alla madre e al proprio nucleo famigliare, i gruppi non comunicherebbero fra di loro e non si formerebbero nuove relazioni.

E se solo il conflitto intervenisse nelle relazioni intra e interpsichiche, nessuna vicinanza sarebbe possibile… non ci sarebbe la pentola ma non ci sarebbe nemmeno la rana.

Accade così in questo tipo di mondo: forze opposte coesistono e, dalla danza che intrecciano, in noi e nell’ambiente in cui siamo immersi nascono le interazioni, la comunicazione, i rapporti.

E in ognuno di noi è osservabile il paradosso della coesistenza della ricerca di simbiosi e di “unione perfetta” e della tendenza ad una separatezza che ribadisce la distanza e fa della differenza una ricchezza.

Il troppo, da una parte e dall’altra porta all’Hybris: ad un eccesso di affinità che soffoca o ad un eccesso di polemos, di discordia che rende nemici e distrugge.

Un rischio tra Scilla e Cariddi con il pericolo di una una totale stasi o di un totale caos.

A differenza delle rane molti esseri umani si sono specializzati nell’arte di redimere e rimediare i paradossi dell’esistenza. Sappiamo scappare dalle pentole e costruire pentole incredibilmente sofisticate e modi per scappare anche da quelle.

E, fra i rimedi, il più atto a rendere sopportabile la lotta fra il comporre e il disfare, fra l’unire e il disgiungere: le arti (scienza compresa) intese come cura appassionata del discorso, dell’immagine, della forma, dello spazio, del suono, del movimento… come modo per avvicinarci e identificarci ma anche come strumento per continuare ad osservare e a rendere più acuti i nostri sensi permettendoci così di differenziarci, ogni volta.

 Rana

One thought on “Affinità e conflitto: un’introduzione

  1. Elena Battaglini

    Che meraviglia, Dottor Dedalo, essere stimolati a pensare per coesistenze di opposti. Sto imparando a condividere profondamente ciò che lei scrive. Come è più facile, tuttavia, seguire la logica dicotomica del nostro io prometeico che, come scrive Hilmann: “sordo a ogni richiamo se non allo squillo della tromba (…), lottando si fa strada tra scelte binarie e avanza, responsabile e impegnato, verso la luce, ricacciando via da sé l’anima e l’oscurità” (Hilmann, 1975, Re-visione della psicologia, p. 371).
    Qualche tempo fa, le avevo chiesto se il bisogno di affinità (io però l’avevo definita simbiosi) potesse coesistere con il desiderio profondo di conoscersi e di interrogarsi sulla relazione tra sé e il mondo circostante.
    La risposta che lei dà in questo post è molto profonda nei suoi chiaro-scuri e, oltre a chiarirmi ciò che è simbiosi, come sempre, lavorerà in me nel tempo (mi riservo quindi di riscriverle a riguardo).
    Una delle domande che quanto lei scrive mi induce subito a pormi è la seguente: come fare a imparare a far convivere fluidamente parti di sé, anche opposte, quando il mondo in cui viviamo chiede di “essere tutti d’un pezzo” richiede un’integrazione come dire.. monoteistica, acritica? E non mi riferisco al “modello di sviluppo neo-liberista” o ai “massimi sistemi” ma alla mia piccola quotidianità.
    Il bisogno di interrogarsi su com’è l’acqua (che meraviglia il suo post sulle “Forme Vitali e … ciò in cui sono immerse”) è un bisogno che io definisco “fame di essenza delle cose”: non fermarsi alla superficie delle persone e situazioni che si vivono, tentare di coglierne il senso in relazione alle parti più profonde di sé. E, quindi, porsi continue domande per conoscere sé stessi e tentare di non incorrere nell’hybris.
    Quest’esigenza spesso mi mette in conflitto con altri che, magari, stimo e sento affini perché queste mie domande, questo voler andare nel profondo è una cosa necessaria troppo spesso solo a me. Questo mio modo di essere mi rende a volte “popolare” e amata dai conoscenti in contesti informali e sono quindi ricercata perché sono reputata persona autentica, empatica. Ma nelle relazioni significative, quelle decisive, con la famiglia, nel lavoro la mia riflessività è considerata spesso scomoda se non pericolosa per gli assetti costituiti, interni ed esterni al sé.
    In sostanza, imparare a “pensare fuori della scatola” senza costruirsi “altre pentole”, imparare a convivere nel continuo fluire tra separazione e fusione, solve e coagula ma anche tra eros e thanatos è difficile: diventare “ciò che si è” implica anche imparare ad accettare la profonda solitudine della condizione di outsider, a rinunciare, a volte, alle affinità e al bisogno di sicurezza che si hanno in contesti significativi e, infine, a dover essere sempre disponibili a “cambiare l’acqua in cui si nuota ”.

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